ANSIA DI ARCANO
TRASCENDENTE NELLA POESIA DI VITO MAURO
di Antonio Martorana
Se la voce della poesia è per
Mario Luzi «la voce del risveglio: il risveglio dal letargo dell’assuefazione e
dell’indifferenza», la silloge di Vito Mauro La luna crollerà (Palermo, Thule, 2012), vero “diario intimo” in
cui confluiscono “pensieri in versi” scritti nell’arco di un quarantennio, ne è
una conferma.
A provocare il
“risveglio”, nel caso specifico, è una folgorazione, che, squarciando l’abisso
di tenebra, svela all’Autore il mondo dell’Oltranza, suscitando in lui
un’irresistibile attrazione verso il richiamo fascinoso e possente del Mistero.
È come se nella sua anima venisse a cadere improvvisamente il grande velario
dietro cui si nascondono la Verità e il Bene: quella Verità che, trascendendo
ogni terrena dialettica, riconosce nel dogma del Verbo che si fa carne il senso
meraviglioso dell’esistenza; quel Bene che, guarendo l’uomo dalla lebbra del
peccato, lo guida sulla strada maestra che porta all’arcano trascendente.
La metafora
del “risveglio” come riscatto e liberazione dal male mi ricorda un ispirato
passo di Gaetano Giuseppe Amato, che ben si adatta a quello che è il nucleo
magmatico della poetica di Vito Mauro:«Così s’accende la vita: essa non è che
un risveglio magico, un levarsi dalla notte dell’eterno alla luce del tempo,
l’improvviso divampare d’un rogo che s’espande in luce e calore prima di
sprofondare nell’abisso della quiete. La sua durata è un batter di ciglio, una
parola, un sospiro, ma in così breve arco lampeggiante realizza tutta se stessa.».
(G. G. Amato, La filosofia quale
propedeutica al problema teologico, Caltanissetta – Roma, Salvatore
Sciascia Editore, 1962, p. 15).
Quella che
Joseph Margolis definisce la “specificità antologica” di un’opera, consiste qui
in una visione della vita come accettazione incondizionata del supremo dogma
dell’Essere. La fede si rivela viatico infallibile per venire a capo della
problematicità che è l’immanente ragione del Cosmo, consentendo l’approdo
all’inconoscibile quale presupposto di ogni conoscibile. Questo significa
toccare il livello più alto di Conoscenza, che ci ricorda Tommaso Romano nella
Prefazione, con consueta forza illocutoria, rappresenta, unitamente alla
virtù,«il fulcro dell’avventura unica e irripetibile della vita.».
Nell’opera di
Mauro la luce della Fede si riverbera su tutte le manifestazioni del vivere:
l’amore, il sociale, il bisogno di pace, la bellezza del Creato, la ferma
condanna del vacuo e dell’effimero, di tutti gli idola, che minacciano di trascinare il mondo in una deriva
inarrestabile.
Volendo
considerare un piccolo campione rappresentativo dei testi, colpisce il
messaggio lanciato dal componimento che ha per titolo: 3.
Nella brevità
della sua struttura trinaria qui viene posto l’accento sull’indissolubilità del
legame tra l’esistenza di ognuno di noi, dalla nascita alla morte, con il
“dogma enigmatico” della Santissima Trinità.
In Ai miei si coglie un sentimento di
tenera devozione filiale da parte dell’Autore nei confronti dei genitori nella
consapevolezza che in ogni momento ed in ogni luogo risplende su di essi il
raggio del vivente Amore infinito.
Di una
sfavillante luce di trascendenza brilla in Asterischi
la “soave stella”, che, come inesauribile fonte di beatitudine trapunta i sogni
del poeta.
Fiducia nell’attesa del Giudizio
(Riflettendo sul Salmo 75) è una serena meditazione su come prepararsi a
quell’evento ineluttabile che sarà il redderationem,
quella resa dei conti che vedrà l’abbattersi della collera divina sugli empi,
per punirli delle loro “sfrenate ambizioni”, dei loro “arditi pensieri” ed
“avidi progetti”. È una prospettiva apocalittica (“divino terremoto”) della
quale però i puri di cuore non hanno di che preoccuparsi (“mai aver paura”),
perché, come si legge nel Salmo, «quando Dio si alza per giudicare» è «per
salvare tutti gli umili della terra». Così «gli scampati dall’ira» potranno far
festa all’Eterno Padre.
Il monito a
ribellarsi al materialismo dilagante, per cui oggi sentiamo parlare di “morte
della luce” e di “perdita del centro”, suona come il sibilo di un colpo di
frusta sulla schiena di uomini narcotizzati dall’”avere” e dimentichi dei
valori dell’”essere”.
Attraverso un
rapido scorrere di coppie oppositive («non più coscienza collettiva, / ma
incoscienza privata… non più poesia dello spirito, / ma materialità… non più
rivoluzioni, / ma pie illusioni…», si delinea uno scenario di dissoluzione in
una società abbagliata dal potere,
dall’apparire, dal falso successo, «tutti elementi»
commenta Tommaso Romano, «che conducono inevitabilmente all’allucinata
depressione.». Da qui il perentorio invito con cui si chiude il componimento
REAGIAMO.
Vito Mauro
tratta i suoi temi potremmo dire con un piglio carisma oracolare che evoca il
elargito ai poeti, di cui avevamo consapevolezza gli antichi vati. Georg Fohrer
ricorda infatti che «a quanto sembra, nessun profeta israelita che volesse
parlare in nome di Jahvè poteva trovare ascolto se non si esprimeva in versi.».
Il quadro
valoriare tracciato da Mauro è fieramente contrastivo nei confronti della
progrediente desertificazione dello spirito, cui oggi assistiamo sgomenti ed
accende una luce di speranza, nel porci dinanzi al cogente imperativo etico di
una scelta, che non può non essere quella della Bellezza salvifica. È un paradigma
chiaramente riconducibile all’affinità elettiva intercorrente tra il Nostro e
Tommaso Romano di cui egli è il più stretto collaboratore.
Vito Mauro
rientra infatti nella folta schiera di poeti e artisti che si muovono
nell’orbita avvincente della “lezione” di questo indomito e orgoglioso custode
della cultura spiritualista, condividendone il principio di base al quale
l’atto creativo va inteso come adempimento di un preciso dovere magisteriale:
svelare la via d’accesso alla realtà più profonda dell’uomo. A ben vedere, si
tratta di un impegno che è una risposta esemplare all’appello rivolto da Sua
Santità Giovanni Paolo II agli artisti nella Sua lettera del 4 aprile 1999,
Pasqua di Resurrezione: «la vostra arte contribuisca all’affermarsi di una
bellezza autentica che, quasi riverbero dello spirito di Dio, trasfiguri la
materia, aprendo gli animi al senso dell’eterno.».
La coscienza
di ogni artista viene chiamata a riconoscere che «la bellezza è la vocazione a
lui rivolta dal Creatore.». Ed ogni forma autentica d’arte, precisa Karol
Wojtyla, rappresenta una «via di accesso alla realtà più profonda dell’uomo e
del mondo. Come tale, essa costituisce un approccio molto lucido all’orizzonte
della fede, in cui la vicenda umana trova la sua interpretazione compiuta.».
Da sempre il
pensiero estetico romaniano ha sostenuto quei principi che hanno trovato una
sintetica ed esaustiva sistemazione nella lettera pasquale di San Giovanni
Paolo II del 4 aprile 1999.
Potremmo dire
che uno dei punti cardine di detto pensiero è l’importanza attribuita alla
coincidenza dell’intuizione poetica con l’intuizione mistica.
Quest’ultima
segna, rivela Gaetano Giuseppe Amato, «l’inspiegabile e miracolosa liberazione
dell’uomo dall’impaccio dei sensi, con la conseguente impossibilità di trovare
nell’espressione sensibile i termini adeguati a rivelarsi all’umana
intelligenza ciò, tuttavia, non ha
impedito che i misteri di tutti i tempi tentassero di tradurre nella loro
lingua le esperienze dell’anima con espressioni prese in prestito alla
poesia»(op. cit, p. 230).
L’accostamento
di intuizione poetica ed intuizione mistica, perseguito da Romano e dagli
autori che ne seguono il magistero, come momento apicale del processo creativo,
mi ricorda il connubio tra preghiera e poesia di cui parla Henri Bremond nel
suo famoso saggio del 1926, Prière ed
poèsie (tr, it., Preghiera e poesia,
Milano, 1983).
Quanto detto
ritengo possa offrire la più adeguata chiave di lettura per cogliere il
messaggio contenuto nella silloge La luna
crollerà.
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