di Salvatore Lo Bue
Alle volte, un gesto riassume una vita. E
allo stesso modo, una parola riassume una vita. Così è questa soaltà di
Peralta: un'attività che si realizza e si compie in un nome, in un neologismo
che io penserei di definire come nome della vita, perché è un nome impegnativo,
è un gruppo di sillabe che rappresentano una sfida enorme. Perché sogno e
realtà, in principio, sembrerebbero contrari, perché una cosa è il sogno e una
cosa è la realtà; quando qualcuno non vede bene la realtà si dice normalmente
che sogna e quando qualcuno è immerso nella realtà è lontano dal sogno. Eppure,
il sogno, con Francisco de Quevedo, Calderόn de la Barca, Cervantes e Gόngora,
diventa un elemento fondante della modernità, con una finalmente nuova
accezione, rispetto all'idea di sogno che era stata presente nel medioevo e
nell'antichità greca e latina, e cioè di un sogno produttivo, creativo. Ed ecco
la via principale per comprendere la spiritualità e il senso del discorso di
Peralta. Tutto è in un nome.
Nella Tempesta
di Shakespeare, ripetuta da Pirandello nella commedia I giganti della montagna, all'improvviso, qualcuno stabilisce che
la tempesta suscitata è una tempesta vera, nonostante non ci sia nessun
sussurro, come dice Ariel, delle ossa di coloro che sono naufragati, ma non
sono naufragati; che sono in quell'isola prigionieri, ma non sono in
quell'isola prigionieri. E come si risolve il mistero? In una magia. Prospero è
il mago, ma non il mago come lo intendiamo noi. Egli, come il mago Cotrone del
testo pirandelliano, riesce a rendere vere le cose sognate, riesce a sognare
ciò che diventerà vero. E da questa prospettiva, alla fine, ci riconosciamo
tutti nella nostra vita come in una grande recita, dove le scene cambiano.
Quale differenza c'è, allora, tra sogno e realtà; che cosa c'è di vero nel
sogno, che cosa c'è di sognante nel vero? Qui siamo in un territorio
radicalmente mistico, radicalmente platonico. Ci sono tutti gli elementi della
rivelazione presentata nel Fedone e nel Fedro: la bellezza, la visione, lo
sguardo, la memoria. E che cosa c'è di più reale delle idee platoniche? Niente,
dal punto di vista di Platone, per il quale la ousia, l'essenza, è sostanzialmente questa unità tra sogno e
realtà. Noi stessi che cosa siamo, se non questo contrasto tra la mente che
sogna e il corpo che non può permetterselo per le sue catene, per i suoi
limiti, per le sue tristi sorti. E allora noi abbiamo l'infinito sognare
dell'anima e l'infinito perdersi nella realtà del corpo e siamo infelici perché
abbiamo diviso l'anima-sogno dalla realtà-corpo. E naturalmente siamo in un
mondo in cui, non sognando, il corpo viene o esaltato in tutte le sue follie o
distrutto nella sua piena volgarità quando viene a mancare la dimensione del
sogno.
Lo sguardo è il tema di fondo di questa
soaltà di Guglielmo Peralta. È un libro molto difficile perché la struttura,
incredibilmente e intensamente stilistica, è complessa. Vi è presente una
precisa e puntuale capacità di dissolvere le parole nelle loro componenti
interne. Così, ad esempio, lo sguardo diventa s-guardo che, in virtù del
trattino che separa, isola la «s» dal resto della parola, produce tutta una
serie infinita di semanticità nuove. Questa nuova dimensione pensata da Peralta
è fortemente e radicalmente mistica, fortemente e intensamente platonica e, al
tempo stesso, moderna nella sua struttura originaria, rigorosamente secentesca.
A volte, mi ha ricordato certe cantate di Bach perché tutte le scale della
soaltà vengono in questo libro analizzate, riprese. Sembrano le pagine uguali,
ma sono come le fughe del clavicembalo ben temperato; ci sono fughe una diversa
dall'altro. Come sono opposti realtà
e sogno, allo stesso modo c'è un luogo, come dice Hegel nella Scienza della logica, in cui l'essere e il nulla coincidono, e questo luogo è il divenire. Ma quale divenire?
Non quello storico, perché la storia appartiene a un'altra dimensione, alle
cose che sono accadute e non possiamo, perciò, cambiarle. Ma c'è un modo, una dimensione,
in cui l'infinita libertà della mente, del pensiero, porta alle cose che
potrebbero accadere in un'altra dimensione. Per Hegel, questo luogo, in cui essere e nulla s'incontrano, in cui sono lo stesso, è «il morire». Quanto al
luogo, in cui sogno e realtà coincidono, esso è la poesia, è la parola. E la
poesia e la parola sono la stessa dimensione della soaltà. La soaltà è l'essenza
del poetico; è quello che nel “dvanialoka”, che è il testo fondamentale della
poetica orientale indiana, veniva chiamato il «rasa», cioè l'essenza poetica
che mette insieme ciò che non è possibile sia messo insieme: la realtà e il
sogno. (...) Gli studi di Guglielmo
Peralta sono di alta poetica. Tornando alla radice, cioè alla Genesi, dobbiamo
renderci conto che tra il Padre e il Figlio c'è la stessa differenza che c'è
tra il sogno e la realtà. Perché Dio è il Sogno, il Figlio è la Realtà. Quando
si arriva a creare il mondo, non viene detto: Dio creò; quando creò il cielo
Dio disse: sia la luce, e la luce fu. Non esiste un creare senza un dire, non
esiste un Dio o creatore senza la sua parola, non esiste un padre senza un
figlio, ma soprattutto non esiste niente senza l'amore e lo spirito. E
quest'amore è ciò che impregna ogni pagina di questo libro di Guglielmo.
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