di Gaetano Barbella
1 Descrizione di Scuola di Atene
La Scuola di Atene (illustr. 1) è un affresco (770×500 cm circa) di
Raffaello Sanzio, databile al 1509-1511 ed è situato nella Stanza della
Segnatura, una delle quattro “Stanze Vaticane”, poste all’interno dei Palazzi
Apostolici. Rappresenta una delle opere pittoriche più rilevanti dello Stato
della Città del Vaticano, visitabile all’interno del percorso dei Musei
Vaticani. L’affresco, rappresenta dei celebri filosofi antichi intenti nel
dialogare tra loro, all’interno di un immaginario edificio classico: venne
commissionato da papa Giulio II.
A sinistra della scena domina la statua di Apollo, mentre a destra
quella di Minerva. Sotto sono dipinti due rilievi: una Lotta di ignudi ed un
Tritone che rapisce una nereide. Al centro figurano i due principali filosofi
dell’antichità, Platone ed Aristotele. Platone, dipinto con le sembianze di
Leonardo da Vinci, regge in mano la sua opera, il Timeo, ed indica il
cielo con un dito (indicando l’’iperuranio, zona d’essere oltre il cielo dove
risiedono le idee), mentre Aristotele regge l’Etica e rivolge il palmo della
mano verso terra rivolgendosi al mondo terreno e alla volontà dell’uomo di
studiare il mondo della natura e di essere in contatto con essa.
Attorno a loro ed ad altri filosofi e matematici sono raccolti in
gruppi i loro seguaci.
All’estrema sinistra c’è Epicuro, alle cui spalle è presente Federico
Gonzaga fanciullo. Al centro, in primo piano, c’è Eraclito con le sembianze di
Michelangelo che appoggia il gomito su un grande blocco, mentre all’estrema
destra troviamo Euclide, con i tratti del Bramante, che disegna a terra. Di
saliente resta il personaggio emblematico oggetto di questo scritto che forse
non è quello interpretato da più studiosi. Mi riferisco all’unica donna
presente nello scenario in esame ed è l’unica rivolta verso l’osservatore,
oltre a Raffaello raffigurato all’estrema destra accanto all’amico Sodoma.
Poiché il tema di questo scritto riguarda fra l’altro proprio lei, per
necessità riporto integralmente tutta la descrizione in merito tratta wikipedia[1], fonte molto attendibile.
< Il personaggio sulla sinistra, di fianco a Parmenide, dai tratti
efebici, biancovestito e con lo sguardo rivolto verso lo spettatore, è di
identificazione controversa, anche se una identificazione generalmente
accettata è quella di Francesco Maria Della Rovere, duca di Urbino e nipote del
papa Giulio II, che all’epoca del dipinto si trovava a Roma e ai cui servigi
Raffaello doveva forse la venuta a Roma. Secondo l’ipotesi di Giovanni Reale
questa figura biancovestita è un simbolo emblematico dell’efebo greco ovvero
della “bellezza/bontà”, la Kalokagathia:
« L’interpretazione di questa figura è particolarmente difficile, e da
alcuni è stata del tutto fraintesa in vari sensi. Una tradizione ci dice che
Raffaello avrebbe riprodotto il viso di Francesco Maria della Rovere; ma alcuni
interpreti contestano la veridicità di questa tradizione. Ciò che occorre
comprendere non è tanto se Raffaello abbia riprodotto le sembianze di Francesco
Maria della Rovere, ma piuttosto che cosa abbia voluto esprimere con quel
personaggio. [… C’è] una corrispondenza (non solo nella configurazione ma anche
nella posizione) di questo personaggio con quello dell’angelo senza ali in
vesti umane nell’affresco della Disputa. […] Il bel giovane biancovestito, in
atteggiamento quasi ieratico, è un simbolo emblematico dell’efebo greco che
coltiva la filosofia e incarna la greca kalokagathia, ossia la “bellezza/bontà”,
ideale supremo di uomo virtuoso per lo spirito ellenico. »[2].
Ad analoghe conclusioni era giunto il noto storico d’arte austriaco
Konrad Oberhuber:
« Il cartone dimostra fuori da qualsiasi discussione che si tratta di
una figura ideale e non di un ritratto […]. Il discepolo in bianco, che ci
fissa con i suoi strani occhi e ci si libra dinanzi quasi irreale, è
l’espressione viva di quell’ideale del Bello e del Buono, e perciò stesso del
Vero, nucleo centrale delle correnti filosofiche. »[3]
L’improbabile identificazione con Ipazia (matematica di Alessandria
d’Egitto del IV-V secolo) non risulta suffragata da nessuna fonte o saggio
critico attendibile. Tuttavia risulta negli ultimi anni così ampiamente diffusa
che non è possibile non darne conto[4]. In quanto al personaggio seduto su un
gradino cioè Eraclito e che scrive su un foglio su un capitello, gli studiosi
pensano che sia stato aggiunto in seguito, ad opera compiuta. Infatti nella
Pinacoteca Ambrosiana di Milano è conservato il cartone finale disegnato di
proprio pugno da Raffaello, dove il presocratico non compare affatto.
Probabilmente l’autore, dopo aver visto il lavoro che Michelangelo aveva
compiuto per la Cappella Sistina (di cui una parte viene mostrata il 14 agosto
1511), si è sentito in dovere di aggiungere il ritratto del suo rivale nel suo
affresco, dandogli le sembianze del sapiente greco.
2 Tema e caratteristiche secondo la critica d’arte
Anche con queste note riporto quel che è relativo all’opinione
corrente della critica d’arte per quanto concerne il tema di questo dipinto
secondo il suo autore Raffaello Sanzio. Gli studiosi di Scuola di Atene
ritengono che l’opera rappresenti la facoltà dell’anima di conoscere il vero, e
cioè di approcciarsi alla scienza ed alla filosofia; il dipinto è in
contrapposizione a quello de La disputa del Sacramento, dove invece si
parla di fede e teologia. In un primo momento, dall’affresco può trasparire
confusione: un gran numero di filosofi sono raffigurati essenzialmente su due
soli piani. Oltre ai già citati, tra gli altri s’incontrano Pitagora, intento a
scrivere su di un libro; Socrate in una veste dal colore verde bottiglia, che
sembra incitare al dialogo il piccolo gruppo di persone che gli sta davanti;
Diogene, steso sulla scalinata quasi in simmetria con Eraclito. Il motivo
personaggistico dell’opera è identico a quello della Disputa: la presenza di
così tanti filosofi di varie epoche a significare il desiderio e lo sforzo per
arrivare al vero, già comune a tutta la filosofia antica. Il punto di fuga sta
tra le figure dei due grandi, Aristotele e Platone, quasi a volere indicare che
il vero abbia caratteristiche già intuite da questi due filosofi, i
cui pensieri furono di indubbia importanza per lo sviluppo del pensiero
occidentale[5]. Tra le curiosità, di recente si è
scoperto che il ritratto di Raffaello, era in realtà il ritratto giovanile di
Giulio II e che il ritratto di Pitagora rappresenta, come Raffaello immaginava,
il successore di Giulio II. Il particolare poi, dell’affresco raffigurante
Euclide (secondo alcuni studiosi Archimede) è stato scelto nel 1906 in
occasione della commemorazione dell’ing. Giuseppe Colombo come emblema del
Politecnico di Milano e da allora ne costituisce il logo. Alla destra appare
anche lo “scrivano” che comparirà sulle copertine degli album Use Your Illusion
I e II dei Guns N’ Roses del 1991[6].
3 La geometria composita di Scuola di Atene
3.1 Scuola di Atene fu il vero titolo secondo le intenzione di
Raffaello?
Con il titolo di questo scritto si apre un interrogativo che fino ad
oggi non è stato mai posto, considerate fondate e univoche le opinioni sul
conto dell’opera pittorica Scuola di Atene di Raffaello. Di qui, risultando
diverso lo scopo inteso da Raffaello, per cominciare, potrebbe sorgere il
dubbio sul vero titolo del suo lavoro in studio, in relazione a quel che emerge
fra poco sotto la lente della geometria composita, che si rivela prepotente e
persuasiva e che ora mostrerò tappa per tappa. Leggo peraltro su wikipedia, la
stessa fonte da cui ho tratto le note fin qui riportate in parte sul titolo
Scuola di Atene, informazioni in merito controverse che sono queste:
« Il titolo tradizionale è molto posteriore al periodo di esecuzione e
non rispecchia le intenzioni dell’autore e della committenza e neppure la conoscenza
storiografica della filosofia classica che si aveva all’inizio del XVI secolo.
Risalente al XVIII secolo circa, fu proposto da studiosi di area protestante. »[7].
3.2 Gli studi di Leonardo da Vinci sulla radice aortica
Il costante interesse di Leonardo per la valvola aortica (Illustr. 2)
viene dimostrato dalla frequente ricorrenza di disegni di una struttura
tricuspide, indicando il fatto che era particolarmente attratto dalla sua
simmetria. Inoltre egli affermò: “No mj legga chi non e matematicho nelli mja
principj” (“Non lasciare nessuno che non sia un matematico leggere i miei
principi”). E’ ben conosciuto che la simmetria, già ben definita da Vitruvio
come “la proporzione fra il tutto e le sue differenti componenti”, viene
rappresentata da armonia, equilibrio e proporzione (Leonardo) così come è
documentato che, nella scuola di Pitagora, il cerchio nel piano e la sfera
nello spazio erano considerati le figure perfette per la loro simmetria e
rotazione. In effetti, nei disegni di Leonardo, la valvola aortica tricuspide
(ma anche quella quadricuspide) inserita in un cerchio appariva un perfetto
esempio di simmetria e rotazione. […]
Infine, descrisse accuratamente la verifica sperimentale con un
modello di valvola aortica “fa questa prova dj vetro e moujcj dentro acqua e
panico”. Se da un lato tutte le teorie di Leonardo erano suffragate da
un’argomentazione sperimentale, dall’altro l’osservazione della forma
rappresentava il pilastro su cui fondare la teoria della funzione. Infatti, nel
Codex Atlanticus, scrisse “nessuno effetto in natura e sanza ragione; intendi
la ragione e non ti bisogna esperienza” cioè “niente in natura è senza motivo;
capisci il motivo e non avrai bisogno di esperienza”. Pertanto il concetto di
“Unità funzionale e morfologica” della valvola aortica viene introdotto da
Leonardo con una semplice domanda: “perché il buso della arteria aorto e
triangolare” (“perché l’orificio dell’arteria aortica è triangolare?”)[8].
3.3 L’asimmetria in Scuola di Atene
Ho deliberatamente mostrato come Leonardo da Vinci tenesse tanto alla
simmetria, come quella della valvola aortica ben in linea col citato principio
del suo Codex Atlanticus. Tuttavia là dove questo principio non veniva
rispettato egli non lo rigettava ma lo stimava comunque un “pilastro su cui
fondare la teoria della funzione”, la cui teoria sanciva: “nessuno effetto in
natura e sanza ragione; intendi la ragione e non ti bisogna esperienza”. Ecco è
con questo principio che ora mi soffermo sull’affresco di Scuola di Atene,
nell’intento di ravvisarvi appunto delle asimmetrie che Raffaello è stato così
abile a camuffarle in modo che non siano notate. Naturalmente questa asimmetria
va ricercata nella disposizione architettonica dell’edificio in cui sono
disposti i diversi personaggi, perché così sembra al primo sguardo. Tanto più
che quel che ora sto facendo nessuno – mi sembra – lo ha mai fatto, questo a
conferma che tutto sembra perfetto, tutto sembra in linea per dar corpo alla
concezione di una prospettiva il cui punto di fuga, l’unico, è quello che
confluisce dietro le figure centrali di Platone e Socrate. Ma è proprio così?
No. Perché con sorpresa si può riscontrare con l’uso del compasso, che
il centro del grande arco di primo piano che fa da sipario scenico, non appartiene
all’asse immaginario, lo stesso di tutta la teoria degli archi retrostanti.
Ed è la formella di mezzo dell’arco asimmetrico a dare l’impressione
che sia, in simmetria col resto, invece no, giusto perché Raffaello deve averlo
posto così per ingannare l’osservatore. Sarà poi il compasso a dare questa
prova perché risulterà che il centro dell’arco sia su un asse verticale
corrispondente all’incirca al limite di sinistra della formella, falsamente
centrale dell’arco in questione e l’asse orizzontale, come farò vedere poi,
risulta davvero interessante. L’illustr. 3 ci mostra tutto quel che ho appena
detto sul conto del grande arco dell’inganno e si vede che l’asse orizzontale,
limitato da A e C dell’arco, ha il centro O disassato rispetto all’asse degli
archi retrostanti. Di qui comincia lo studio leonardiano della ricerca sulla
ragione di questa cosa, ma già ci si accorge che l’asse orizzontale passa
esattamente fra le due sfere a sinistra. Quella superiore rappresenta
l’universo sorretta dalla mano di Zoroastro, mentre l’altra, quella in
basso, che rappresenta la Terra, sorretta dalla mano di Tolomeo Claudio
incoronato.
Ecco che già la mente conduce, là dove Raffaello voleva, l’attenzione
dell’acuto osservatore per ottenere spiegazioni sulla sua opera ora in visione.
A questo punto occorre dar valenza alla ragione in merito al fatto che
l’emblematico personaggio, supposto quello di Francesco Maria della Rovere
(aggiungo ora per “convenzione”) e Raffaello sono gli unici rivolti
all’osservatore (ma siamo ora noi a svolgere questa funzione), mentre tutti gli
altri dell’affresco sono intenti alle loro funzioni, come fuori dal quadro di
azione scenico del secondo piano della misteriosa giovane donna e,
naturalmente, di Raffaello. Di qui sembra già molto chiaro che l’opera di
Raffaello veramente è rivolta a dar forza e valenza all’emblematica donna
vestita di bianco: lo scopo è questo e non tanto quello in cui viene
giustificato nel capitolo 2 che dice: “Gli studiosi di Scuola di Atene
ritengono l’opera rappresenti la facoltà dell’anima di conoscere il vero, e
cioè di approcciarsi alla scienza ed alla filosofia; il dipinto è in
contrapposizione a quello de La disputa del Sacramento, dove invece si
parla di fede e teologia”.
3.4 Un secondo compasso per il quadrato della perfezione
Convince l’ipotesi appena esaminata che mette in primo piano la
giovane donna (o l’efebo giovane in atteggiamento ieratico secondo Giovanni
Reale), ma non senza incertezze che ora vengono fugate dal mio intervento di
buon geometra, molto ben disposto a concezioni grafiche. Ed è un analogo
compasso a quello usato per svelare l’inganno della formella circolare della
sommità del grande arco. Quale se non quello di Euclide (o Archimede) chino a
terra, nell’atto di proporre, appunto, una dimostrazione con il compasso,
mentre i quattro giovani che lo circondano dimostrano interesse e
coinvolgimento? E qui sorge in me l’idea di ripetere, da questo centro del
compasso di Euclide, un secondo transito fra le due sfere, dell’Universo e
della Terra come quello dell’asse AC passante per il centro O, che sembrano
invitare a procedere in questo senso. Così facendo, l’illustr. 3 mostra questa
operazione grafica con una retta passante per F, tale da far delineare un
perfetto quadrato inscritto al cerchio relativo all’arco ABCD, e sarà limitato
dai punti EGHI, e naturalmente passante, tramite il lato EG, fra le due sfere
di Zoroastro e Tolomeo. È interessante osservare che Raffaello non si è
limitato a dare le istruzioni per procedere, come ho fatto, per tracciare la
direttrice e poi il quadrato suddetto, ma ha posto sul finire della direttrice
EFG un personaggio avvolto in un mantello verde con in mano una verga che
sembra, appunto, far segno per il relativo transito appena concepito.
Osservando ora il quadrato EFHI, riscontriamo che al vertice G corrisponde la
quarta doppia spirale quadrangolare dell’arco, e ad H ancora una quarta spirale
quadrangolare che è quella in alto, come a confermare il grande valore
attribuito a questo numero in relazione al quadrato appunto. Di qui il passo
geometrico per concepire il segno che porta alla visione di Ipazia posta giusto
sulla verticale HL passante per M. Per completare la spiegazione del raggio HL
passante per Ipazia riscontriamo che esso passa per la lavagnetta ai piedi di
Pitagora intento a scrivere. Su di essa viene mostrata la teoria corrente nella
scuola di Pitagora sui rapporti musicali, nonché la formulazione della
cosiddetta Deka su cui si basano i numeri dell’armonia dell’Universo.
Null’altro da rilevare eccetto lo scenario a sinistra in corrispondenza del
basamento accanto all’impostare del grande arco che fa come da sipario della
parata scenica della Scuola di Atene. Attorno a questa base, adatta per reggere
una probabile colonna, si vede Zenone di Cizio vicino a un fanciullo, che regge
il libro letto secondo alcuni da Epicuro incoronato di pampini di vite.
Sull’identificazione di quest’ultima figura, interpretata da Giovanni Reale
come un rito orfico, così si esprime lo storico della filosofia:
« Si tratta di un particolare molto spesso frainteso, e non poche
volte interpretato come raffigurante addirittura Epicuro per un errore
ermeneutico assai grave. Si crede che la corona di pampini richiami il piacere
del vino e in generale il piacere che Epicuro poneva alla base della vita.
Invece la corona del sacerdote orfico fa richiamo a Dioniso, il dio degli
Orfici per eccellenza […] Il vecchio con accanto un infante (raffigurazione
emblematica che chi sostiene altra interpretazione non riesce in alcun modo a
spiegare) rappresenta la credenza nella metempsicosi, ossia la reincarnazione
delle anime […] Il giovane sui trent’anni con gli occhi socchiusi concentrato,
sembrerebbe in particolare colpito dal messaggio di fondo dell’Orfismo: “da
uomo ritornerai dio”. La base della colonna su cui il sacerdote appoggia il
libro da cui legge, è come una metafora di una verità storica fondamentale,
ossia del fatto che gran parte della grande colonna del pensiero greco si basa
sull’idea di fondo dell’Orfismo […] Il rubicondo sacerdote è il ritratto
(trasfigurato) di Fedra Inghirami (…), un grande mentore di Raffaello che – con
grande competenza – lo ha avviato alla comprensione dei pensatori greci. Si
tratta dunque di una raffigurazione poetica stupenda di un rito orfico, che
solo Raffaello, che aveva alle spalle informatori di alta classe, poteva
raffigurare. »[9]
Ma di questo scenario, supposto confacente ad un rito orfico, che io
ho segnalato graficamente con l’asse verticale NQ passante per il punto P del
citato basamento, se ne parlerà nel prossimo capitolo.
3.6 Raffaello esoterico
La visione del nuovo quadro offerto dall’illustr. 4 già fa sorgere i
concetti esoterici annunciati dal titolo di questo capitolo, poiché sono
annotati sul grafico, ma verranno argomentati nel successivo capitolo. Prima
però occorre accertare se Raffaello avesse cognizioni di natura esoterica, cosa
non sufficientemente condivisa, tuttavia non si può affermare decisamente il
contrario. Per questa incertezza forse vale esaminare delle note in merito, che
traggo dal blog di Fabrizio Falconi[10]:
«L’ordine iniziatico dei Fedeli d’Amore anche se ufficialmente
scomparso, è secondo alcuni ancora vivo, in Occidente anche ai nostri giorni.
Quel che è certo è che esso ha origini antichissime. Uno dei suoi presunti
padri è il notaio e poeta Francesco da Barberino, nato nel 1264 nella omonima
località in Val d’Elsa, autore di un’opera capitale della primissima letteratura
italiana, I documenti d’amore, composti tra il 1309 e il 1313.
L’Ordine si ispirava ad una disciplina dell’Arcano e composto da sette
diversi gradi iniziatici: le donne cantate dagli adepti di questo ordine
segreto traevano origine da un unico modello di donna simbolica, una donna
trascendente, una Madonna intelligente nella quale si ritrovavano anche diversi
elementi della simbologia orientale. Questo Ordine così come altri simili,
intendeva il Cristianesimo come una via iniziatica (accessibile a pochi), in
grado di compiere trasmutazioni personali evolutive delle basi di conoscenze
individuali. Dell’Ordine si riteneva – e si ritiene anche oggi, non senza
polemiche – facessero parte molti dei più grandi intellettuali dell’epoca, come
Cecco d’Ascoli, poeta e scienziato, condannato al rogo, Guido Cavalcanti,
Raffaello Sanzio e perfino Dante Alighieri, oltre a Boccaccio e Petrarca.
Raffaello è stato, secondo alcuni, colui che meglio di altri, incarnò con la
sua arte l’ideale supremo di bellezza e armonia (estetica ed interiore) che nel
Rinascimento trovò sua piena compiutezza e che i Fedeli d’Amore inseguivano
come scopo realizzativo.
Una lunga tradizione legava la radice esoterica di questo Ordine
all’esoterismo esseno di matrice gnostica, che a sua volta si riteneva
proveniente dalla più solida tradizione egizia. […] ». Di qui ora nulla che
meravigli allora nel constatare un’impronta straordinariamente esoterica
dell’impostazione geometrica, con tutta probabilità concepita da Raffaello per
il soppalco strutturale su cui poi ha dipinto magistralmente l’affresco Scuola
di Atene, sia servita per dignificare in modo stupendo la sua Apazia
d’Alessandria, nella quale egli, di certo, intravedeva il modello di donna
simbolica, la Madonna dei Fedeli d’Amore. D’altronde non è Ipazia che, a
dispetto dell’opinione degli studiosi, è stata continuamente additata come
l’“estranea” giovane di bianco vestita, fra i numerosi eccellenti personaggi
dell’antica cultura. E dunque poteva mai esservi, se pur per “convenienza”,
Francesco Maria della Rovere (illustr. 5), rimandato ai posteri vestito da
armigero? Tuttavia tutto torna anche con lui per dar corpo all’Opera al Nero
suggerita dal vertice I del quadrato di Scuola di Atene, mentre Ipazia da corpo
all’Opera al Bianco dal vertice successivo E in modo meravigliosamente
coerente.
3.6.1 La ruota della rigenerazione
L’immagine offerta dall’illustr. 4, alla luce della concezione grafica
della gran ruota nel semianello dell’arco, svincolato dal centro dello scenario
di Scuola di Atene, e successivamente dello sviluppo grafico con le
significazioni esoteriche, ci porta alla tradizionale cognizione degli
alchimisti del viaggio interiore enunciato dall’acronimo V.I.T.R.I.O.L., che
sono le prime lettere di un celebre motto dei Rosacroce. Espresso in lingua
latina è detto: «Visita Interiora Terrae, Rectificando Invenies Occultum
Lapidem», che significa «Visita l’interno della terra, operando con rettitudine
troverai la pietra nascosta». L’espressione stava a indicare l’esigenza di
scendere nelle viscere della terra, cioè negli anfratti oscuri dell’anima, per
conseguire l’iniziazione, operando quella trasmutazione della materia nello
spirito che avrebbe permesso di conseguire l’immortalità e riportare alla luce
la sapienza, attraversando le diverse fasi dell’Opera alchemica, cioè Nigredo,
Albedo e Rubedo. Infatti il grafico del quadrato dell’illustr. 4, con i suoi
vertici I ed E, come già detto, effettivamente porta all’indicazione dell’opera
a Nero, cioè Nigredo, suggerito dalla porta oscura, e dell’opera al Bianco,
cioè l’Albedo, suggerito dalla necessità grafica. Il preteso viaggio interiore
inizia allorché la ruota dell’arco è come se girasse per segnare il primo
vertice G del quadrato, e così tracciando una linea orizzontale da questo
punto, vediamo che passa per la sommità dell’arco di fondo, facendo scorgere un
lontano cielo. E siamo, come io ho definita la retta appena tracciata,
all’orizzonte degli eventi al loro limite, al loro esaurirsi, poiché dal quel
momento inizia la supposta “visita interiore” argomentata dal VITRIOL. Di qui,
la ruota dell’arco gira e si porta al cui limite indicato dal vertice H e
il lato GH del quadrato può rappresentare il percorso per l’Oltre degli Eventi
ed è come se si potesse leggere un incerto futuro, come io ho ritenuto di
indicare. Il finestrone alto di fondo, diviso in tre parti, ne è l’espressione.
In realtà, in relazione al rito orfico[11] segnato tramite l’asse verticale NQ
passante per P, la base della colonna, il percorso iniziato da G fino a P, del
quadrato, dove esso trovava il punto focale, può benissimo indicare l’inizio della
fase dei cosiddetti Piccoli Misteri che consistevano in pratiche di
valenza essoterica avente funzione purificatoria. Di qui iniziava la
fase iniziatica con la conoscenza dei grandi Misteri e che nel punto Q segnato
in rosso, comportava superare il varco degli inferi. Tecnicamente, dal punto di
vista ermetico, corrisponde alla fase dell’Opera cosiddetta al Nero o Nigredo
in cui l’iniziato sperimenta la morte per poi rinascere. Il lato IE del solito
quadrato porta appunto all’esperienza del processo di rivitalizzazione che
segna la fase operativa del Bianco alchemico, ossia dell’Albedo. La successiva
fase riporta, per certi, l’iniziato sui propri passi percorrendo il tratto del
lato del quadrato EG, però con la differenza che deve transitare per il punto F
della piccola lavagnetta nera di partenza.
Che vuol dire ciò? Vuol far capire che l’iniziato deve poter passare
per la “cruna di un ago”, rammentando il detto evangelico, riferito alla frase
di Gesù: «E’ più facile che un cammello passi per la cruna di un ago, che
un ricco entri nel regno dei cieli» (Mt 19,24). E’ una parola essenziale per
comprendere il rapporto di Gesù con la “ricchezza” intesa in tutti i sensi.
L’immagine è forte, paradossale com’è nello stile semitico. Tra la ricchezza e
il regno di Dio c’è incompatibilità ed è inutile voler annacquare un
insegnamento che più volte ritroviamo nella predicazione di Gesù, quando dirà,
ad esempio, che non si può servire Dio e mammona (cioè la “ricchezza”). O
quando sembra chiedere al giovane ricco rinunce impossibili all’uomo ma non a
Dio.
Ecco la nuova figura umana che si giova dell’iniziazione, in qualsiasi
altro modo essa sia ottenuta, se fatta in modo esemplare, ma non basta perché
egli dovrà ripercorrere il tragitto del quadrato diverse altre volte (in
alchimia è definito il volo delle “aquile”) per giungere alla condizione di
Rubedo alchemico che è nota come Opera al Rosso, e da qui svincolarsi dalla
vita terrena per essersi liberato dai relativi gravami, per aver vinto la
morte. Le 15 formelle con le spirali quadrangolari avvolgenti questo vogliono
confermare ripetutamente. Ma l’esperienza iniziatica legata al mistero di Orfeo
ed Euridice sembra lasciare una grande amarezza conoscendo l’esito della mitica
impresa di Orfeo che all’ultimo istante, per la sua limitazione spirituale, non
seppe resistere dal “voltarsi” allo svanire delle tenebre infere, per rivedere
la sua Euridice che lo seguiva, e fu la fine del suo sogno. Ecco la spiegazione
del passaggio per la “cruna di un ago” in sede del centro del compasso di
Euclide o Archimede, simile a un forellino che non può esistere per tale,
perché si tratta di una teorica “pressione”, quella del noto “compasso” della
matematica. Questa è una riflessione che ci porta ai tempi moderni, anzi li
supera con la fantascienza, poiché il grande arco, fuori dai giochi della vita
terrena relativa allo scenario di Scuola di Atene, si accosta al famoso
Stargate, del noto film Stargate, la porta delle stelle del 1994 e
della serie dei successivi. Di qui, ecco il superamento del dramma di Orfeo e
Euridice, la cui risoluzione è stata vanamente cercata nel passato ricorrendo
ai misteri orfici – mettiamo –, cosa che porta ad una interpretazione
speculativamente convincente dello stesso mito, di grande impatto e
suggestione, « per una filosofia della sessualità. La disobbedienza di Orfeo,
la trasgressione del patto stabilito con gli dei degli inferi per far tornare
in vita Euridice, diventa la grande metafora dell’eros: “…chiunque, nell’amore,
si proponga di colmare la distanza che lo separa dall’amato, si destina al
naufragio”. Del resto, anche nella relazione erotica in senso stretto, quella
sessuale, finisce con il riprodursi la stessa condizione di separazione. E’
opportuno infatti rammentare che nella lingua latina, sexus (sesso) sta a
significare proprio il ‘separato’, l’idea stessa della separazione: separati
sono e rimangono coloro che, non accettando il destino, tentano di fondersi
l’uno con l’altro. »[12].
Ma restando, ancora quanto basta, legati al fatti iniziatico – e qui
la soluzione alchemica – < già nel capovolgimento del titolo “Euridice
e Orfeo” c’è un’indicazione di lettura. Anche se la presenza di Orfeo prevale,
è Euridice la vera protagonista, colei che condurrà l’amato all’elaborazione
del lutto per la sua morte. È lei a impedire il lieto fine chiedendo ad Orfeo:
« … Se mi ami devi guardarmi. Non puoi far altro che voltarti e guardarmi». Nel
negarsi all’amore, e al mondo, opera così un’esclusione definitiva. Il viaggio
di Orfeo negli inferi per riportare in vita l’amata si trasforma in un percorso
al rovescio in cui è lei gioiosa a illuminarlo nel cammino verso l’accettazione
della sua assenza, della realtà. « La morte è questione di chi resta, non di
chi parte »[13]. Di qui il « grande interrogativo se sia
possibile sconfiggere anche la morte. È ciò che crede Orfeo, lottatore nel
vuoto, essere fragile e pauroso, convinto di poter vincere anche Ade. Ma
Euridice non può più tornare. »[14].
L’“inverso” riporta alla comprensione del mito di Narciso che si
innamorò della propria immagine, cioè rese razionale ciò che non lo poteva
essere con sé stesso, lo specchio. Gli specchi, secondo varie tradizioni,
sarebbero in grado di imprigionare l’interiorità umana, l’anima. Anticamente
era infatti in uso, nella stanza in cui veniva composto un defunto, coprire gli
specchi, per permettere un trapasso sereno nell’aldilà. “Come” si realizzino le
immagini sullo specchio, quale sia il rapporto fra immagini reali ed immagini
riflesse, fra raggi incidenti e raggi riflessi, è stato in tempi antichi
oggetto di stupore e di meditazione: da qui le leggende intorno alla sua
capacità magica di attrazione. Ecco i due Leoni ermetici in questione, oggetto
del mistero alchemico del loro rapporto per dar vita al Rebis filosofale, alla
vagheggiata concezione della Pietra filosofale. Ed è così attrattivo il
miraggio dello specchio che quando vi si è così vicino nulla può determinare il
distacco, tanto è potente il magnete che attrae. Se un pensiero satura lo
spazio, il suo potere è conforme al Cosmo. Tutte le energie razionali si
rispecchiano nel pensiero. In verità, pensiero e coscienza generano tutti i
principi e il potere creativo universali. Chi vuole realizzare il Magnete
creativo deve riconoscere il valore dell’impegno strenuo. Chi ha accettato il
Calice di Amrita (la bevanda degli dei che rende immortali: dal sanscrito
Amrita) sa cos’è il pensiero strenuamente impegnato. La tensione si fa conforme
a quella del Magnete solo se l’assimilazione è possente: in tal caso i centri
sono in risonanza con esso. Il Portatore del Fuoco tende al massimo i suoi
desideri, e con ciò ogni suo pensiero è fervido e consono al Magnete. Allora il
suo pensiero è in grado di creare universalmente e i suoi desideri assecondano
con potenza l’evoluzione. Il pensiero è la più sottile delle energie. Si può in
verità affermare che esso dura più di qualunque altra cosa. Il pensiero è
immortale, e continua a vivere creando combinazioni nuove. Pertanto, se
l’energia psichica cresce, nulla può arrestarlo[15].
Dunque il capovolgimento “Euridice e Orfeo” porta alla realizzazione
alchemica del Rebis filosofale, cosa già detta. Ed è anche l’unica
condizione per oltrepassare la lavagnetta del compasso del matematico Euclide o
dell’altro matematico Archimede. In verità non ci si accorge che il tempo fa la
sua parte e quando si arriva al punto F della citata lavagnetta, son passati
secoli e persino millenni per una risolutiva prospettiva della lettura di
Scuola di Atene proposta da Raffaello Sanzio che, con la sua misteriosa morte a
seguito di probabili “eccessi erotici”[16], forse conferma la sua propensione
iniziatica della “via Orfica” in relazione all’ordine iniziatico dei Fedeli
d’Amore. Di qui ecco che si prospetta il percorso GH del quadrato, una volta
valicato il punto P e raggiunto tramite il percorso PG. E come ho indicato
nell’illustr. 5, sono gli eventi futuri a dare la risposta al novello amoroso
che si dispone a concepire in lui la nuova vita rigenerata appunto da
quell’amore che tanto lega, ma “provvisoriamente”, Orfeo a Euridice e…
Raffaello a Ipazia. Tutti e tre e come se attraversassero insieme lo Stargate,
la porta delle stelle, appena accennata in precedenza. La Scuola di Atene non mente
per aver indotto Raffaello a porre in alto, del suo affresco in questione, il
finestrone di fondo attraversato dalla retta GH diviso in tre parti che sta,
probabilmente, per passato, presente e futuro. E sarà così la nuova scienza,
tanto cara alla matematica Ipazia a permettere già in vita l’accordo amoroso
perseguito da Orfeo per Euridice e Raffaello per l’impossibile Ipazia del
passato intravisto in più di una giovane delle quali si sentiva perdutamente
attratto. Anche Raffaello, come Orfeo, questi per il canto, ed il
primo per l’arte, però dovevano svincolarsi da queste facoltà quasi
divine, per riunirsi alle rispettive amate, entrambe estremamente lontane da
raggiungere, come essi anelavano perdutamente: tale era il prezzo del
riscatto. Li divideva il passato e in alternativa, solo nel futuro si poteva
unire ogni cosa se suggellata dall’amore per poi avere tutto.
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