sabato 30 dicembre 2017

Francesca K. Matina, "La casa nel vento" (Ed. Thule)

di Giuseppe La Russa

Una storia come tante altre, un storia come nessun’altra.
In fondo è la vita di ogni essere umano ad essere costellata di elementi comuni ad ogni altro  individuo ed eppure così unici ed irripetibili da appartenere ad un solo ed esclusivo battito di cuore.
Il racconto che ci appare davanti quando leggiamo La casa nel vento di Francesca K. Matina, giovane donna originaria di Lampedusa, non pretende di darci verità universali, porci storie mirabolanti o dissertazioni sui massimi sistemi: in settanta pagine troviamo la narrazione di una storia semplice, che l’autrice stessa definisce banale sul finire del libro, eppure, proprio per questo motivo, oltremodo pregnante, gravida di quella umanità che ci appartiene giorno dopo giorno. In fondo è questa la promessa della lettura e della letteratura, riscontrare in un testo, come diceva Fortini, una possibilità di noi stessi, la possibilità di trasformare la memoria in costruzione dell’uomo, aggiungerebbe Ezio Raimondi. Ecco il perché fondante di questa lettura che a primo impatto può apparire una comune esperienza a tantissimi ragazzi. La storia, infatti, è facile da sintetizzare, ma forse impossibile da definire: si può definire in poche righe la vita? È il racconto di una giovane diplomata che da Lampedusa si trasferisce a Palermo, nel frastuono del capoluogo siciliano, per studiare giurisprudenza e che, giorno dopo giorno, scopre quanto invece sia la filosofia la sua risposta.
Poche parole, dunque, per riassumere i tratti salienti, ma infiniti sono forse i temi da scovare: si parla certamente di vocazione, di libertà, della ricerca di un Senso, di casa, di crescita, di speranza.
Nel titolo, poi, è riassunto l’anelito di ogni pagina: la ricerca di una casa, di una dimora fissa e stabile per il proprio corpo e soprattutto per la propria anima, per il proprio spirito, per il proprio ànemos, parola greca da cui deriva il termine ‘anima’ latino, ma che originariamente ha proprio il significato di ‘ vento’, l’elemento tra i più liberi nella e della natura: «credo ci sia un momento ben preciso, nella vita, dove si diventa grandi per la prima volta», scrive Francesca Matina. In quel momento in cui l’autrice racconta della sua “fuga” da Lampedusa verso Palermo c’era il taglio del cordone ombelicale che la teneva legata alla famiglia e a Lampedusa, ma allo stesso tempo il forte desiderio di inventare  e plasmare ogni giorno la vita secondo le proprie pulsazioni e le proprie sincronie.
Ma ciò di cui il libro più fortemente parla è, probabilmente, il concetto di vocazione. La forza esplosiva di questo termine è tale da invadere interamente l’animo di chi legge quelle poche e semplici righe, quelle pagine dettata da infinita sincerità, quelle parole che sembrano un romanzo ma non lo sono, che appaiono come un diario ma non lo sono, che si leggono come una lunga poesia, ma forse non lo sono, ma che sanno prendere vita naturalmente e nella più candida sincerità. Cosa significa vocazione, quel termine invocato anche da Fabrizio De André in una nota canzone? Significa, direbbe il fra Cristoforo di Manzoni, sapere di trovarsi in quel posto in quel preciso momento ed essere coscienti che quello è l’unico luogo dove ci si deve trovare: riuscire ad individuare proprio quel determinato luogo è, probabilmente, una delle chiavi della nostra esistenza.
Così Franscesca racconta di una inquietudine continua, di una chiamata silente ed impetuosa, quella della filosofia, per l’appunto, mentre frequentava le aule della facoltà di giurisprudenza: evidenti sono state le difficoltà nel dover annunciare la scelta ai genitori, ma quella era e rappresenta la casa nel vento: «la filosofia nasce dai dubbi e, proprio per questo, chi la sceglie non deve esaurirli mai, altrimenti finirebbe per arrestarsi a conclusioni necessarie»; in una lettura che spedita porta dal punto inziale a quello finale, Francesca Matina riesce a mostrarci la costruzione di una identità, la poesia della solitudine di una studentessa universitaria, il fuoco che quelle viscere hanno saputo far divampare e alimentare, quella passione eterna ed indomita madre di ogni azione.
La filosofia porterà ad insegnare in un’aula di una scuola di un piccolo paesino del Nord Italia? La possibilità è alta, così come è capitato a chi scrive il presente articolo, ma non esiste limite nel cuore di chi ha saputo riconoscere la voce del vento, il grido generativo delle proprie mani, non esiste confine per chi ha guardato negli occhi e ha dialogato con il proprio desiderio, per chi ha dato voce al proprio pianto, per chi ha saputo dare un senso ad ogni alba, per chi ha riconosciuto la limpida via che sa portarti a casa.

Dieci Anni Cento Libri : tra storia e storiografia in un volume di Andrea Rossi

di Alberto Maira
Una curata rassegna sull’ evoluzione  della storiografia del XX secolo nell’ultimo decennio.  Gli elementi distintivi del dibattito fra studiosi in merito agli snodi più importanti della storia del secolo scorso. Queste le domande a cui  cerca di rispondere  il volume dal titolo Dieci anni cento libri, che raccoglie le schede critiche a cento saggi storici editi fra il 2006 e il 2016 sui temi del fascismo, dell’antifascismo, della resistenza, e della storia militare della seconda guerra mondiale. L’obiettivo del lavoro è quello di offrire, a studiosi,  appassionati, cultori dei temi intriganti di un periodo storico che va dagli anni successivi il primo conflitto mondiale  alla fine della seconda tragica guerra , una guida a quegli studi che maggiormente hanno influenzato il confronto fra i ricercatori, o che comunque hanno presentato sotto una luce diversa temi ancora oggi capaci di suscitare discussioni e scontri animati,  pareri tutt’altro che univoci, visioni spesso e volentieri settarie e per nulla serene e obiettive. Cento libri su un periodo ancora tutto da leggere, rileggere ed esplorare. Si tratta di una guida utile non solo per gli storici di professione  ma anche per i docenti di discipline storiche nelle scuole di ogni ordine e grado, docenti che intendono rifiutare l’appiattimento culturale, la pura ripetizione acritica di luoghi comuni talmente ripetuti quanto poco verificati, da passare per veri, e perpetuare equivoci e visioni stupidamente manichee. Il testo è di Andrea Rossi di  Ferrara,  dottore di ricerca in storia militare e cultore della materia presso l’Università della sua città. IL Rossi redatto numerosi saggi sulle forze armate della RSI e sull’occupazione tedesca in Italia pubblicati su riviste scientifiche e in opere collettanee. Fra i suoi volumi è bene ricordare : Fascisti toscani nella Repubblica di Salò  e Le guerre delle camicie nere. Per le benemerite e giovani ma fecondissime edizioni D’Ettoris  ha pubblicato recentemente anche  Il gladio spezzato.


mercoledì 20 dicembre 2017

L’autentico significato della Scuola di Atene di Raffaello Gaetano Barbella

di Gaetano Barbella

1 Descrizione di Scuola di Atene
La Scuola di Atene (illustr. 1) è un affresco (770×500 cm circa) di Raffaello Sanzio, databile al 1509-1511 ed è situato nella Stanza della Segnatura, una delle quattro “Stanze Vaticane”, poste all’interno dei Palazzi Apostolici. Rappresenta una delle opere pittoriche più rilevanti dello Stato della Città del Vaticano, visitabile all’interno del percorso dei Musei Vaticani. L’affresco, rappresenta dei celebri filosofi antichi intenti nel dialogare tra loro, all’interno di un immaginario edificio classico: venne commissionato da papa Giulio II.
A sinistra della scena domina la statua di Apollo, mentre a destra quella di Minerva. Sotto sono dipinti due rilievi: una Lotta di ignudi ed un Tritone che rapisce una nereide. Al centro figurano i due principali filosofi dell’antichità, Platone ed Aristotele. Platone, dipinto con le sembianze di Leonardo da Vinci, regge in mano la sua opera, il Timeo, ed indica il cielo con un dito (indicando l’’iperuranio, zona d’essere oltre il cielo dove risiedono le idee), mentre Aristotele regge l’Etica e rivolge il palmo della mano verso terra rivolgendosi al mondo terreno e alla volontà dell’uomo di studiare il mondo della natura e di essere in contatto con essa.
Attorno a loro ed ad altri filosofi e matematici sono raccolti in gruppi i loro seguaci.
All’estrema sinistra c’è Epicuro, alle cui spalle è presente Federico Gonzaga fanciullo. Al centro, in primo piano, c’è Eraclito con le sembianze di Michelangelo che appoggia il gomito su un grande blocco, mentre all’estrema destra troviamo Euclide, con i tratti del Bramante, che disegna a terra. Di saliente resta il personaggio emblematico oggetto di questo scritto che forse non è quello interpretato da più studiosi. Mi riferisco all’unica donna presente nello scenario in esame ed è l’unica rivolta verso l’osservatore, oltre a Raffaello raffigurato all’estrema destra accanto all’amico Sodoma. Poiché il tema di questo scritto riguarda fra l’altro proprio lei, per necessità riporto integralmente tutta la descrizione in merito tratta wikipedia[1], fonte molto attendibile.
< Il personaggio sulla sinistra, di fianco a Parmenide, dai tratti efebici, biancovestito e con lo sguardo rivolto verso lo spettatore, è di identificazione controversa, anche se una identificazione generalmente accettata è quella di Francesco Maria Della Rovere, duca di Urbino e nipote del papa Giulio II, che all’epoca del dipinto si trovava a Roma e ai cui servigi Raffaello doveva forse la venuta a Roma. Secondo l’ipotesi di Giovanni Reale questa figura biancovestita è un simbolo emblematico dell’efebo greco ovvero della “bellezza/bontà”, la Kalokagathia:

« L’interpretazione di questa figura è particolarmente difficile, e da alcuni è stata del tutto fraintesa in vari sensi. Una tradizione ci dice che Raffaello avrebbe riprodotto il viso di Francesco Maria della Rovere; ma alcuni interpreti contestano la veridicità di questa tradizione. Ciò che occorre comprendere non è tanto se Raffaello abbia riprodotto le sembianze di Francesco Maria della Rovere, ma piuttosto che cosa abbia voluto esprimere con quel personaggio. [… C’è] una corrispondenza (non solo nella configurazione ma anche nella posizione) di questo personaggio con quello dell’angelo senza ali in vesti umane nell’affresco della Disputa. […] Il bel giovane biancovestito, in atteggiamento quasi ieratico, è un simbolo emblematico dell’efebo greco che coltiva la filosofia e incarna la greca kalokagathia, ossia la “bellezza/bontà”, ideale supremo di uomo virtuoso per lo spirito ellenico. »[2].

Ad analoghe conclusioni era giunto il noto storico d’arte austriaco Konrad Oberhuber:
« Il cartone dimostra fuori da qualsiasi discussione che si tratta di una figura ideale e non di un ritratto […]. Il discepolo in bianco, che ci fissa con i suoi strani occhi e ci si libra dinanzi quasi irreale, è l’espressione viva di quell’ideale del Bello e del Buono, e perciò stesso del Vero, nucleo centrale delle correnti filosofiche. »[3]
L’improbabile identificazione con Ipazia (matematica di Alessandria d’Egitto del IV-V secolo) non risulta suffragata da nessuna fonte o saggio critico attendibile. Tuttavia risulta negli ultimi anni così ampiamente diffusa che non è possibile non darne conto[4]. In quanto al personaggio seduto su un gradino cioè Eraclito e che scrive su un foglio su un capitello, gli studiosi pensano che sia stato aggiunto in seguito, ad opera compiuta. Infatti nella Pinacoteca Ambrosiana di Milano è conservato il cartone finale disegnato di proprio  pugno da Raffaello, dove il presocratico non compare affatto. Probabilmente l’autore, dopo aver visto il lavoro che Michelangelo aveva compiuto per la Cappella Sistina (di cui una parte viene mostrata il 14 agosto 1511), si è sentito in dovere di aggiungere il ritratto del suo rivale nel suo affresco, dandogli le sembianze del sapiente greco.

2 Tema e caratteristiche secondo la critica d’arte
Anche con queste note riporto quel che è relativo all’opinione corrente della critica d’arte per quanto concerne il tema di questo dipinto secondo il suo autore Raffaello Sanzio. Gli studiosi di Scuola di Atene ritengono che l’opera rappresenti la facoltà dell’anima di conoscere il vero, e cioè di approcciarsi alla scienza ed alla filosofia; il dipinto è in contrapposizione a quello de La disputa del Sacramento, dove invece si parla di fede e teologia. In un primo momento, dall’affresco può trasparire confusione: un gran numero di filosofi sono raffigurati essenzialmente su due soli piani. Oltre ai già citati, tra gli altri s’incontrano Pitagora, intento a scrivere su di un libro; Socrate in una veste dal colore verde bottiglia, che sembra incitare al dialogo il piccolo gruppo di persone che gli sta davanti; Diogene, steso sulla scalinata quasi in simmetria con Eraclito. Il motivo personaggistico dell’opera è identico a quello della Disputa: la presenza di così tanti filosofi di varie epoche a significare il desiderio e lo sforzo per arrivare al vero, già comune a tutta la filosofia antica. Il punto di fuga sta tra le figure dei due grandi, Aristotele e Platone, quasi a volere indicare che il vero abbia caratteristiche già intuite da   questi due filosofi, i cui pensieri furono di indubbia importanza per lo sviluppo del pensiero occidentale[5]. Tra le curiosità, di recente si è scoperto che il ritratto di Raffaello, era in realtà il ritratto giovanile di Giulio II e che il ritratto di Pitagora rappresenta, come Raffaello immaginava, il successore di Giulio II. Il particolare poi, dell’affresco raffigurante Euclide (secondo alcuni studiosi Archimede) è stato scelto nel 1906 in occasione della commemorazione dell’ing. Giuseppe Colombo come emblema del Politecnico di Milano e da allora ne costituisce il logo. Alla destra appare anche lo “scrivano” che comparirà sulle copertine degli album Use Your Illusion I e II dei Guns N’ Roses del 1991[6].
3 La geometria composita di Scuola di Atene
3.1 Scuola di Atene fu il vero titolo secondo le intenzione di Raffaello?
Con il titolo di questo scritto si apre un interrogativo che fino ad oggi non è stato mai posto, considerate fondate e univoche le opinioni sul conto dell’opera pittorica Scuola di Atene di Raffaello. Di qui, risultando diverso lo scopo inteso da Raffaello, per cominciare, potrebbe sorgere il dubbio sul vero titolo del suo lavoro in studio, in relazione a quel che emerge fra poco sotto la lente della geometria composita, che si rivela prepotente e persuasiva e che ora mostrerò tappa per tappa. Leggo peraltro su wikipedia, la stessa fonte da cui ho tratto le note fin qui riportate in parte sul titolo Scuola di Atene, informazioni in merito controverse che sono queste:
« Il titolo tradizionale è molto posteriore al periodo di esecuzione e non rispecchia le intenzioni dell’autore e della committenza e neppure la conoscenza storiografica della filosofia classica che si aveva all’inizio del XVI secolo. Risalente al XVIII secolo circa, fu proposto da studiosi di area protestante. »[7].

3.2 Gli studi di Leonardo da Vinci sulla radice aortica
Il costante interesse di Leonardo per la valvola aortica (Illustr. 2) viene dimostrato dalla frequente ricorrenza di disegni di una struttura tricuspide, indicando il fatto che era particolarmente attratto dalla sua simmetria. Inoltre egli affermò: “No mj legga chi non e matematicho nelli mja principj” (“Non lasciare nessuno che non sia un matematico leggere i miei principi”). E’ ben conosciuto che la simmetria, già ben definita da Vitruvio come “la proporzione fra il tutto e le sue differenti componenti”, viene rappresentata da armonia, equilibrio e proporzione (Leonardo) così come è documentato che, nella scuola di Pitagora, il cerchio nel piano e la sfera nello spazio erano considerati le figure perfette per la loro simmetria e rotazione. In effetti, nei disegni di Leonardo, la valvola aortica tricuspide (ma anche quella quadricuspide) inserita in un cerchio appariva un perfetto esempio di simmetria e rotazione. […]
Infine, descrisse accuratamente la verifica sperimentale con un modello di valvola aortica “fa questa prova dj vetro e moujcj dentro acqua e panico”. Se da un lato tutte le teorie di Leonardo erano suffragate da un’argomentazione sperimentale, dall’altro l’osservazione della forma rappresentava il pilastro su cui fondare la teoria della funzione. Infatti, nel Codex Atlanticus, scrisse “nessuno effetto in natura e sanza ragione; intendi la ragione e non ti bisogna esperienza” cioè “niente in natura è senza motivo; capisci il motivo e non avrai bisogno di esperienza”. Pertanto il concetto di “Unità funzionale e morfologica” della valvola aortica viene introdotto da Leonardo con una semplice domanda: “perché il buso della arteria aorto e triangolare” (“perché l’orificio dell’arteria aortica è triangolare?”)[8].
3.3 L’asimmetria in Scuola di Atene
Ho deliberatamente mostrato come Leonardo da Vinci tenesse tanto alla simmetria, come quella della valvola aortica ben in linea col citato principio del suo Codex Atlanticus. Tuttavia là dove questo principio non veniva rispettato egli non lo rigettava ma lo stimava comunque un “pilastro su cui fondare la teoria della funzione”, la cui teoria sanciva: “nessuno effetto in natura e sanza ragione; intendi la ragione e non ti bisogna esperienza”. Ecco è con questo principio che ora mi soffermo sull’affresco di Scuola di Atene, nell’intento di ravvisarvi appunto delle asimmetrie che Raffaello è stato così abile a camuffarle in modo che non siano notate. Naturalmente questa asimmetria va ricercata nella disposizione architettonica dell’edificio in cui sono disposti i diversi personaggi, perché così sembra al primo sguardo. Tanto più che quel che ora sto facendo nessuno – mi sembra – lo ha mai fatto, questo a conferma che tutto sembra perfetto, tutto sembra in linea per dar corpo alla concezione di una prospettiva il cui punto di fuga, l’unico, è quello che confluisce dietro le figure centrali di Platone e Socrate. Ma è proprio così?
No. Perché con sorpresa si può riscontrare con l’uso del compasso, che il centro del grande arco di primo piano che fa da sipario scenico, non appartiene all’asse immaginario, lo stesso di tutta la teoria degli archi retrostanti.
Ed è la formella di mezzo dell’arco asimmetrico a dare l’impressione che sia, in simmetria col resto, invece no, giusto perché Raffaello deve averlo posto così per ingannare l’osservatore. Sarà poi il compasso a dare questa prova perché risulterà che il centro dell’arco sia su un asse verticale corrispondente all’incirca al limite di sinistra della formella, falsamente centrale dell’arco in questione e l’asse orizzontale, come farò vedere poi, risulta davvero interessante. L’illustr. 3 ci mostra tutto quel che ho appena detto sul conto del grande arco dell’inganno e si vede che l’asse orizzontale, limitato da A e C dell’arco, ha il centro O disassato rispetto all’asse degli archi retrostanti. Di qui comincia lo studio leonardiano della ricerca sulla ragione di questa cosa, ma già ci si accorge che l’asse orizzontale passa esattamente fra le due sfere a sinistra. Quella superiore rappresenta l’universo  sorretta dalla mano di Zoroastro, mentre l’altra, quella in basso, che rappresenta la Terra, sorretta dalla mano di Tolomeo Claudio incoronato.
Ecco che già la mente conduce, là dove Raffaello voleva, l’attenzione dell’acuto osservatore per ottenere spiegazioni sulla sua opera ora in visione. A questo punto occorre dar valenza alla ragione in merito al fatto che l’emblematico personaggio, supposto quello di Francesco Maria della Rovere (aggiungo ora per “convenzione”) e Raffaello sono gli unici rivolti all’osservatore (ma siamo ora noi a svolgere questa funzione), mentre tutti gli altri dell’affresco sono intenti alle loro funzioni, come fuori dal quadro di azione scenico del secondo piano della misteriosa giovane donna e, naturalmente, di Raffaello. Di qui sembra già molto chiaro che l’opera di Raffaello veramente è rivolta a dar forza e valenza all’emblematica donna vestita di bianco: lo scopo è questo e non tanto quello in cui viene giustificato nel capitolo 2 che dice: “Gli studiosi di Scuola di Atene ritengono l’opera rappresenti la facoltà dell’anima di conoscere il vero, e cioè di approcciarsi alla scienza ed alla filosofia; il dipinto è in contrapposizione a quello de La disputa del Sacramento, dove invece si parla di fede e teologia”.
3.4 Un secondo compasso per il quadrato della perfezione
Convince l’ipotesi appena esaminata che mette in primo piano la giovane donna (o l’efebo giovane in atteggiamento ieratico secondo Giovanni Reale), ma non senza incertezze che ora vengono fugate dal mio intervento di buon geometra, molto ben disposto a concezioni grafiche. Ed è un analogo compasso a quello usato per svelare l’inganno della formella circolare della sommità del grande arco. Quale se non quello di Euclide (o Archimede) chino a terra, nell’atto di proporre, appunto, una dimostrazione con il compasso, mentre i quattro giovani che lo circondano dimostrano interesse e coinvolgimento? E qui sorge in me l’idea di ripetere, da questo centro del compasso di Euclide, un secondo transito fra le due sfere, dell’Universo e della Terra come quello dell’asse AC passante per il centro O, che sembrano invitare a procedere in questo senso. Così facendo, l’illustr. 3 mostra questa operazione grafica con una retta passante per F, tale da far delineare un perfetto quadrato inscritto al cerchio relativo all’arco ABCD, e sarà limitato dai punti EGHI, e naturalmente passante, tramite il lato EG, fra le due sfere di Zoroastro e Tolomeo. È interessante osservare che Raffaello non si è limitato a dare le istruzioni per procedere, come ho fatto, per tracciare la direttrice e poi il quadrato suddetto, ma ha posto sul finire della direttrice EFG un personaggio avvolto in un mantello verde con in mano una verga che sembra, appunto, far segno per il relativo transito appena concepito. Osservando ora il quadrato EFHI, riscontriamo che al vertice G corrisponde la quarta doppia spirale quadrangolare dell’arco, e ad H ancora una quarta spirale quadrangolare che è quella in alto, come a confermare il grande valore attribuito a questo numero in relazione al quadrato appunto. Di qui il passo geometrico per concepire il segno che porta alla visione di Ipazia posta giusto sulla verticale HL passante per M. Per completare la spiegazione del raggio HL passante per Ipazia riscontriamo che esso passa per la lavagnetta ai piedi di Pitagora intento a scrivere. Su di essa viene mostrata la teoria corrente nella scuola di Pitagora sui rapporti musicali, nonché la formulazione della cosiddetta Deka su cui si basano i numeri dell’armonia dell’Universo. Null’altro da rilevare eccetto lo scenario a sinistra in corrispondenza del basamento accanto all’impostare del grande arco che fa come da sipario della parata scenica della Scuola di Atene. Attorno a questa base, adatta per reggere una probabile colonna, si vede Zenone di Cizio vicino a un fanciullo, che regge il libro letto secondo alcuni da Epicuro incoronato di pampini di vite. Sull’identificazione di quest’ultima figura, interpretata da Giovanni Reale come un rito orfico, così si esprime lo storico della filosofia:
« Si tratta di un particolare molto spesso frainteso, e non poche volte interpretato come raffigurante addirittura Epicuro per un errore ermeneutico assai grave. Si crede che la corona di pampini richiami il piacere del vino e in generale il piacere che Epicuro poneva alla base della vita. Invece la corona del sacerdote orfico fa richiamo a Dioniso, il dio degli Orfici per eccellenza […] Il vecchio con accanto un infante (raffigurazione emblematica che chi sostiene altra interpretazione non riesce in alcun modo a spiegare) rappresenta la credenza nella metempsicosi, ossia la reincarnazione delle anime […] Il giovane sui trent’anni con gli occhi socchiusi concentrato, sembrerebbe in particolare colpito dal messaggio di fondo dell’Orfismo: “da uomo ritornerai dio”. La base della colonna su cui il sacerdote appoggia il libro da cui legge, è come una metafora di una verità storica fondamentale, ossia del fatto che gran parte della grande colonna del pensiero greco si basa sull’idea di fondo dell’Orfismo […] Il rubicondo sacerdote è il ritratto (trasfigurato) di Fedra Inghirami (…), un grande mentore di Raffaello che – con grande competenza – lo ha avviato alla comprensione dei pensatori greci. Si tratta dunque di una raffigurazione poetica stupenda di un rito orfico, che solo Raffaello, che aveva alle spalle informatori di alta classe, poteva raffigurare. »[9]
Ma di questo scenario, supposto confacente ad un rito orfico, che io ho segnalato graficamente con l’asse verticale NQ passante per il punto P del citato basamento, se ne parlerà nel prossimo capitolo.  
3.6 Raffaello esoterico
La visione del nuovo quadro offerto dall’illustr. 4 già fa sorgere i concetti esoterici annunciati dal titolo di questo capitolo, poiché sono annotati sul grafico, ma verranno argomentati nel successivo capitolo. Prima però occorre accertare se Raffaello avesse cognizioni di natura esoterica, cosa non sufficientemente condivisa, tuttavia non si può affermare decisamente il contrario. Per questa incertezza forse vale esaminare delle note in merito, che traggo dal blog di Fabrizio Falconi[10]:
«L’ordine iniziatico dei Fedeli d’Amore anche se ufficialmente scomparso, è secondo alcuni ancora vivo, in Occidente anche ai nostri giorni. Quel che è certo è che esso ha origini antichissime. Uno dei suoi presunti padri è il notaio e poeta Francesco da Barberino, nato nel 1264 nella omonima località in Val d’Elsa, autore di un’opera capitale della primissima letteratura italiana, I documenti d’amore, composti tra il 1309 e il 1313.
L’Ordine si ispirava ad una disciplina dell’Arcano e composto da sette diversi gradi iniziatici: le donne cantate dagli adepti di questo ordine segreto traevano origine da un unico modello di donna simbolica, una donna trascendente, una Madonna intelligente nella quale si ritrovavano anche diversi elementi della simbologia orientale. Questo Ordine così come altri simili, intendeva il Cristianesimo come una via iniziatica (accessibile a pochi), in grado di compiere trasmutazioni personali evolutive delle basi di conoscenze individuali. Dell’Ordine si riteneva – e si ritiene anche oggi, non senza polemiche – facessero parte molti dei più grandi intellettuali dell’epoca, come Cecco d’Ascoli, poeta e scienziato, condannato al rogo, Guido Cavalcanti, Raffaello Sanzio e perfino Dante Alighieri, oltre a Boccaccio e Petrarca. Raffaello è stato, secondo alcuni, colui che meglio di altri, incarnò con la sua arte l’ideale supremo di bellezza e armonia (estetica ed interiore) che nel Rinascimento trovò sua piena compiutezza e che i Fedeli d’Amore inseguivano come scopo realizzativo.
Una lunga tradizione legava la radice esoterica di questo Ordine all’esoterismo esseno di matrice gnostica, che a sua volta si riteneva proveniente dalla più solida tradizione egizia. […] ». Di qui ora nulla che meravigli allora nel constatare un’impronta straordinariamente esoterica dell’impostazione geometrica, con tutta probabilità concepita da Raffaello per il soppalco strutturale su cui poi ha dipinto magistralmente l’affresco Scuola di Atene, sia servita per dignificare in modo stupendo la sua Apazia d’Alessandria, nella quale egli, di certo, intravedeva il modello di donna simbolica, la Madonna dei Fedeli d’Amore. D’altronde non è Ipazia che, a dispetto dell’opinione degli studiosi, è stata continuamente additata come l’“estranea” giovane di bianco vestita, fra i numerosi eccellenti personaggi dell’antica cultura. E dunque poteva mai esservi, se pur per “convenienza”, Francesco Maria della Rovere (illustr. 5), rimandato ai posteri vestito da armigero? Tuttavia tutto torna anche con lui per dar corpo all’Opera al Nero suggerita dal vertice I del quadrato di Scuola di Atene, mentre Ipazia da corpo all’Opera al Bianco dal vertice successivo E in modo meravigliosamente coerente.
3.6.1 La ruota della rigenerazione
L’immagine offerta dall’illustr. 4, alla luce della concezione grafica della gran ruota nel semianello dell’arco, svincolato dal centro dello scenario di Scuola di Atene, e successivamente dello sviluppo grafico con le significazioni esoteriche, ci porta alla tradizionale cognizione degli alchimisti del viaggio interiore enunciato dall’acronimo V.I.T.R.I.O.L., che sono le prime lettere di un celebre motto dei Rosacroce. Espresso in lingua latina è detto: «Visita Interiora Terrae, Rectificando Invenies Occultum Lapidem», che significa «Visita l’interno della terra, operando con rettitudine troverai la pietra nascosta». L’espressione stava a indicare l’esigenza di scendere nelle viscere della terra, cioè negli anfratti oscuri dell’anima, per conseguire l’iniziazione, operando quella trasmutazione della materia nello spirito che avrebbe permesso di conseguire l’immortalità e riportare alla luce la sapienza, attraversando le diverse fasi dell’Opera alchemica, cioè Nigredo, Albedo e Rubedo. Infatti il grafico del quadrato dell’illustr. 4, con i suoi vertici I ed E, come già detto, effettivamente porta all’indicazione dell’opera a Nero, cioè Nigredo, suggerito dalla porta oscura, e dell’opera al Bianco, cioè l’Albedo, suggerito dalla necessità grafica. Il preteso viaggio interiore inizia allorché la ruota dell’arco è come se girasse per segnare il primo vertice G del quadrato, e così tracciando una linea orizzontale da questo punto, vediamo che passa per la sommità dell’arco di fondo, facendo scorgere un lontano cielo. E siamo, come io ho definita la retta appena tracciata, all’orizzonte degli eventi al loro limite, al loro esaurirsi, poiché dal quel momento inizia la supposta “visita interiore” argomentata dal VITRIOL. Di qui, la ruota dell’arco gira e si porta al cui limite  indicato dal vertice H e il lato GH del quadrato può rappresentare il percorso per l’Oltre degli Eventi ed è come se si potesse leggere un incerto futuro, come io ho ritenuto di indicare. Il finestrone alto di fondo, diviso in tre parti, ne è l’espressione. In realtà, in relazione al rito orfico[11] segnato tramite l’asse verticale NQ passante per P, la base della colonna, il percorso iniziato da G fino a P, del quadrato, dove esso trovava il punto focale, può benissimo indicare l’inizio della fase dei cosiddetti Piccoli Misteri che consistevano in pratiche di valenza essoterica avente funzione purificatoria. Di qui iniziava la fase iniziatica con la conoscenza dei grandi Misteri e che nel punto Q segnato in rosso, comportava superare il varco degli inferi. Tecnicamente, dal punto di vista ermetico, corrisponde alla fase dell’Opera cosiddetta al Nero o Nigredo in cui l’iniziato sperimenta la morte per poi rinascere. Il lato IE del solito quadrato porta appunto all’esperienza del processo di rivitalizzazione che segna la fase operativa del Bianco alchemico, ossia dell’Albedo. La successiva fase riporta, per certi, l’iniziato sui propri passi percorrendo il tratto del lato del quadrato EG, però con la differenza che deve transitare per il punto F della piccola lavagnetta nera di partenza.
Che vuol dire ciò? Vuol far capire che l’iniziato deve poter passare per la “cruna di un ago”, rammentando il detto evangelico, riferito alla frase di Gesù: «E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che un ricco entri nel regno dei cieli» (Mt 19,24). E’ una parola essenziale per comprendere il rapporto di Gesù con la “ricchezza” intesa in tutti i sensi. L’immagine è forte, paradossale com’è nello stile semitico. Tra la ricchezza e il regno di Dio c’è incompatibilità ed è inutile voler annacquare un insegnamento che più volte ritroviamo nella predicazione di Gesù, quando dirà, ad esempio, che non si può servire Dio e mammona (cioè la “ricchezza”). O quando sembra chiedere al giovane ricco rinunce impossibili all’uomo ma non a Dio.
Ecco la nuova figura umana che si giova dell’iniziazione, in qualsiasi altro modo essa sia ottenuta, se fatta in modo esemplare, ma non basta perché egli dovrà ripercorrere il tragitto del quadrato diverse altre volte (in alchimia è definito il volo delle “aquile”) per giungere alla condizione di Rubedo alchemico che è nota come Opera al Rosso, e da qui svincolarsi dalla vita terrena per essersi liberato dai relativi gravami, per aver vinto la morte. Le 15 formelle con le spirali quadrangolari avvolgenti questo vogliono confermare ripetutamente. Ma l’esperienza iniziatica legata al mistero di Orfeo ed Euridice sembra lasciare una grande amarezza conoscendo l’esito della mitica impresa di Orfeo che all’ultimo istante, per la sua limitazione spirituale, non seppe resistere dal “voltarsi” allo svanire delle tenebre infere, per rivedere la sua Euridice che lo seguiva, e fu la fine del suo sogno. Ecco la spiegazione del passaggio per la “cruna di un ago” in sede del centro del compasso di Euclide o Archimede, simile a un forellino che non può esistere per tale, perché si tratta di una teorica “pressione”, quella del noto “compasso” della matematica. Questa è una riflessione che ci porta ai tempi moderni, anzi li supera con la fantascienza, poiché il grande arco, fuori dai giochi della vita terrena relativa allo scenario di Scuola di Atene, si accosta al famoso Stargate, del noto film Stargate, la porta delle stelle del 1994 e della serie dei successivi. Di qui, ecco il superamento del dramma di Orfeo e Euridice, la cui risoluzione è stata vanamente cercata nel passato ricorrendo ai misteri orfici – mettiamo –, cosa che porta ad una interpretazione speculativamente convincente dello stesso mito, di grande impatto e suggestione, « per una filosofia della sessualità. La disobbedienza di Orfeo, la trasgressione del patto stabilito con gli dei degli inferi per far tornare in vita Euridice, diventa la grande metafora dell’eros: “…chiunque, nell’amore, si proponga di colmare la distanza che lo separa dall’amato, si destina al naufragio”. Del resto, anche nella relazione erotica in senso stretto, quella sessuale, finisce con il riprodursi la stessa condizione di separazione. E’ opportuno infatti rammentare che nella lingua latina, sexus (sesso) sta a significare proprio il ‘separato’, l’idea stessa della separazione: separati sono e rimangono coloro che, non accettando il destino, tentano di fondersi l’uno con l’altro. »[12].
Ma restando, ancora quanto basta, legati al fatti iniziatico – e qui la soluzione alchemica –  < già nel capovolgimento del titolo “Euridice e Orfeo” c’è un’indicazione di lettura. Anche se la presenza di Orfeo prevale, è Euridice la vera protagonista, colei che condurrà l’amato all’elaborazione del lutto per la sua morte. È lei a impedire il lieto fine chiedendo ad Orfeo: « … Se mi ami devi guardarmi. Non puoi far altro che voltarti e guardarmi». Nel negarsi all’amore, e al mondo, opera così un’esclusione definitiva. Il viaggio di Orfeo negli inferi per riportare in vita l’amata si trasforma in un percorso al rovescio in cui è lei gioiosa a illuminarlo nel cammino verso l’accettazione della sua assenza, della realtà. « La morte è questione di chi resta, non di chi parte »[13]. Di qui il « grande interrogativo se sia possibile sconfiggere anche la morte. È ciò che crede Orfeo, lottatore nel vuoto, essere fragile e pauroso, convinto di poter vincere anche Ade. Ma Euridice non può più tornare. »[14].
L’“inverso” riporta alla comprensione del mito di Narciso che si innamorò della propria immagine, cioè rese razionale ciò che non lo poteva essere con sé stesso, lo specchio. Gli specchi, secondo varie tradizioni, sarebbero in grado di imprigionare l’interiorità umana, l’anima. Anticamente era infatti in uso, nella stanza in cui veniva composto un defunto, coprire gli specchi, per permettere un trapasso sereno nell’aldilà. “Come” si realizzino le immagini sullo specchio, quale sia il rapporto fra immagini reali ed immagini riflesse, fra raggi incidenti e raggi riflessi, è stato in tempi antichi oggetto di stupore e di meditazione: da qui le leggende intorno alla sua capacità magica di attrazione. Ecco i due Leoni ermetici in questione, oggetto del mistero alchemico del loro rapporto per dar vita al Rebis filosofale, alla vagheggiata concezione della Pietra filosofale. Ed è così attrattivo il miraggio dello specchio che quando vi si è così vicino nulla può determinare il distacco, tanto è potente il magnete che attrae. Se un pensiero satura lo spazio, il suo potere è conforme al Cosmo. Tutte le energie razionali si rispecchiano nel pensiero. In verità, pensiero e coscienza generano tutti i principi e il potere creativo universali. Chi vuole realizzare il Magnete creativo deve riconoscere il valore dell’impegno strenuo. Chi ha accettato il Calice di Amrita (la bevanda degli dei che rende immortali: dal sanscrito Amrita) sa cos’è il pensiero strenuamente impegnato. La tensione si fa conforme a quella del Magnete solo se l’assimilazione è possente: in tal caso i centri sono in risonanza con esso. Il Portatore del Fuoco tende al massimo i suoi desideri, e con ciò ogni suo pensiero è fervido e consono al Magnete. Allora il suo pensiero è in grado di creare universalmente e i suoi desideri assecondano con potenza l’evoluzione. Il pensiero è la più sottile delle energie. Si può in verità affermare che esso dura più di qualunque altra cosa. Il pensiero è immortale, e continua a vivere creando combinazioni nuove. Pertanto, se l’energia psichica cresce, nulla può arrestarlo[15].
Dunque il capovolgimento “Euridice e Orfeo” porta alla realizzazione alchemica del Rebis filosofale, cosa già detta. Ed è anche l’unica condizione per oltrepassare la lavagnetta del compasso del matematico Euclide o dell’altro matematico Archimede. In verità non ci si accorge che il tempo fa la sua parte e quando si arriva al punto F della citata lavagnetta, son passati secoli e persino millenni per una risolutiva prospettiva della lettura di Scuola di Atene proposta da Raffaello Sanzio che, con la sua misteriosa morte a seguito di probabili “eccessi erotici”[16], forse conferma la sua propensione iniziatica della “via Orfica” in relazione all’ordine iniziatico dei Fedeli d’Amore. Di qui ecco che si prospetta il percorso GH del quadrato, una volta valicato il punto P e raggiunto tramite il percorso PG. E come ho indicato nell’illustr. 5, sono gli eventi futuri a dare la risposta al novello amoroso che si dispone a concepire in lui la nuova vita rigenerata appunto da quell’amore che tanto lega, ma “provvisoriamente”, Orfeo a Euridice e… Raffaello a Ipazia. Tutti e tre e come se attraversassero insieme lo Stargate, la porta delle stelle, appena accennata in precedenza. La Scuola di Atene non mente per aver indotto Raffaello a porre in alto, del suo affresco in questione, il finestrone di fondo attraversato dalla retta GH diviso in tre parti che sta, probabilmente, per passato, presente e futuro. E sarà così la nuova scienza, tanto cara alla matematica Ipazia a permettere già in vita l’accordo amoroso perseguito da Orfeo per Euridice e Raffaello per l’impossibile Ipazia del passato intravisto in più di una giovane delle quali si sentiva perdutamente attratto. Anche Raffaello, come Orfeo, questi per il canto, ed il primo per l’arte, però dovevano svincolarsi da queste facoltà quasi divine, per riunirsi alle rispettive amate, entrambe estremamente lontane da raggiungere, come essi anelavano perdutamente: tale era il prezzo del riscatto. Li divideva il passato e in alternativa, solo nel futuro si poteva unire ogni cosa se suggellata dall’amore per poi avere tutto.


martedì 19 dicembre 2017

Alla scuola di “rivoluzione e controrivoluzione” per rifondare una nuova civilta' cristiana.

di Domenico Bonvegna

Certamente un mondo sta crollando, il nostro, quello occidentale, anzi per qualcuno è già morto da tempo. Allora serve costruirne un altro, che ovviamente non sarà mai uguale a quello scomparso. Per rifare un nuovo mondo, tra le tante cose da fare, bisogna studiare molto, non basta solo leggere. Occorre però studiare opere importanti e significative che possano cambiare la nostra vita. Un testo che può dare un grande contributo a rifondare un nuovo mondo è certamente “Rivoluzione e Controrivoluzione”, un testo che a suo tempo ha cambiato la mia vita e quella di molti giovani, non solo in Italia, ma in tutto il mondo. “Rivoluzione Controrivoluzione”, scritto nel 1959 da un professore, un pensatore cattolico, un uomo d'azione brasiliano, Plinio Correa de Oliveira, nato a San Paolo, il 13 dicembre 1908, da genitori appartenenti all'aristocrazia,“paulisti di quattrocento anni”.Per il cinquantenario dell'opera, la casa editrice SugarcoEdizioni di Milano, su sollecitazione di Alleanza Cattolica, ha pubblicato nel 2009 il testo integrato da cinque Appendici, precedenti e seguenti la sua pubblicazione di mezzo secolo fa. Corredato dall'Autoritratto filosofico dell'autore e dal suo testamento. Infine nel testo sono proposte testimonianze e presentazioni dell'opera nelle diverse edizioni. Complessivamente la nuova edizione arriva a ben 493 pagine.
Per quanto riguarda, l'edizione della Sugarco, ristampata nel 2016, è la 5a edizione del testo che possiedo e quindi che ho letto. La 1a edizione del testo del pensatore brasiliano è uscita nel 1963 per volontà del giovane intraprendente piacentino Giovanni Cantoni per le edizioni Dell'Albero di Torino. Poi è stato pubblicato per la casa editrice Cristianità nel 1972 e nel 1977. Nel 1999, l'Associazione “Luci sull'Est”, ne ha pubblicato una edizione non commerciabile. Il testo del professor Plinio oltre a leggerlo, l'ho studiato attentamente individualmente, ma anche in gruppo con gli amici militanti di Alleanza Cattolica.
Ma chi è il professor Plinio? E' una figura poliedrica, per avere l'idea del personaggio, elenco qualche incarico, ben presto in Brasile si è qualificato come l'esponente più in vista del Movimento cattolico, nel 1929 fonda l'Acao Universitaria Catolica. Nel 1932, promuove la formazione della LEC, la Liga Eleitoral Catolica, nelle cui liste, l'anno seguente viene eletto all'Assemblea Costituente: è il deputato più giovane e più votato di tutto il paese.
Scaduto il mandato parlamentare, viene chiamato alla cattedra di Storia della Civiltà e poi diventa titolare di Storia Moderna e Contemporanea. Nel 1940 è uno dei fondatori dell'Azione Cattolica paulista.
Plinio Correa de Oliveira, scrive Giovanni Cantoni, nella presentazione del testo pubblicato dalla Sugarco, è “un uomo di pensiero, oratore, conferenziere e giornalista, attratto fin da giovane dall'analisi della crisi contemporanea, della sua genesi e delle sue conseguenze. Correa de Oliveira è autore di studi di carattere sociologico e storico, sempre sollecitati da situazioni della vita della Chiesa e del mondo cattolico, nonché da frangenti del mondo religioso e sociopolitico internazionale o iberoamericano, cattolico convinto e militante, la sua parola e la sua penna sono sempre state al servizio della Chiesa e della civiltà cristiana.
Nel 1960, fonda la Sociedade Brasileira de Defesa da Tradicao, Familia e Propriedade, la TFP brasiliana, il cui statuto si ispira a quello dei Comitati Civici costituiti in Italia nel 1948 da Luigi Gedda (1902-2000). Da allora si dedica completamente alla funzione di presidente di questa associazione. L'obiettivo era quello di diffondersi tra i giovani brasiliani e di organizzarli per la Contro-Rivoluzione.“Il suo metodo consisteva nell'attrarre e nel formare giovani che potessero contribuire alla promozione contro-rivoluzionaria della Società attraverso giornali, libri, radio e televisione e contribuire alla vendita di materiali pubblicati dalla Società in campagne pubbliche per le strade”. Un ideale che ha attirato l'entusiasmo di tanti giovani in tutta l'America Meridionale, facendo nascere società autonome simili. Naturalmente queste associazioni hanno combattuto il comunismo organizzato e dichiarato.“Insomma, si può dire che, se non fosse stato grazie all'esistenza delle TFP, forse la tattica cripto-comunista avrebbe soggiogato l'intera America Meridionale a Mosca”.
In qualità di scrittore, giornalista e pensatore, lascia oltre 2500 articoli e manifesti. E' stato direttore del settimanale O Legionario, collabora regolarmente al mensile di cultura Catolicismo, peraltro dove ha pubblicato per la prima volta nel 1959 il best seller “Rivoluzione e Controrivoluzione”. Inoltre De Oliveira ha collaborato con alcuni quotidiani brasiliani come la Folha de S. Paulo. I suoi scritti sono ripresi in tutto il mondo in particolare in Italia, dalla rivista Cristianità, organo ufficiale di Alleanza Cattolica.
Il pensiero e l'azione di Correa de Oliveira, che troviamo in “Rivoluzione e Controrivoluzione”, prendono l'avvio e ruotano attorno a un giudizio storico:“è esistita una civiltà cristiana occidentale, animata dalla Chiesa Cattolica, frutto dell'inculturazione della fede prima nell'Europa Occidentale, poi, via via, nella Magna Europa. Di tale civiltà cristiana - scrive Cantoni - è in via di realizzazione il processo di distruzione, la Rivoluzione, una dinamica storica in quattro fasi: la prima religiosa, la Riforma protestante, preceduta e accompagnata da una rivoluzione culturale rappresentata dall'Umanesimo e dal Rinascimento; la seconda politica, la Rivoluzione Francese; la terza sociale, la Rivoluzione comunista; e, infine, la quarta, la Rivoluzione Culturale iniziata con il Sessantotto francese e a esso emblematicamente, anche se non sempre fattualmente, collegabile”. E' un lungo processo storico di lunga durata, oltre cinquecento anni, che si sviluppa abbracciando tutte le attività dell'uomo, come la cultura, l'arte,le leggi, i costumi e le istituzioni. Fino al secolo XVIII, il processo rivoluzionario fu eminentemente religioso: le istituzioni politiche rimanevano più o meno intatte. Invece dal 1789 alla fine del XIX secolo fu essenzialmente politico.
Nella I appendice si può leggere una conferenza del dott. Plinio che ha tenuto sulla Civiltà Cristiana del Medioevo. Qui viene esposto l'ordine cattolico che “si realizzava in una gerarchia in cui le diverse classi sociali – fra le quali vi era una transizione perfetta – erano l'esito dello stesso ordine naturale delle cose”. De Oliveira espone i rapporti sociali improntati sulla paternità e la bontà. Naturalmente qui si viene a smontare tutte quelle sciocchezze scritte senza documentazione sul “buio medioevo”. A questo proposito per comprendere quei mille anni, può essere utile l'ottimo testo scritto da Regine Pernoud, “Luce del Medioevo”. Ma anche tutti i fondamentali testi scritti dal sociologo americano Rodney Stark. Il professore brasiliano evidenzia la notevole differenza tra la schiavitù dell'antichità e i servi della gleba. Per de Oliveira,“Soltanto con l'instaurazione della Cristianità medievale in Europa si conobbe, per la prima volta nella Storia, un continente intero senza la schiavitù”. Il servo della gleba, godeva di molti diritti, non poteva essere espulso dalla terra ove lavorava ed esercitava una specie di diritto di proprietà sulla casa in cui abitava. Poi c'erano le corporazioni di mestieri con una propria legislazione del lavoro. E poi le università, le scuole dei conventi, dei religiosi. Gli ospedali erano mantenuti dal clero o dagli ordini femminili.“Il clero fondò molti ospedali durante il Medioevo e iniziarono a essere praticati i principi igienici nel trattamento degli infermi e di feriti. La medicina moderna è nata in quegli ospedali”. Mentre la nobiltà era obbligata a combattere in tempo di guerra, i plebei non erano obbligati. Nel Medioevo esistevano le libertà regionali.“La libertà provinciale e municipale conobbe in tale epoca una straordinaria possibilità di espansione”. Al contrario degli Stati moderni che posseggono una sola Costituzione che regge tutto il paese. Il nostro autore sostiene con forza che la“civiltà cristiana non un'utopia. Si tratta di qualcosa di realizzabile e che, di fatto, si è realizzata in una determinata epoca”. E puntuale il professor Plinio cita il grande Papa Leone XIII, in riferimento al Medioevo, nell'enciclica “Immortale Dei”, poteva scrivere: “Ci fu un tempo in cui la filosofia dell'evangelo governava gli Stati...”, “quando la forza e la sovrana influenza dello spirito cristiano era entrata ben addentro nelle leggi, nelle istituzioni, nei costumi dei popoli, in tutti gli ordini e apparati dello Stato; quando la religione di Gesù Cristo, posta solidamente in quell'onorevole grado che le spettava, andava fiorendo all'ombra del favore dei principi e della dovuta protezione dei magistrati; quando procedevano concordi il sacerdozio e l'impero, stretti avventurosamente fra loro per amichevole reciprocità di servigi. Ordinata in tal modo la società, apportò frutti che più preziosi non si potrebbe pensare, dei quali dura e durerà la memoria, affidata a innumerevoli monumenti storici, che nessun artificio di nemici potrà falsare od oscurare”. Ma anche Paolo VI, interviene sul ruolo del Papato nell'Italia medievale: “[...]non dimentichiamo i secoli durante i quali il Papato ha vissuto la sua storia [d'Italia], difeso i suoi confini, custodito il suo patrimonio culturale e spirituale, educato a civiltà,, a gentilezza, a virtù morale e sociale le sue generazioni, associato alla propria missione universale la sua coscienza romana ed i suoi figli migliori”. E ancora Papa san Pio X, ha potuto scrivere sempre riferendosi al Medioevo: “[...] non si deve inventare la civiltà, né si deve costruire la nuova società tra le nuvole. Essa è esistita ed esiste; la civiltà cristiana, è la società cattolica. Non si tratta che di instaurarla, ristabilirla incessantemente sulle sue naturali e divine fondamenta contro i rinascenti attacchi della malsana utopia, della rivolta e dell'empietà: 'Restaurare ogni cosa in Cristo”.
RcR, il testo scritto da de Oliveira, consta di due parti: La Rivoluzione e la Controrivoluzione.
 La Rivoluzione è promossa dall'orgoglio, e dalla sensualità, due passioni che suscitano la rivolta dell'uomo contro la morale e contro la fede cristiana. In pratica, per de Oliveira, la Rivoluzione “non è essenzialmente un moto di piazza, una sparatoria o una guerra civile, ma ogni sforzo che mira a disporre gli esseri contro l'Ordine”. E' un fenomeno eminentemente spirituale, il campo d'azione è “l'anima umana e la mentalità della società”. Scrive nel suo autoritratto filosofico:“Le crisi non nascono dalla mente di qualche pensatore, ma dalle passioni disordinate, eccitate dal Potere delle tenebre”. Tuttavia,“le passioni disordinate, eccitate dall'azione preternaturale del Potere delle Tenebre, sollecitano continuamente gli uomini e i popoli al male[...].
La Contro-Rivoluzione è ogni sforzo che miri a circoscrivere e a eliminare la Rivoluzione. Nella storia ci sono stati diversi movimenti e brillanti talenti che hanno combattuto la Rivoluzione, ma la maggior parte si limitavano a contrastarla in qualche sua espressione, mai nella sua totalità.
La Contro-Rivoluzione sarà una “re-azione, cioè un'azione diretta contro un'altra azione”. Il de Oliveira ha in mente una Cristianità nuova, tutta splendente di fede, di umile spirito gerarchico e d'illibata purezza, chiaramente questo si farà soprattutto attraverso un'azione profonda nei cuori. Ora, quest'azione è opera specifica della Chiesa, che insegna la dottrina cattolica e la fa amare e praticare. La Chiesa è, dunque, l'anima stessa della Contro-Rivoluzione”.
“La nostra epoca - scriveva Eugenia Adams-Muresanu, una scrittrice e poetessa rumena - presenta tutti i segni evidenti delle rovine con cui la Rivoluzione ha ricoperto la terra”, che poi “è tutto un mondo, che occorre rifare dalle fondamenta”, ha dichiarato con tono profetico Pio XII. Certo qui non possiamo affrontare tutti i temi che ci ha offerto il professor Plinio con il suo prezioso manuale, “Rivoluzione Controrivoluzione”.
In conclusione mi preme segnalare l'ultimo testo del professore brasiliano, scritto qualche anno prima della sua scomparsa. Si tratta di “Nobiltà ed èlites tradizionali analoghe nelle allocuzioni di Pio XII al Patriziato e alla Nobiltà romana” del 1993. Al solo enunciare il titolo, sembrerebbe un argomento per soli storici ma non è così. Anzi il tema affrontato è di estrema attualità.
Il professore si riferisce alla mancanza di èlite, di équipe, di classi dirigenti adeguate nel proprio paese, ma vale anche per gli paesi.“Perché non abbiamo le élite necessarie. Dove vi sono le élite moralmente e intellettualmente capaci, non mancano gli uomini idonei per la loro competenza e per la loro moralità. Dove non vi sono élite, gli uomini di reale valore sono rari, poco noti e condannati a vegetare anonimi nella moltitudine dei mediocri o dei ladruncoli”.
Il Pontefice Pio XII aveva previsto che, presto o tardi, le condizioni morali del mondo moderno, si stava avviando verso una crisi totale profonda. Per questo ha pronunciato, nel suo pontificato, quattordici importantissime allocuzioni, che contengono un appello a che fossero preservati con cura, nei paesi con tradizione nobiliare, le rispettive aristocrazie. E che, nello stesso tempo, le élite nuove, originate dal lavoro esercitato nel campo della cultura come in quello della produzione, trovassero condizioni propizie per costituire élite autentiche, dello stesso genere della nobiltà per la loro formazione morale e culturale, come per la loro capacità di comando. Sarebbe loro compito formare, al modo della nobiltà, autentiche élite capaci di dare origine a uomini scelti nei più diversi campi”.


lunedì 18 dicembre 2017

“Il Natale nella vita e negli scritti di mistici e di santi”, di Don Marcello Stanzione

di Antonio Ferrisi
Un viaggio di venti secoli sul Natale, da Agostino (IV secolo) a Carlo Maria Martini (XX secolo). L’autore di “Il Natale nella vita e negli scritti di mistici e di santi” (edito da Mimep-Docete, 320 pagine con 52 immagini artistiche sul Natale – euro 14,00) è il parroco di Campagna (SA) don Marcello Stanzione, che ci conduce per mano nella vita di mistici e santi che hanno scritto sul mistero del Natale. Accompagnati dalle immagini della storia dell’arte, cinquantadue storie di uomini e donne che hanno fatto del mistero dell’incarnazione il centro della loro vita.

Veniamo così a scoprire che Bernardo di Chiaravalle, Francesco d’Assisi e Antonio di Padova ebbero la visione della nascita di Gesù. E, in estasi, Brigida di Svezia vide il parto indolore della Vergine Maria. Tra la fitta schiera di mistiche, Edith Stein, convertita dall’ebraismo al cristianesimo e Maria Valtorta, che ha scritto il Poema dell’uomo-Dio.
La bellezza del Natale risplende nell’arte in forme e colori. Alla vita del vescovo Ambrogio si accompagna l’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano. Il Natale di Antonio da Padova viene illustrato da una Natività del Beato Angelico. A padre Pio da Pietrelcina si accosta un’Adorazione di Orazio Gentileschi. Per Faustina Kowalska, la Natività del pittore francese Paul Gauguin. Nel giorno di Natale, la Chiesa commemora tutto ciò che è avvenuto a Betlemme, ma non si limita al lato esteriore degli avvenimenti. Contempla il mistero del Figlio di Dio, che “nato dal Padre prima di tutti i secoli, Dio da Dio, luce da luce, Dio vero da Dio vero”, per “noi uomini e per la nostra salvezza” discese dal cielo. Dio, che in modo meraviglioso inizia l’opera della sua salvezza. Cristo diventa l’uomo simile a noi in tutto eccetto il peccato. Si giunge ad un “meraviglioso scambio”: Cristo accolse la nostra natura umana, debole e limitata, per farci partecipare alla sua natura divina.
Che cos’è la venuta di Cristo per l’uomo? L’uomo ha visto Dio in forma visibile, Cristo ha portato agli uomini la nuova vita, li ripristina nella dignità di figli di Dio, introduce l’uomo mortale nella vita eterna, libera l’umanità dalla vecchia schiavitù del peccato e le dona la libertà. Il Natale, così concepito, si collega inseparabilmente con il mistero della Morte e della Resurrezione di Cristo. Benché allora per molti cristiani il Natale è un gioioso ricordo della venuta di Cristo che porta la pace e la fraternità, la Chiesa vede questa festa in stretta relazione con la sua futura morte; Gesù deposto nella mangiatoia viene chiamato nelle preghiere il Redentore. Celebrare il Natale significa esprimere nella vita la nuova realtà dell’uomo, rendersi simile al Figlio di Dio, aprirsi all’azione della grazia, cercare le cose di lassù, crescere nell’amore fraterno. Alcuni mistici  hanno goduto il privilegio che, secondo l’Evangelista San Luca, fu concesso a Simeone: quello di stringere fra le braccia il bambino Gesù. San Francesco non ottenne questo privilegio, di cui godette invece S. Antonio, ma sentì come pochi il fascino della divina infanzia; e realizzò, a Greccio, il Presepe. Nella sua scia, la poesia francescana s’impadronì di questo tenero, devoto argomento e lo innalzò con Jacopone a sublimi altezze. Non di meno, se il privilegio fu eguale, ben diversa è la posizione dei Santi rispetto al Divino Infante. Il sentimento di Simeone – come appare dal testo evangelico – dovette essere di profonda emozione, ma soprattutto di gratitudine per l’Altissimo, che aveva mantenuto la promessa, inviando il  Messia atteso e invocato da tante generazioni, e gli aveva concesso il privilegio di contemplarlo prima di chiudere i suoi occhi mortali: ora sì che poteva morire in pace! Ma egli non arrivò a sospettare la divinità di quel pargoletto. Se intravide, secondo la profezia fatta a Maria, il suo tragico destino, non poteva immaginare ed anzi nemmeno concepire, data la sua mentalità ebraica, che Dio si era umiliato fino al punto d’incarnarsi.
Insomma, leggendo il testo di S. Luca, si ha l’impressione che Simeone comprese solamente, per rivelazione dello Spirito Santo, che quel piccino era l’Unto del Signore, l’atteso Liberatore d’Israele. I Santi, invece, guardano al bambino Celeste con altro spirito in cui, alla tenerezza struggente, si unisce un più vivo sentimento d’adorazione, di gratitudine e d’indegnità. Il velo della Promessa è caduto per l’avvenuta Incarnazione; il mistero è stato rivelato dallo stesso Gesù, ed essi sanno quel che Simeone ignorava – e si sarebbe rifiutato d’ammettere, come un’offesa al dio Unico – cioè che quel Bambino era lo stesso Dio fatto uomo, la Seconda persona della Trinità Divina. Quindi misurano l’immensità dell’amore di Dio per gli uomini e la distanza incommensurabile che separa la creatura dal suo Creatore. Nello stesso tempo essi vedono in quel tenero Infante indifeso la vittima destinata al sacrificio, la cui posta è la redenzione del genere umano. Chi potrà esprimere il sentimento complesso e ineffabile ispirato ai Santi da questa visione beatifica, che per essi è più reale di qualunque realtà?
Il libro di don Marcello Stanzione si presenta come una meravigliosa strenna di Natale da regalare alle persone più care che certamente resteranno entusiasti di tale pubblicazione che in un modo eccellente unisce arte e spiritualità.
da: www.riscossacristiana.it

giovedì 14 dicembre 2017

Padre Pio contro satana. Il libro che racconta la battaglia di una vita intera di un Santo straordinario

di Marco Tosatti

Mi permetto di segnalarvi un libro che è appena stato pubblicato – dal 30 novembre scorso è in vendita su Amazon e su altre librerie online, e non solo – da ChoraBooks, e che manca da molti anni nelle librerie normali. Racconta il rapporto straordinario di uno dei più grandi santi del secolo scorso, Padre Pio, con il nemico dell’umana natura, l’avversario per eccellenza, il demonio.
È un libro non lungo, ma a cui sono molto affezionato, perché è il frutto di lunghe ricerche nelle memorie di quanti hanno conosciuto il santo, e la maggior parte del suo materiale proviene da fonti originali, e di difficile reperimento e consultazione: gli otto volumi della “Positio”, cioè la mole di testimonianze e documenti che hanno portato il religioso di Pietrelcina agli onori degli altari.
Racconta questa battaglia, che si è conclusa solo con la vita terrena di Padre Pio: “un duello di tempi antichi, vissuto nel secolo appena trascorso”, una lotta reale, “un corpo a corpo prolungato per tutta l’esistenza terrena, e anche oltre, fra un monaco e il suo Avversario”.
Moltissimi sono gli episodi straordinari legati a questa battaglia. Fra questi uno di cui è stato protagonista uno dei fedelissimi del santo del Gargano” il celebre esorcista di venerata memoria don Gabriele Amorth che prima della morte ha narrato “di come il commendatore Angelo Battisti, primo amministratore e primo Presidente della Casa Sollievo della Sofferenza di San Giovanni Rotondo sia stato posseduto negli ultimi anni della sua vita dal demonio”.
Don Gabriele Amorth, della cui amicizia mi onoro, era un fedele di Padre Pio, che aveva conosciuto personalmente, e verso il quale nutriva una grande venerazione.
Nel libro ho scelto di concentrami solo sulle apparizioni e sulle manifestazioni diaboliche – alcune molto fisiche e corporali – vissute da padre Pio; ho volutamente appena accennato a estasi e visioni celestiali, che spesso seguivano da presso gli scontri con satana, e che credo, erano strettamente connesse alla lotta spirituale combattuta dal salto.
Dicevamo che la battaglia è andata avanti sino alla fine della vita terrena di Padre Pio. Penso che il suo avversario non gli abbia concesso tregua. Chiudo questo breve articolo con la citazione delle ultime righe del libro: “L’eroe di un’epopea ‘deve’ morire con la spada in pugno. Anche padre Pio aveva un’arma. Quale fosse, lo rivelò pochi giorni prima di morire. Racconta padre Tarcisio da Cervinara che un giorno, ‘mettendosi a letto disse ai frati che erano in cella col lui: ‘Datemi l’arma. E i frati, sorpresi e incuriositi, gli chiedono: ‘Dov’è l’arma? Noi non vediamo niente!’. E padre Pio: ‘Sta nella mia tonaca, che avete appesa all’attaccapanni or ora!. I frati, dopo aver rovistato per bene in tutte le tasche del suo abito religioso, gli dicono: ‘Padre, non c’è nessun’arma nel suo saio! C’è soltanto la corona del Rosario!’. E padre Pio, subito: ‘E questa non è un’arma? La vera arma?’ “.
da: www.marcotosatti.com

mercoledì 13 dicembre 2017

Perché Giuda tradì Gesù? Un romanzo spiega il mistero

di Luciano Garibaldi

«Il mio nome è Giuda» è il titolo che Rino Cammilleri ha scelto per il suo nuovo romanzo storico-religioso che si aggiunge ad una serie di libri di grande e meritato successo, apprezzati sia da chi professa e vive la fede cattolica, sia da chi si pone continui interrogativi sulla nostra origine e il nostro destino. Il libro, edito da «La Fontana di Siloe» (272 pagine, 19,50 euro), risponde a una domanda di fondo: perché Giuda consegnò Gesù al Sinedrio dopo essere stato al suo fianco per tre anni?
Uno degli interrogativi più appassionanti di sempre è al cuore di questo romanzo sorprendente che racconta le vicende della vita pubblica di Gesù dal punto di vista e con la voce dell’apostolo il cui nome è diventato sinonimo di tradimento e falsità. La storia parte da Giovanni Battista, di cui Giuda è discepolo. Unico apostolo giudeo (tutti gli altri sono galilei), è anche il solo ad avere studiato e a non essere stato «chiamato» (almeno inizialmente). Per tutta la vita Giuda non ha fatto altro che aspettare il Messia per mettersi al suo servizio. Per questo, fin dall’infanzia, è stato allevato da suo padre e ha studiato con i migliori maestri.
Poiché il tempo profetizzato è giunto, il suo unico scopo è individuare il Messia e diventarne stretto seguace. Il Messia libererà Israele dall’oppressione dei goyim e gli darà il dominio sulle nazioni. Giuda sarà al suo fianco nell’impresa e avrà parte nel suo trionfo finale. Così, alla ricerca del Messia, si imbatte in personaggi che si riveleranno impostori.
Di falsi profeti ne ha visti diversi, qualcuno lo ha anche incontrato, ma finalmente ecco Gesù, che gli sembra davvero quello autentico. Giuda, così, lo segue con un entusiasmo che, però, via via va scemando: ai suoi occhi, infatti, Gesù non si comporta come il Messia da lui sperato e atteso, anche se compie miracoli incredibili. Giuda è spiazzato da ciò che vede e sente intorno a sé, non capisce certi comportamenti di Gesù, le provocazioni ai farisei sul sabato, gli scontri con praticamente tutta la classe dirigente ebraica, il silenzio – quando non, addirittura, l’elogio – per quanto riguarda gli occupanti romani.
Osserva, rimugina, tentenna, è diviso tra ansie e incertezze, dubbi e tormenti, forse comprensibili in un uomo ma non in uno in cui Gesù ha riposto una fiducia tanto grande da averlo cooptato nel suo staff più intimo, quello dei Dodici Apostoli. «Il mio nome è Giuda» fa felicemente dimenticare il rigore documentale che ne è alla base, catturando il lettore con una ricostruzione storica e psicologica raffinata e ricca di sfumature. Si scopre, alla fine, perché Giuda decide di vendere il suo Maestro ai sinedriti. La cosa più ovvia sarebbe, raggiunta la delusione, andarsene e smettere di seguirlo. Invece, no. C’è un motivo, un motivo preciso, lucido e razionale, perché Giuda fa quello che fa e consegna Gesù al Sinedrio. Solo che le cose prendono una piega diversa e il progetto di Giuda fallisce clamorosamente. Quando Giuda capisce di essere stato l’esca di una trappola preordinata, si dispera, ma può ancora scegliere. Senonché, la sua superbia è troppo profonda.
Il romanzo di Cammilleri mette in scena praticamente tutti i personaggi del Nuovo Testamento, da Pilato al cieco di Gerico, da Nicodemo agli indemoniati di Gadara. Anche quelli che nei Vangeli non sono nominati ma che storicamente esistettero, come i vari componenti del Sinedrio o i padrini politici di Pilato. In un affresco vivacissimo come un film.
Questo nuovo e avvincente romanzo s’inserisce a buon diritto tra i migliori prodotti letterari di un autore che ha firmato opere come “Medjugorie. Il cammino del cuore”, Mondadori, “Gli occhi di Maria”, (con Vittorio Messori), Rizzoli, “Antidoti”, Lindau, “La vera storia dell’Inquisizione”, Piemme, “Dio è cattolico?”, Lindau, “Il Kattolico”, Sugarco, “Le lacrime di Maria”, Mondadori, “Vita di Padre Pio”, Piemme.

da: www.riscossacristiana.it

Pubblichiamo l'intervento in occasione della presentazione del libro di Leonarda Brancato "Il corpo, i segni, le parole" (Ed. Thule)

di Vito Anzelmo

Quando Nanda Brancato citofonò erano da poco passate le 14,30 due fumanti piatti di pasta col broccolo arriminatu erano appena arrivati sul tavolo. Scesi al portoncino, la invitai a salire ma mi disse che era cosa breve e ci fermammo sulla soglia.
Mi chiese se volessi dire due parole alla presentazione di un suo libro...
Le dissi subito di si.
E comunque pensavo che avesse scritto qualcosa sulla nostra interessante biblioteca che ormai da molti anni è sotto la sua cura.
E invece. Invece mi sono ritrovato tra le mani un titolo bellissimo, ac­cattivante, una copertina firmata da Enzo Puleo, un artista che conosco da tempo e che ho sempre apprezzato. Si, i titoli non sono importanti solo per i romanzi. Sono belli quando a prima vista intrigano ma, anche, come in questo caso, quando riescono a sintetizzare i contenuti delle pagine che ancora non abbiamo letto.
Così anche la scelta di quegli arcaici caratteri sicuramente gioca ruolo non secondario nel catturare l’attenzione del lettore.
Insomma il discorsetto andò per le lunghe perché la cosa mi incuriosiva.
Anche non calda la pasta col broccolo arriminatu si può mangiare.
E il pomeriggio passò a leggere tutto d’un fiato il libro di Nanda.
Se IL CORPO è il corpo in tutta la sua materialità, I SEGNI e LE PA­ROLE attengono istintivamente all’ANIMA che il titolo sembra assoluta­mente ignorare e invece mostra nuda; più nuda di quanto è quel corpo sta­tuario delineato nel misterioso tratto azzurro da Enzo Puleo.
E se LE PAROLE e I SEGNI sono tracce indiziarie di quel CORPO che ne oltrepassano il tempo e la fragilità la MANO dell’Homo dalla notte dei tempi è lo strumento che trasmette. Trasmette poteri, autorità, scatena ardente l’energia. E’ una mano virile, non necessariamente maschile, una mano che ha vissuto, che ha sperimentato intensamente gioie e dolori, esperienze di una lunga vita, una MANO che ha raccolto e che ha dato.
Mi ricorda le mani di Madre Teresa nonostante, a contenuti conosciuti da una prima sommaria lettura, possa sembrare un accostamento non del tutto ortodosso.
Evidentemente ancorché ‘u scantu quand’ero piccolo l’ho fatto più di una volta e ricordo i nomi da zzà Ciridda e da zzà Maruzza e perfino le loro abitazioni c’u a menza porta; e me nanna Catarina chi mi ci purtava, tempu di mmernu, tinennumi sutta u sciallu... (immagini che riaffiorano tutto ad un tratto dai profondi meandri della memoria), sull’argomento sono perfetta­mente asciuttu: un ossu.
Ho accettato l’invito non solo a titolo di cortesia, sicuramente dovuta, quanto perché dopo una più che trentennale frequentazione di archivi, di ore passate ad ascoltare storie, morto Ciccio Brancato, malgrado tutto almeno per età, sono il veterano degli studiosi ciminnesi. Questo mi autorizza a dire due cose. Ciminna è un paese antico (e questo mi fa piacere sentirmelo dire dagli amici di Baucina e di Ventimiglia, di Bolognetta e Villafrati o dai Campofilicesi e dai Menzujsara), nonostante moltissime perdite, conserva un patrimonio archivistico di eccezionale valore storico, una fonte inesauribile di notizie. Ci si può cavare di tutto, dalla storia sociale all’economia, dalla toponomastica alla scrittura di biografie (quanti illustri ciminnesi emergono dalle carte e bisognerebbe dar loro merito e tramandarne memoria). Sicuramente merito al dottor Graziano ed al Meli ma, come quest’ultimo diceva, pur riconoscendogliene non pochi, su quanto scritto e tramandatoci dall’illustre medico, bisogna ritornare.
Ciminna non è solo un forziere, un giacimento culturale.
A quelle casse ferrate, a quelle miniere Graziano ha tolto i sigilli, ha smantellato il cappellaccio, bisogna che siano esplorati; ed è forse venuto il momento.
La diffusa scolarizzazione ha dato possibilità a molti di acquisire saperi e professionalità, competenze scientifiche, emerse con promettenti risultati (e qui se volutamente non li menziono non significa escludere chi si dedica alla letteratura strictu sensu i Poeti i Romanzieri) penso quindi ad Agostina Passantino, Giuseppe Nigliaccio e Domenico Passantino, ad Andrea Masi e agli annunciati lavori di Liliana Ingraffia e Maria Urso, ai primi esiti editoriali di Rosario Alesi e Giovanni Sapore, all’attività di Vito Mauro solo per citare alcuni nostri ciminniti che da meno di un decennio vanno facendo strada.
A questa eccellente e promettente compagnia si aggiunge Nanda Brancato che da Ciminna ha saputo cavare cose nuove anche guardando al Graziano, come tutti facciamo, inevitabilmente, occupandoci dei tanti aspetti della cultura ciminnita.
Intanto una cosa va detta, a parte il fatto che la capacità di sintesi oltre a testimoniare di una conoscenza profonda e sapientemente padroneggiata dell’argomento, esposto usando un’armamentario scientifico e metodologico di tutto rispetto, esita uno scritto che si lascia leggere anche da chi come me è del tutto lontano dai linguaggi propri della disciplina. Anche laddove -nelle due interviste- ci si aspetterebbe un’ampliata, un entrare morbosamente nel dettaglio, Nanda Brancato ci convince subito che questo libro non è un manuale per apprendisti stregoni quanto un frammento ragionato di storia contemporanea ciminnita, vera e viva, che si porta dietro secoli e secoli di tante storie e sicuramente quel pizzico di mistero che non guasta e che biso­gna rispettare.
Insomma io credo che sia venuto il momento non solo di scavare nell’immenso patrimonio culturale materiale ed immateriale ciminnese (e non penso sempre alle cose d’arte, ad esempio penso da tempo ad uno studio dettagliato, quasi puntuale, dell’interessante patrimonio geologico e pa­leontologico -non sempre studiato senza preconcetti culturali- che stimoli sopratutto i decisori pubblici a far si che ad es. la Riserva Naturale delle Serre non sia solo un “vincolo” ma una risorsa) ma, è venuto anche il tempo per chi amministra la res publica di sostenere e stimolare le capacità di tante nuove competenze, di utilizzare al meglio queste fresche risorse umane.
Non farlo inevitabilmente significa perdere un treno.
Il Graziano nel 1911 aveva affrontato un breve saggio di Demopsicologia ciminnese, poi nel 1935 in quel bellissimo Canti e leggende vi si era più estesamente confrontato. Per Ciminna si trattava di studi davvero pionieristici e, come nel Ciminna. Memorie e documenti, l’urgenza di non tralasciare, di tramandare, di conservare, per noi che saremmo venuti, materiali che paventava si fossero perduti, lo porta ad ampliare gli orizzonti dei suoi inte­ressi.
Per molti, Graziano ha già detto tutto.
Gli esiti editoriali di questi ultimi tempi dimostrano esattamente il con­trario! Dimostrano come «Nel campo della ricerca [...] non esistono opere definitive».
L’attento studio di Nanda Brancato, che accoglie quell’antico suggeri­mento del Meli a ritornare sulle cose del Graziano, dimostra esattamente questa necessità, e ne esce fuori un lavoro sicuramente di gran pregio, capace di fermare nel tempo e con estrema chiarezza, uno di quei tanti aspetti del nostro essere ciminniti.
«gnothi sautón» (conosci te stesso) era scritto sul frontone del tempio di Apollo a Delfi, Nanda sicuramente in questo infinito percorso, ci da una mano, fa la sua parte, nel riconoscerci ciminniti.