giovedì 31 marzo 2016

Francesco Pappalardo, "Dal banditismo al brigantaggio" (Ed. D'Ettoris)

di Domenico Bonvegna

Anche se ancora bisogna fare molto per far conoscere la storia degli Insorgenti, tanto è stato fatto in occasione del bicentenario della Rivoluzione Francese. Infatti nel 1989, vi è stata una rinascita degli studi dei moti popolari antirepubblicani e antifrancesi del 1799. Un apporto fondamentale a questi studi è stato dato dall'ISIN, l'Istituto Storico dell'Insorgenza, fondato a Milano nel 1995, poi denominato, ISIIN, Istituto Storico dell'Insorgenza e per l'Identità Nazionale. L'Istituto sta facendo un lavoro rigorosamente ben documentato da diversi studiosi, tra cui lo stesso Pappalardo, autore del testo pubblicato nel 2014 da D'Ettoris Editori, “Dal banditismo al brigantaggio”. A cura dell'istituto, si può accedere in rete a un ricco sito internet, Identitanazionale.it, diretto da Oscar Sanguinetti.
Le caratteristiche generali delle Insorgenze.
Le insorgenze popolari contro le truppe napoleoniche, secondo Pappalardo, “costituiscono forse la prima eloquente modalità di espressione, in Italia e nei fatti, del conflitto fra società tradizionale e modernità politica”.Peraltro testimoniano che nonostante ancora non esisteva un organismo statuale unitario, cioè una nazione italiana,“esisteva già con una precisa identità religiosa e culturale, che costituisce la premessa indispensabile all'unità di un popolo”. Inoltre Pappalardo fa notare che la popolazione italiana, nonostante le diversità e i contesti diversi, ha reagito al nemico francese, non solo perchè straniero, ma anche e soprattutto“perchè portatore di una concezione del mondo ostile alle proprie tradizioni religiose, culturali e politiche”. Accade la stessa cosa anche negli altri Paesi europei, dove le popolazioni colgono il carattere sovversivo delle invasioni napoleoniche, che non intendono impadronirsi soltanto del potere,“ma anche servirsene per cambiare il modo di pensare dei sudditi”. Pertanto, scrive Pappalardo, queste popolazioni,“reagiscono, con un moto istintivo e talora confuso, rifiutando, anche con le armi, l'imposizione di un'ideologia, dunque di uno stile di vita”.
La reazione più nota all'ideologia rivoluzionaria dei principi dell'89 si è avuta nel Regno di Napoli. Qui i principi della rivoluzione francese avevano attecchito sui nobili, spesso ridotti a cortigiani e semplici proprietari terrieri, “decorati di titoli pomposi e sempre meno significativi, desiderosi soltanto di mantenere intatti i propri privilegi senza fornire alla comunità un corrispettivo di servizi”. Dallo sfaldamento dell'antico sistema ne trae beneficio un nuovo ceto, quello “borghese”, composto in prevalenza da avvocati, negozianti e professionisti. In nome delle idee illuministe fanno incetta di terre, grazie sopratutto all'usura e all'incameramento dei beni ecclesiastici. In pratica per Pappalardo, si è interrotto il contatto esistenziale, quella solidarietà fra signori e contadini, che era stato la caratteristica fondante della società dell'Antico Regime. Infatti il ribellismo di fine XVIII secolo si scaglia contro i nuovi usurpatori, i nuovi ceti in ascesa, che mettevano in discussioni secolari equilibri sociali. A questo proposito scrive lo storico Spagnoletti: “Intere comunità locali si sollevarono contro il peso della fiscalità crescente, contro il servizio militare, contro la perdita di controllo nell'utilizzo delle risorse locali, contro l'eccesso di centralismo e di burocratizzazione nei rapporti civili e amministrativi”.
Sostanzialmente la reazione popolare, non è antifeudale né antiaristocratica, “ma è rivolta contro la nuova mentalità rivoluzionaria, che imponeva un'economia senza vincoli corporativi e senza remore morali, infrangeva i legami esistenti fra i diversi ceti e veicolava una cultura estranea e avversa alle tradizioni civili e religiose del paese”. Ecco perchè certa storiografia si scandalizza nel constatare le frequenti resistenze che queste popolazioni “oppongono a quei cambiamenti politici ed economici che secondo gli illuministi avrebbero dovuto portare loro benefici consistenti”.
Pappalardo nel libro precisa che fra l'Insorgenza e il banditismo esiste un legame costante, anche se sono due fenomenti distinti. “Il banditismo, manifestazione talvolta di devianza e talaltra di protesta 'politica', è una costante della storia moderna europea, che preesiste all'Insorgenza; ma questa vi si alimenta e, a sua volta, ne determina la moltiplicazione e la propagazione”. Tuttavia le leggi repubblicane e imperiali francesi hanno creato “categorie di fuorilegge inediti, come i renitenti alla leva o i proscritti politici e tutti quelli che, opponendosi al nuovo ordine rivoluzionario, sono definiti 'briganti'. Questo nome è stato dato ai vandeani realisti nel 1793.
La storia delle Insorgenze.
L'insorgenza è un fenomeno che coinvolge l'Europa ovunque giunge la Rivoluzione. Sinteticamente vanno ricordate, le rivolte nella francia occidentale, dalla Vandea alla Bretagna, negli anni 1793-1794 e 1799-1800. Poi la sollevazione generale dei contadini della riva destra del Reno, nel 1796; la rivolta di otto cantoni della Svizzera, sei dei quali cattolici, nel 1798 e nel 1799. E poi la rivolta di Andreas Hofer nel Tirolo nel 1809, infine, forse quella più conosciuta, la grande insurrezione della Spagna, dal 1808 al 1813.
Mentre per quanto riguarda l'Italia, l'Insorgenza si è manifestata in tutta la penisola, tranne la Sardegna e la Sicilia, perchè i francesi sono stati respinti.Viene comunmente suddivisa in due fasi. La prima in reazione all'arrivo delle armate francesi repubblicane e poi quella del periodo napoleonico (1804-1814). Il lavoro solido e aggiornato di Pappalardo inizia dalla rivolta dei “barbetti”, i montanari del Nizzardo, poi si passa ai contadini di Pavia e di Lodi, di Como e di Varese, le valli bergamasche e quelle bresciane. Poi seguendo l'avanzata delle truppe francesi,insorgono le Romagne: Imola, Faenza, Cesena e Lugo. Quindi le “Pasque Veronesi”. Si verificano insorgenze in Umbria, nel lazio, a Napoli e le mille insorgenze del Regno, che poi confluiranno nell'epopea della Santa Fede del cardinale Fabrizio Ruffo.
“L'oocupazione rivoluzionaria, specialmente negli anni fra il 1796 e il 1799, viene caratterizzata dalle brutalità compiute contro gli insorgenti e contro i popolani in genere, non chè dalla sistematiche spoliazioni del patrimonio artistico e devozionale della penisola”. Per Pappalardo “meriterebbero più attenzione sia il saccheggio di moltissimi capolavori da parte delle armate di Napoleone sia la nascita in Italia delmuseo moderno”. Impressionante il quadro della guerra tracciato dallo storico Carlo Zaghi nel 1809. Naturalmente qui non possiamo dilungarci nei particolari, la lettura del volume di Pappalardo potrà dare un quadro abbastanza esaustivo. Scrive Benedetto Croce, quando l'esercito rivoluzionario francese invade il Regno di Napoli, la “monarchia napoletana, senza che se lo aspettasse, senza che l'avesse messo nei suoi calcoli, vide da ogni parte levarsi difenditrici in suo favore le plebi di campagna e di città, che si gettarono nella guerra animose a combattere e morire per la religione e pel re...”. Napoli, mentre il sovrano si rifugia a Palermo, viene conquistata dopo tre giorni di scontri sanguinosi tra i francesi e la popolazione, viene proclamata la repubblica, cui aderiscono intellettuali illuministi, chierici e prelati di simpatie giansenistiche, rappresentanti del foro e delle professioni provenienti dai circoli massonici. Il popolo invece rimane fedele al sovrano ed è pronto a insorgere al momento opportuno.
La rivincita arriva con l'armata della Santa Fede del cardinale Ruffo, sbarcato in Calabria, inizia a riconquistare il Regno, marciando sotto il vessillo della Croce. “La religione, il suo prestigio personale e il richiamo al re costituiscono una miscela esplosiva che Ruffo sa utilizzare accortamente”.Durante la marcia del cardinale, collabora attivamente all'impresa anche un altro straordinario combattente, Michele Pezza, detto “Fra Diavolo”. Il 13 giugno 1799, festa di Sant'Antonio da Padova, scelto dalle masse sanfediste come protettore, il cardinale entra a Napoli liberata. Intenzionato a pacificare la nazione, raccomanda indulgenza per coloro che avevano sostenuto la repubblica, ma il popolo minuto, che non aveva dimenticato i saccheggi, le brutalità, e i massacri, si vendica ferocemente dei suoi nemici.
Pappalardo citando il generale francese Paul-Charles Thiebault, uno dei protagonisti della campagna militare contro il Regno napoletano, fornisce la cifra di “più di sessantamila morti”.

mercoledì 23 marzo 2016

Vito Mauro, "La luna crollerà" (Ed. Thule)

ANSIA DI ARCANO TRASCENDENTE NELLA POESIA DI VITO MAURO

di Antonio Martorana

Se la voce della poesia è per Mario Luzi «la voce del risveglio: il risveglio dal letargo dell’assuefazione e dell’indifferenza», la silloge di Vito Mauro La luna crollerà (Palermo, Thule, 2012), vero “diario intimo” in cui confluiscono “pensieri in versi” scritti nell’arco di un quarantennio, ne è una conferma.
A provocare il “risveglio”, nel caso specifico, è una folgorazione, che, squarciando l’abisso di tenebra, svela all’Autore il mondo dell’Oltranza, suscitando in lui un’irresistibile attrazione verso il richiamo fascinoso e possente del Mistero. È come se nella sua anima venisse a cadere improvvisamente il grande velario dietro cui si nascondono la Verità e il Bene: quella Verità che, trascendendo ogni terrena dialettica, riconosce nel dogma del Verbo che si fa carne il senso meraviglioso dell’esistenza; quel Bene che, guarendo l’uomo dalla lebbra del peccato, lo guida sulla strada maestra che porta all’arcano trascendente.
La metafora del “risveglio” come riscatto e liberazione dal male mi ricorda un ispirato passo di Gaetano Giuseppe Amato, che ben si adatta a quello che è il nucleo magmatico della poetica di Vito Mauro:«Così s’accende la vita: essa non è che un risveglio magico, un levarsi dalla notte dell’eterno alla luce del tempo, l’improvviso divampare d’un rogo che s’espande in luce e calore prima di sprofondare nell’abisso della quiete. La sua durata è un batter di ciglio, una parola, un sospiro, ma in così breve arco lampeggiante realizza tutta se stessa.». (G. G. Amato, La filosofia quale propedeutica al problema teologico, Caltanissetta – Roma, Salvatore Sciascia Editore, 1962, p. 15).
Quella che Joseph Margolis definisce la “specificità antologica” di un’opera, consiste qui in una visione della vita come accettazione incondizionata del supremo dogma dell’Essere. La fede si rivela viatico infallibile per venire a capo della problematicità che è l’immanente ragione del Cosmo, consentendo l’approdo all’inconoscibile quale presupposto di ogni conoscibile. Questo significa toccare il livello più alto di Conoscenza, che ci ricorda Tommaso Romano nella Prefazione, con consueta forza illocutoria, rappresenta, unitamente alla virtù,«il fulcro dell’avventura unica e irripetibile della vita.».
Nell’opera di Mauro la luce della Fede si riverbera su tutte le manifestazioni del vivere: l’amore, il sociale, il bisogno di pace, la bellezza del Creato, la ferma condanna del vacuo e dell’effimero, di tutti gli idola, che minacciano di trascinare il mondo in una deriva inarrestabile.
Volendo considerare un piccolo campione rappresentativo dei testi, colpisce il messaggio lanciato dal componimento che ha per titolo: 3.
Nella brevità della sua struttura trinaria qui viene posto l’accento sull’indissolubilità del legame tra l’esistenza di ognuno di noi, dalla nascita alla morte, con il “dogma enigmatico” della Santissima Trinità.
In Ai miei si coglie un sentimento di tenera devozione filiale da parte dell’Autore nei confronti dei genitori nella consapevolezza che in ogni momento ed in ogni luogo risplende su di essi il raggio del vivente Amore infinito.
Di una sfavillante luce di trascendenza brilla in Asterischi la “soave stella”, che, come inesauribile fonte di beatitudine trapunta i sogni del poeta.
Fiducia nell’attesa del Giudizio (Riflettendo sul Salmo 75) è una serena meditazione su come prepararsi a quell’evento ineluttabile che sarà il redderationem, quella resa dei conti che vedrà l’abbattersi della collera divina sugli empi, per punirli delle loro “sfrenate ambizioni”, dei loro “arditi pensieri” ed “avidi progetti”. È una prospettiva apocalittica (“divino terremoto”) della quale però i puri di cuore non hanno di che preoccuparsi (“mai aver paura”), perché, come si legge nel Salmo, «quando Dio si alza per giudicare» è «per salvare tutti gli umili della terra». Così «gli scampati dall’ira» potranno far festa all’Eterno Padre.
Il monito a ribellarsi al materialismo dilagante, per cui oggi sentiamo parlare di “morte della luce” e di “perdita del centro”, suona come il sibilo di un colpo di frusta sulla schiena di uomini narcotizzati dall’”avere” e dimentichi dei valori dell’”essere”.
Attraverso un rapido scorrere di coppie oppositive («non più coscienza collettiva, / ma incoscienza privata… non più poesia dello spirito, / ma materialità… non più rivoluzioni, / ma pie illusioni…», si delinea uno scenario di dissoluzione in una società abbagliata dal potere, dall’apparire, dal falso successo, «tutti elementi» commenta Tommaso Romano, «che conducono inevitabilmente all’allucinata depressione.». Da qui il perentorio invito con cui si chiude il componimento REAGIAMO.
Vito Mauro tratta i suoi temi potremmo dire con un piglio carisma oracolare che evoca il elargito ai poeti, di cui avevamo consapevolezza gli antichi vati. Georg Fohrer ricorda infatti che «a quanto sembra, nessun profeta israelita che volesse parlare in nome di Jahvè poteva trovare ascolto se non si esprimeva in versi.».
Il quadro valoriare tracciato da Mauro è fieramente contrastivo nei confronti della progrediente desertificazione dello spirito, cui oggi assistiamo sgomenti ed accende una luce di speranza, nel porci dinanzi al cogente imperativo etico di una scelta, che non può non essere quella della Bellezza salvifica. È un paradigma chiaramente riconducibile all’affinità elettiva intercorrente tra il Nostro e Tommaso Romano di cui egli è il più stretto collaboratore.
Vito Mauro rientra infatti nella folta schiera di poeti e artisti che si muovono nell’orbita avvincente della “lezione” di questo indomito e orgoglioso custode della cultura spiritualista, condividendone il principio di base al quale l’atto creativo va inteso come adempimento di un preciso dovere magisteriale: svelare la via d’accesso alla realtà più profonda dell’uomo. A ben vedere, si tratta di un impegno che è una risposta esemplare all’appello rivolto da Sua Santità Giovanni Paolo II agli artisti nella Sua lettera del 4 aprile 1999, Pasqua di Resurrezione: «la vostra arte contribuisca all’affermarsi di una bellezza autentica che, quasi riverbero dello spirito di Dio, trasfiguri la materia, aprendo gli animi al senso dell’eterno.».
La coscienza di ogni artista viene chiamata a riconoscere che «la bellezza è la vocazione a lui rivolta dal Creatore.». Ed ogni forma autentica d’arte, precisa Karol Wojtyla, rappresenta una «via di accesso alla realtà più profonda dell’uomo e del mondo. Come tale, essa costituisce un approccio molto lucido all’orizzonte della fede, in cui la vicenda umana trova la sua interpretazione compiuta.».
Da sempre il pensiero estetico romaniano ha sostenuto quei principi che hanno trovato una sintetica ed esaustiva sistemazione nella lettera pasquale di San Giovanni Paolo II del 4 aprile 1999.
Potremmo dire che uno dei punti cardine di detto pensiero è l’importanza attribuita alla coincidenza dell’intuizione poetica con l’intuizione mistica.
Quest’ultima segna, rivela Gaetano Giuseppe Amato, «l’inspiegabile e miracolosa liberazione dell’uomo dall’impaccio dei sensi, con la conseguente impossibilità di trovare nell’espressione sensibile i termini adeguati a rivelarsi all’umana intelligenza  ciò, tuttavia, non ha impedito che i misteri di tutti i tempi tentassero di tradurre nella loro lingua le esperienze dell’anima con espressioni prese in prestito alla poesia»(op. cit, p. 230).
L’accostamento di intuizione poetica ed intuizione mistica, perseguito da Romano e dagli autori che ne seguono il magistero, come momento apicale del processo creativo, mi ricorda il connubio tra preghiera e poesia di cui parla Henri Bremond nel suo famoso saggio del 1926, Prière ed poèsie (tr, it., Preghiera e poesia, Milano, 1983).
Quanto detto ritengo possa offrire la più adeguata chiave di lettura per cogliere il messaggio contenuto nella silloge La luna crollerà.

lunedì 21 marzo 2016

Adalpina Fabra Bignardelli, “Dignità e condizione della donna. Un cammino dalla dote ai diritti” (Ed Thule)

di Calogero Messina

Dai documenti d’archivio e da contributi di vario genere, di tempi diversi e anche recenti, Adalpina Fabra Bignardelli ha potuto raccogliere una buona messe di notizie, e per il suo bisogno di sapere e per fornirle a chi vuole apprendere, le ha riunite insieme, forse con una certa fretta: così si potrebbero spiegare le distrazioni, le imprecisioni di cui la stessa Autrice si scusa con il suo lettore, Clicca qui per continuare a leggere

sabato 19 marzo 2016

Tommaso Romano, "Café de Maistre" (Ed. ISSPE)

Una sedia Thonet, un tavolino marcato Ducrot, una penna (uso ancora la penna, pur non demonizzando computer e internet), assiso in un caffè panormita nei pressi del Foro Italico a due passi dal mare, in un contesto pie­namente fedele all'Art Nouveau, con arredi originali e tirati a lucido, sotto le insegne e gli sguardi severi di coloro a cui s’intitola, nientemeno che ai De Maistre, sì ai due aristocratici savoiardi, francesi di lingua ma non di patria, due fratelli geniali: il più celebre Joseph (Chambery 1573 - Torino 1821) e il non meno grande Xavier (Chambery 1763 - San Pietroburgo 1852). Clicca qui per continuare a leggere

martedì 15 marzo 2016

Giorgina Busca Gernetti, "Echi e sussurri" (Ed. Polistampa)

di Marcello Falletti di Villafalletto




   
La vasta opera di Giorgina Busca Gernetti ha da sempre trovato spazio nelle pagine di questa nostra rubrica non esclusivamente per un mero gesto di amicizia, ma proprio per le profonde qualità di scrittrice che da sempre abbiamo riscontrato.
     Nata a Piacenza, si è laureata, con lode, in Lettere Classiche all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano ed è stata docente di Letteratura Italiana e Latina nel Liceo Classico di Gallarate (VA), dove risiede. Ha studiato, inoltre, pianoforte nel Conservatorio Musicale piacentino. Fin dall’adolescenza ha iniziato a comporre liriche e la prima pubblicazione risale al 1998.
     Questi “Echi e Sussurri” arrivano a noi dopo un lungo e consistente itinerario letterario che l’ha portata a raccogliere consensi, onori, riconoscimenti in tutta la nazione e fuori; collocandola nell’empireo dei maggiori di questi nostri ultimi tempi.
     Il corposo volume, dopo una dotta Prefazione di Marco Onofrio, diviso in cinque parti, si apre con: Fiori della notte; Alba dell’anima; proseguendo con: Seduzioni; Immagini elleniche; Il canto di Orfeo, si chiude con alcune note biografiche.
     Mi piace aprire questa recensione con quanto scritto nell’incipit della prefazione, condividendone pienamente l’assunto: «Giorgina Busca Gernetti è una “sognatrice dell’essere”; ma non si perita di appartenere anche al divenire, scandagliando le profondità nascoste dalla maschera apparente. Cerca l’eterno nel tempo, e questo è il movimento del suo sguardo: inseguendo la chioma della sua stella, affonda gli occhi in cielo e scopre l’iridescente complessità che innerva ogni atomo del mondo». Una “sognatrice”, utopista, come da sempre, appare chi scrive poesie; dove nel proprio mondo, quasi irreale, cerca di portare quelli che sanno leggere e amare ogni singolo verso: per non dire che cerca di condurvi l’umanità intera. Questo è il primo impatto con la poetica della nostra Autrice, fondato, anzi ben piantato in una profonda formazione classica che lentamente si addentra nei meandri di realtà quotidiane, rendendola attuale e presente. Da un irreale che rasenta l’onirico, lentamente traspare una viva attualità che mostra di saper conoscere e interpretare con vivo interesse; fino a trasfonderla in uno, verso questi “Echi e Sussurri” che diventano: grida e invocazioni.(Alla luna) Dimmi, candida luna / che tacita ascolti pensosa / parole di pena, d’angoscia: / qual sorte m’attende alla meta? // È lunga la strada alle spalle, / ma breve dinanzi ai miei passi. / È ormai breve, lo sento. // Non temo “quel” passo, lo sai, / mia candida vergine luna, / ma volgo la mente dubbiosa / alla sorte che afferra / chi giunge alla Soglia fatale, / senza ritorno. // Sarò foglia, ruscello, / farfalla che muta i colori / nella luce cangiante / dell’aria in un giorno d’estate? // Sarò un nulla nel Nulla? // Dimmi, pallida luna / che tutto contempli e comprendi: / oltre la Soglia permane l’angoscia / che giorni terreni avvelena? // La quiete, la pace io attendo, / il Nulla, piuttosto, nell’Oltre, / purché svanisca  quest’atra amarezza, / quest’angoscia che l’anima tormenta. Leopardiani tormenti assillano, cercando soluzioni a chimeriche attese che da sempre tormentano la mente umana: nell’illusoria speranza di ritrovarvi risposta, anche attraverso inanimate creature che affascinano, attirando con aleatoria prodigiosità.
     Una moderna ansietà pervade quasi tutto il volume, fino a trasformarsi in appassionata visione che anima: vita, persone, luoghi, miti, misteri e realtà di una peregrinazione affrontata con coraggiosa vitalità, tanto da giungere a non sperate destinazioni che, solamente un vero poeta, pur restando eterno sognatore, insegue, continuando a sperare per il resto dei suoi simili.
     (L’eterno canto di Orfeo) Ovunque è poesia. Ovunque guardi / con animo commosso ed occhio attento / al più piccolo fiore tra le pietre / sbocciato a stento, ma con vital forza / d’aprirsi un varco, d’innalzarsi al cielo, / c’è poesia fiorente intorno ai petali / come intenso profumo in primavera. // Orfeo risorto, non mai morto Orfeo. / Perenne il canto suo nella natura, / nel cielo, nelle stelle, nella luna / piena, calante, oppure nuova e tacita / nella valle, o crescente sopra i colli / come sottile falce all’orizzonte. / Ovunque è poesia. Eterno è Orfeo.
     Eterno il mito, così com’è l’astro notturno che attira, fascinosamente, l’animo sognatore di chi scopre che tutta la vita continua ad essere: costante poesia. Quella poesia che è l’essenza stessa di Giorgina Busca Gernetti che, pur addentrandosi, non più silenziosamente, in perenni quesiti, rivela esaurienti risposte. Facendolo con l’eleganza del verso elegiaco ma straordinariamente moderno, altrettanto gioioso e fortemente penetrante da farsi apprezzare fin dai primi versi.
     “Echi e sussurri” da assaporare voracemente e da ruminare lungamente; fino a scoprirne il singolare fascino di una eterna e costante melodia che avvolge ogni fibra, ridonando vigore e valore, a indiscussi sentimenti che sembrano essere, quotidianamente, scomparsi e che solamente pochi ma veri poeti, oggi, sanno affidarci. Conserviamoli come grandi tesori, non imprigionati in freddi e inanimati forzieri, ma trasfondendoli come eterno fuoco di una vitale fiamma che sembra spegnersi sempre di più.
    Giorgina fa, abilmente, del verso una condizione, un’essenza primaria, come se fosse ossigeno vitale: “…Tu, voce mia, sai dire ciò che l’animo / sente soffrendo o fremendo di gioia. […] Amica mia, restami accanto ancora / nei giorni buî del mio disinganno, / spente le vaghe illusioni di luce. / Tu,  degli affanni mia consolatrice, /  con il miele dei versi il mio dolore / lenisci e sana, mio divino farmaco. […]; ricollocando, l’arte poetica, a quel primario stato che, da sempre ha avuto, nell’animo fortemente ispirato dei grandi del nostro passato.
     «In questo libro si celebra ampiamente la potenza trasfigurante del canto, – ha, giustamente, scritto Onofrio – che il poeta non inventa a capriccio, ma raccoglie dal cuore stesso delle cose, e ascolta, e trascrive con fedeltà necessaria, come sotto dettatura, impossibilitato a fare altrimenti. La musica “nasce nell’animo” come un “soffio divino” che “sfiora labbra ridenti”. Il poeta deve abbandonarsi confidente al cuore delle cose, se vuole che esse gli porgano il cuore – per confidenza, per sovrabbondanza di energie. Chi rimane chiuso nella gabbia gelida dell’intelletto resta ognora precluso ai doni della rivelazione(pp. 12-13)».
     Non casualmente, la nostra Autrice, è anche buona musicista; per questo le sue ispirazioni godono di una singolare melodia che non resta affatto rinserrata in gelide stie, ma prorompe magistralmente verso eterogenei lidi che ne sanno conquistare e apprezzare tutto l’immenso valore.

lunedì 14 marzo 2016

"Poeti Italiani del nostro tempo" (Ed. Anscarichae Domus)

di  Marcello Falletti di Villafalletto

    Eccoci nuovamente a presentare una raccolta di liriche. Il decimo volume di una storia che affonda le radici in oltre venti anni di impegno a favore della “poesia” e nel ricordo, mai sopito, di un profondo cantore quale fu il nostro Danilo Masini.
    “Carmina non dant panem”, recita un antico proverbio latino, per noi, invece, versi e poesie sono nutrimento profondo dell’anima.
     Questa miscellanea raccoglie la maggior parte dei lavori presentati alla 10a Edizione del  2014, del Concorso Internazionale di Poesia, dedicato al nostro Accademico Honoris Causa, Danilo Masini, che ha avuto per tema: Poesia e Vita e brevi accenni artistici letterari sui partecipanti. Essendo la competizione biennale, abbiamo raggiunto, con questa pubblicazione, il significativo traguardo di due decenni; durante i quali abbiamo visto sfilare un notevole gruppo di poeti provenienti da tutte le parti d’Italia, europei e da altri continenti.
      «C’è da essere soddisfatti sia per l’incremento dei partecipanti, sia per la costanza e per aver raggiunto quell’internazionalità che ci eravamo proposti proprio all’indomani della scomparsa del nostro amico e poeta montevarchino. Non è il caso né di fare un bilancio, né eccessivi trionfalismi, tantomeno un tuffo indietro; poiché abbiamo ancora intenzione di proseguire con entusiasmo il cammino intrapreso: guardando serenamente fiduciosi a quel futuro che ognuno auspica migliore; costellato ulteriormente di nuove edizioni e con l’ansioso desiderio di poter leggere tante altre belle liriche.
     Vogliamo unicamente ricordare che, anche per questo appuntamento, quella che ha vinto in assoluto è stata la poesia: indiscussa protagonista del premio; alla quale si sono sottomessi, in maniera seria e competente, non solamente i poeti partecipanti, ma anche tutti i componenti la giuria esaminatrice. A questi, per primi, va il sentito ringraziamento, unito al plauso per quanti, nonostante le difficoltà dei tempi, hanno saputo svolgere il compito in modo ottimale e ammirevole.
     L’argomento o tema “Poesia e Vita”, al primo impatto, poteva sembrare arduo e, con il senno di poi, avremmo avuto anche qualche ripensamento che è stato fugato con il giungere delle prime composizioni; dalle quali abbiamo recuperato coraggio e, speranzosi, abbiamo visto affluire un ampio florilegio di versi che esaltano la poesia e nello stesso tempo la vita. L’essenziale di quanto è stato poi apprezzato, premiato e assaporato è oggi parte di questa antologia che non vuole essere un mero volume poetico ma uno scrigno prezioso di quei tesori intellettuali: frutto di anime pensanti, stimolate e generose allo stesso tempo. Perché senza i poeti non avremmo potuto fare “festa alla poesia”: che rimane, unitamente al doveroso omaggio a Danilo Masini, il nostro più vivo desiderio e l’impegno primario.»; ho voluto scrivere proprio all’inizio della Prefazione, giusto per ribadire il pressante impegno che continua a spingere gli organizzatori, la giuria esaminatrice, e la città natale del Masini, verso un profondo amore nei confronti della poesia e di coloro che si cimentano in questa antica e gloriosa arte.
     La prossima primavera, a Dio piacendo, presenteremo l’elegante volume, così come abbiamo sempre fatto nelle edizioni precedenti. Verrà poi distribuito, non solamente ai poeti partecipanti ma anche a tutti coloro che vorranno assaporarne tutti i piaceri e sentimenti che esprimono le liriche in esso contenute: a pubbliche e private biblioteche e a quelle di altre importanti istituzioni nazionali ed estere. Affinché, le buone liriche, di questa antologia non restino circoscritte in un ambiente limitato e ristretto ma possano essere «lette e ruminate; ripensando a quello splendido privilegio che è la vita: assaporandone profondamente l’essenza e vivendola come un’eterna armoniosa poesia che, seppur traballante, nella rima non scoraggia mai chi saprà apprezzarla fino in fondo».
     Chi fosse interessato a ricevere il volume, potrà richiederlo direttamente alla Gran Cancelleria Accademica o alla stessa Redazione della nostra rivista: Casella Postale 39 - 50018 Scandicci (Firenze).  

domenica 13 marzo 2016

Guglielmo Peralta, "La via dello stupore" (Ed. Thule)

di Leopoldo Attolico

Caro Guglielmo, quello che mi impressiona favorevolmente in questo tuo lavoro è la tua attitudine / impegno gnoseologico di andare oltre te stesso, oltre le tue/nostre apparenze, oltre il codificato / omologato dalla Storia e dalla letteratura, dalla filosofia ecc. Realtà, sogno, utopia chiamati con il loro nome: la tua capacità definitoria ( mai apodittica ) delinea i vari referenti, i riferimenti culturali, interagisce con il tuo sguardo profondamente umano e approda ad una luminosa problematicità: il nostro essere al mondo fedeli ad una idea di Bellezza e di Spiritualità in continuo attrito con la negatività che vorrebbe proscriverle. Credo che questo tuo impegno, così articolato, fervido, a tratti caloroso e appassionato, delinei in ultima analisi una dichiarazione di poetica che si fa stupore di esistere e di durare oltre le parole e le singole loro valenze, in direzione di una "verità"condivisibile, certamente non peregrina. Il tuo lavoro si configura quindi come opportunità reale, concreta, di conoscenza, di riflessione, di confronto e di resa; quello che latita in questa nostra vita spesso - troppo spesso - senza fine, senza scopo, sempre malgiocata. - A te un grazie e un abbraccio.

venerdì 11 marzo 2016

Tommaso Romano, nuovo volume: "L'Apocalisse e la Gloria"

E' stato pubblicato riunito in volume il testo di Tommaso Romano "L'Apocalisse e la Gloria" già apparso, in parte, a puntate nel blog www.mosaicosmoromano.blogspot.it
Può essere letto e scaricato gratuitamente o richiesto alla mail fondazionethulecultura@gmail.com


mercoledì 9 marzo 2016

Vito Tanzi, "Italica" (Ed. Grantorino)

di Domenico Bonvegna

Studiare la Storia non è solo accademia, a volte può essere utile per il presente. Anzi forse è valida la frase che ripete spesso il pensatore cattolico e fondatore di Alleanza Cattolica, Giovanni Cantoni:“Chi sbaglia Storia, sbaglia politica”. E un libro che potrebbe aiutare il mondo economico e politico in Italia, è sicuramente il  documentato testo dell'economista Vito Tanzi, “Italica. Costi e conseguenze dell'unificazione d'Italia”, (Grantorino libri S.r.l. 2012)
Il professore Vito Tanzi in questo volumetto spiega che il piccolo Regno di Sardegna nel 1860 fu salvato dal fallimento grazie all'unificazione dell'Italia. Infatti i dirigenti piemontesi trasferirono tutti i propri debiti al nuovo Regno italico. In occasione del centocinquantenario dell'Unità d'Italia, il maggior quotidiano economico nazionale, Il Sole 24 Ore di Milano, commentando le cifre dell'indebitamento del Regno di Sardegna nel 1861, osserva che “[...] è stato il Regno dei Savoia a portare nella nascente Italia la cultura del debito facile, della finanza allegra”. Successivamente aggiunge: “Si può trarre la conclusione che per il Regno di Sardegna la creazione di un'Italia unita fosse anche un modo per aggiustare i conti”.(Morya Longo, Nord “padre” del debito pubblico, in Sole 14 Ore, Milano, 17.3.2011)
Praticamente alla data dell'unificazione, il Regno di Sardegna aveva un debito pubblico pari al 67 per cento del Prodotto Interno Lordo, per di più dilatatosi del 565 per cento fra il 1847 e il 1859 a causa dei preparativi bellici, nonostante l'imposizione di nuove tasse, la vendita di beni demaniali e l'acquisizione forzata delle proprietà ecclesiastiche. Questi conti sono stati aggiustati incamerando le ricchezze del reame più ricco di allora, il Regno delle due Sicilie dei borboni, che invece aveva un debito pari al 29,6 per cento del PIL e un bilancio rigoroso. Fu di questo parere, il deputato conservatore e cattolico irlandese John Pope Hennessy (1834-1891), che nel Parlamento britannico, nella seduta del 4 marzo 1861, accusava il suo governo di aver favorito e finanziato il partito rivoluzionario nel Mezzogiorno d'Italia. Infatti si può leggere, “la conquista piemontese della Penisola ispirata dai poco nobili motivi di risolvere la grave crisi finanziaria che attanagliava il regno di Vittorio Emanuele [di Savoia 1820-1878)] con l'acquisizione delle risorse degli altri Stati italiani che si trovavano tutti in una più florida situazione economica” .
Vito Tanzi, è stato professore di economia e di finanza pubblica in varie università americane, direttore del Fiscal Affairs Department del Fondo Monetario Internazionale, dal 1981 al 2000, autore di una ventina di libri e centinaia di articoli in riviste di economia, sostiene queste tesi avendo consultato numerosi testi e documenti come si ricava dalla ricca bibliografia del suo libro.
Il libro ampiamente recensito qualche anno fa da Francesco Pappalardo, che a proposito scrive:“Anche l'economista di fama internazionale Vito Tanzi ritiene che la costruzione dell'unità europea stia incontrando difficoltà simili a quelle affrontate centocinquant'anni fa nella penisola italiana, dove gli stati preesistenti, caratterizzati da leggi e da sistemi economici e tributari molto differenti, sono stati messi insieme a tavolino e trasformati quasi repentinamente in uno Stato unitario”. (F. Pappalardo, “Italica. Costi e conseguenze dell'unificazione d'Italia”, in Cristianità, n. 366, Ott.-Dic. 2012).
Intanto l'opera dell'economista di origini pugliesi, parte da alcune premesse: la 1 è che nel secolo XIX, “sarebbe stato difficile identificare molte caratteristiche comuni o legami sentimentali e patriottici” (p. 14)fra gli Stati italiani. L'elemento comune più importante è che tutta la penisola italiana aveva fatto parte dell'impero romano. La 2 premessa è che la Penisola comprendeva sette Stati con leggi diverse, con differenze linguistiche significative e con pochi contatti fra la maggior parte delle popolazioni, caratterizzati da tradizioni e da storie molto diverse. 3. Inoltre a casa Savoia interessava espandere il proprio regno verso la Pianura Padana che unificare la Penisola. 4. Il Risorgimento era stato un movimento principalmente di élite e, specialmente nel Mezzogiorno, l'appoggio popolare era stato molto ridotto. 5. Infine, il Regno delle Due Sicilie non era governato da stranieri, era riconosciuto diplomaticamente da tutti i Paesi e la sua invasione non aveva alcuna legittimazione giuridica.
Pertanto, “[...] bisogna chiedersi - osserva Tanzi - se, il modo in cui l'Italia fu unita era il solo modo possibile di farlo; e se non c'erano altre scelte migliori, che avrebbero potuto ridurre il costo, per i cittadini italiani, e specialmente per quelli del Meridione, che fu pagato” (p. 151)
Dopo l'unità, fu creato uno Stato unitario centralizzato,“con regolamenti uniformi per tutti i disomogenei territori del regno e con una struttura amministrativa molto gravosa, che provoca difficoltà e forti reazioni”. Fra le reazioni, c'è da registrare il cosiddetto “brigantaggio”, una resistenza armata a quelle che molti consideravano forze di occupazione. Infatti scrive il professore Tanzi: “l'occupazione delle forze garibaldine, seguita da quelle piemontesi, che, secondo molte testimonianze, fu pesante, caotica e sicuramente non rispettosa delle tradizioni locali, delle proprietà pubbliche e private, e di vari diritti dei cittadini, insieme al peggioramento della situazione economica, che, per molte persone, accompagnò immediatamente l'unificazione, insieme ad altri fattori, come per esempio l'attitudine di disprezzo che Vittorio Emanuele dimostrò verso i napoletani, durante la sua breve visita alla città nel 1861, contribuirono, senza dubbio, ad ingrandire, se non a creare, il fenomeno” (p. 122)
La lotta al brigantaggio fu sicuramente una guerra civile, che ha provocato decine di migliaia di vittime, il governo centrale ha dovuto impiegare un esercito di 120 mila uomini, che ha messo a ferro e a fuoco per quasi dieci anni tutto il meridione.
L'economista si sofferma soprattutto sugli aspetti finanziari ed economici dell'unificazione. “Dopo il 1861 – scrive Papppalardo - vengono scaricati sul Regno d'Italia gli enormi debiti contratti dal regno di Sardegna per le 'guerre d'indipendenza' e per lo sviluppo delle proprie province, esclusa però la Sardegna”.
Il nuovo Stato nasce con uno smisurato debito pubblico e con un disavanzo perenne nei conti pubblici, che creano e creranno grandi difficoltà dei governi italiani. Tanzi sottolinea le conseguenze negative dell'unificazione che colpiscono soprattutto il Mezzogiorno, ne evidenzia alcuni: 1 l'appropriazione dell'oro del Regno delle due Sicilie. 2 il forte aumento delle tasse nel Sud per equipararle a quelle del Nord. 3 la soppressione di ogni ente morale ecclesiastico e l'incameramento dei relativi beni, in pratica si distrugge la rete di welfare creata dalla Chiesa a sostegno dei deboli. 4 nasce il fenomeno emigratorio, sia verso il Nord sia verso l'estero, specialmente nelle Americhe. 5 il declino economico e culturale di Napoli, una delle più grandi città d'Europa, insieme a Londra e Parigi, che avrebbe meritato invece di essere la capitale della nuova Italia.Tanzi critica la scelta centralizzatrice dei liberali piemontesi, molto diversa rispetto a tutti gli altri Paesi nati dall'unificazione di territori con tradizioni differenti, come gli Stati Uniti d'America, l'Impero Germanico, la Confederazione Svizzera.
A questo proposito, ritiene che“la creazione di una confederazione di Stati, che avesse trasferito gradualmente il potere a un governo federale, avrebbe risparmiato al paese molti costi, economici e in vite umane”.Sostanzialmente invece si preferì applicare il centralismo politico-amministrativo di tipo francese. Queste politiche non erano adatte a creare l'Italia, sognata dai risorgimentali.“Crearono invece un'Italia che geograficamente e politicamente era unita ma economicamente, e forse socialmente, era disunita”.

martedì 1 marzo 2016

Antonio Spadaro, "Lontano dentro se stessi" (Ed. Jaca Book)

di Guglielmo Peralta 

L’analisi di Antonio Spadaro delle opere di Pier Vittorio Tondelli è un esempio di etica professionale, perché condotta con l’atteggiamento critico di chi ha assunto con coscienza e con senso di responsabilità quella che Karl Rahner chiama «la missione del letterato»: una “vocazione” a «discernere», a ricercare in tanta letteratura trasgressiva – ove spesso si annida il vuoto, il dolore, l’abbandono – un varco, una «uscita di sicurezza», una domanda o un’ «attesa di salvezza». In Spadaro questo metodo di lettura, fondato sul «discernimento», trova il suo campo di applicazione proprio nell’opera tondelliana, dove la «discesa agli inferi» è l’esperienza necessaria per la «via d’accesso» alla salvezza.
Grazie allo sguardo che «discerne», che vede in profondità, è possibile rileggere, sotto quest’ottica salvifica, quel vasto e variegato corpus letterario che, a partire dai poeti “maledetti”, si distende con Flaubert e Zola e poi ancora con Beckett, Henry Miller, Salinger, Cèline, Bukovsky, fino alla beat generation e al postmoderno trovando in Tondelli un epigono, il quale, se da un lato, sotto le «spinte prometeiche e dionisiache» degli anni ’80 sembra omologare in quel corpus la propria esistenza, dall’altro lato, trova proprio nel racconto (per molti aspetti tragico) della vita e del mondo le «linee di fuga», un cammino di luce, di cui anche il lettore è chiamato a prendere coscienza, mettendo da parte i pregiudizi inconsapevoli, facendosi egli stesso interprete del testo. Ciò perché, secondo la lezione di Gadamer, qui ricordata e messa in pratica da A. Spadaro, «la lettura (…) non è un processo di interiorizzazione ma di interazione» e, in quanto tale, rende il lettore capace di cor-rispondere all’appello-domanda che essa (il testo) gli rivolge e che qui, in particolare, si traduce in quella «attesa di salvezza» che pervade e attraversa l’intera opera tondelliana, della quale il nostro Spadaro è scrupoloso interprete.