lunedì 30 novembre 2015

Orazio Ferrara, "Viva ’o Rre. Dalla conquista del Sud alla guerra per bande" (Capone Editore)

di Rocco Biondi

Libro piacevole, che si legge rapidamente quasi tutto d’un fiato.
Il Re di cui si parla è Francesco II, ultimo re del Regno delle Due Sicilie.
 E’ un libro che si schiera, a detta dello stesso autore, dalla parte filo-borbonica, pur rispettando scrupolosamente la verità storica, anche per la naturale inclinazione dell’autore a schierarsi sempre dalla parte dei vinti e dei perdenti. I Borbonici vengono considerati dalla storiografia ufficiale “negazione del diritto delle genti”, vigliacchi che scappano davanti a pochi eroici garibaldini, autori di tutti i mali che affliggono il Meridione. La verità è altra.
 Il libro, che nel suo nucleo centrale raccoglie i capitoli di un libro edito nel 1997, conserva l’impianto originario di agile pamphlet. I piemontesi, e inizialmente per loro Garibaldi, sono stati degli invasori che hanno annesso i territori appartenenti al Regno delle Due Sicilie. Vengono ora aggiunti, in questa edizione, due articoli di Pietro Chevalier, pubblicati da “La Civiltà Cattolica” nel giugno 1902, in cui si svelano “gli squallidi e meschini retroscena di come fu fatta l’Unità d’Italia e dei personaggi che si piccarono di farla, personaggi spesso da operetta e qualche volta anche un po’ cialtroni”. Chevalier era un diplomatico e patriota italiano, uomo di fiducia di Cavour che lo mandò a Napoli come diplomatico presso la corte dei Borbone negli anni decisivi 1859-1860.
 Orazio Ferrara, che negli anni Settanta appartiene al gruppo di giovani della destra estrema ed ha come punti di riferimento gli studi di Carlo Alianello e Silvio Vitale, maturò una forte identità meridionale. E queste radici squisitamente intellettuali, politiche o ideologiche, erano corroborate dall’avere la madre siciliana e il padre napoletano. Nato a Pantelleria, è vissuto per molti anni a Sarno in provincia di Salerno in Campania.
 Il libro si apre con il capitolo intitolato “Il Sud liberato”, dove le parole libertà e giustizia sono scritte sulla punta delle baionette dei soldati piemontesi, che pretendono che tutta l’Italia diventi Piemonte. Il Sud viene “liberato dalla tirannia dei Borbone” con il saccheggio e la rapina. Il capitale monetario del regno napoletano rapinato ammontava a più del doppio degli altri Stati italiani messi insieme. E si procede anche allo smantellamento sistematico dei cantieri navali napoletani, delle fiorenti industrie, dell’artigianato, del commercio, dell’agricoltura. Il Sud viene ridotto alla fame. Ma non basta, viene disintegrato completamente con la leva obbligatoria, il carico fiscale pesante, la burocrazia farraginosa e oppressiva, la mortificazione delle proprie tradizioni.
 E il Sud si ribella con il brigantaggio. Il Ferrara però usa il termine brigante solo nel senso negativo voluto dai piemontesi invasori, noi invece lo usiamo solo ed esclusivamente nell’accezione positiva di patrioti che difendono la loro terra e la loro patria. Dopo la sconfitta del brigantaggio, ai meridionali non resta che l’emigrazione, che dura fino ai giorni nostri.
 Nel 1860 la battaglia di Calatafimi, in Sicilia, non doveva assolutamente essere vinta dai soldati borbonici contro quelli di Garibaldi, secondo quanto era già stato stabilito da occulti poteri sovranazionali (leggi massoneria inglese e italiana). A questo fine molti comandanti e generali napoletani, a cominciare da Francesco Landi, erano stati comprati. I semplici soldati napoletani invece non riuscirono a nascondere la loro rabbiosa amarezza di chi si è visto tradito. Molti di loro crearono e accrebbero le bande brigantesche che per un decennio diedero filo da torcere all’esercito italiano, mandato per oltre la metà a reprimerle.
 I capi delle bande infatti (Pizzichicchio, Cicquagna, Pirichillo, Coppa, Pilone, Romano, Chiavone, Crocco, ecc.) provengono quasi tutti dai quadri del disciolto esercito borbonico. Nelle bande brigantesche vi è una rigida disciplina pari a quella militare. Le razzie, i saccheggi, le uccisioni e i sequestri rispondono alle tragiche e ineludibili necessità della guerriglia e dell’autofinanziamento. Il segreto del successo dei briganti per così lungo tempo sta nella perfetta conoscenza del terreno, nella straordinaria mobilità e nella copertura avuta dalle popolazioni locali; ma anche nella fede: accanto alla bianca bandiera gigliata sventolano anche i colorati stendardi dei santi protettori e di bellissime Madonne.
 I piemontesi ebbero ragione dei briganti usando l’inganno e le fucilazioni sommarie, senza processo e difesa. La vulgata nazionale insegnata per decenni nelle scuole fa acqua da tutte le parti. Una folta schiera di studiosi sta rivisitando la nostra storia patria, senza temere gli anatemi di revisionismo, lanciati dalle mummificate vestali di una vulgata storica nazionale, “ormai buona solo per i gonzi”.
 Dal Ferrara una sopravvalutazione viene fatta dandogli una valenza troppo positiva, secondo noi, della figura del legittimista catalano Rafael Tristany, che tra l’altro fece uccidere il capobanda sorano Luigi Alonzi, detto Chiavone.
 Merito del libro del Ferrara è l’aver messo in luce fatti briganteschi poco noti. A cominciare dall’operato del brigante sarnese Orazio Cioffi, che «si mostrava generoso con i deboli, gentile con le donne, pietoso con i poveri; e in grazia di questo contava numerose simpatie in campagna e in città».
 Altri fatti che escono dal cono d’ombra, nella quale sono stati relegati dalla storia ufficiale, sono quelli legati alla banda Ribera. Operarono, con altri uomini, nella siciliana isola di Pantelleria, che allora era controllata al centro dai reparti sabaudi, e per il resto era nelle mani dei filo-borbonici. Per reprimere questa situazione fu mandato nell’isola un colonnello a capo di un reggimento di fanteria. Per il tradimento di una spia locale i ribelli furono intercettati in una vasta e profonda caverna. Dei quattro fratelli Ribera tre furono condannati dai piemontesi all’impiccagione: Giuseppe, Agostino e Pietro; mentre Giovanni riuscirà ad espatriare nelle Americhe. Ancora oggi quella Grotta dei Briganti, a ricordo del sogno infranto dei legittimisti panteschi, viene visitata da tanti turisti.
 Altro capobanda del quale si parla diffusamente nel libro è Antonio Cozzolino, detto Pilone. Nacque a Torre Annunziata (Napoli), ma sin da piccolo tornò con la famiglia a Boscotrecase da dove provenivano. Nell’esercito napoletano aveva raggiunto il grado di sergente maggiore. Con la sua banda, che riesce a contare una quarantina di unità, riporta diverse vittorie contro i piemontesi, anche spettacolari, ma per sopravvivere esegue anche estorsioni e sequestri. Non è sanguinario, né assassino a sangue freddo. Inafferrabile, il 14 ottobre 1870 viene colpito a morte con varie pugnalate alle spalle perché tradito. Ma egli, conclude il suo libro il Ferrara, «non è affatto morto, continua a cavalcare all’infinito per le strade della nostra terra, cui è sentinella il Vesuvio, e nel cuore di chi non ha dimenticato. Sempre.»



sabato 28 novembre 2015

La BlogsferaThule: siti, blog, indirizzi, video

Riportiamo di seguito tutti gli indirizzi disponibili con cui collegarsi:

Il sito personale di Tommaso Romano, con notizie e attività.
Il sito delle Edizioni Thule di Palermo, fondate nel 1971, con il prestigioso catalogo, notizie e novità.
Blog che Tommaso Romano aggiorna periodicamente con le sue idee controcorrente e l’informazione sulle sue attività
Blog di recensioni e notizie sui libri delle Edizioni Thule e della Fondazione Thule Cultura
Blog generalista di recensioni librarie e novità segnalate
Le Stanze della Fondazione Thule Cultura a Palermo, fra Liberty, Decò e contemporaneo, un viaggio fra libri, oggetti, mobili e bellezza
Blog che riunisce integralmente tutti i numeri della prestigiosa rivista fondata nel 1986 da Giulio Palumbo, Pietro Mirabile e Tommaso Romano
Blog di notizie e commenti di attualità, dottrina e polemistica
Blog degli Amici del Mosaicosmo e di Tommaso Romano con libri e documenti inseriti di difficile reperibilità 
Blog di studi tradizionali, genealogici, araldica, ordini cavallereschi, tradizioni gentilizie
Blog dei Clubs Empire fondati a Pescara nel 1976

Fondazione Thule Cultura
via Ammiraglio Gravina 95, 90139 Palermo 




martedì 24 novembre 2015

Come le radici del mandorlo Presentazione del volume di Tommaso Romano su Elio Corrao

di Ciro Lomonte

Comincio subito con l’ammettere la fastidiosa sensazione di imbarazzo che provo in questo momento. Non so perché il prof. Romano abbia insistito tanto affinché fossi proprio io, oggi, a presentare il suo libro sul prof. Elio Corrao[1]. Il ricco curriculum di entrambe le personalità palermitane meriterebbe ben altra presentazione.
Forse il motivo è che il prof. Romano stima la rivista on line Il Covile, di cui sono redattore, nella quale l’arte contemporanea è trattata ampiamente. Oppure che conosce il mio impegno per una rinascita delle arti, nel mio lavoro professionale di architetto e nell’attività didattica presso la Monreale School of Arts & Crafts – che abbiamo costituito di recente – e il Master in Architettura, Arti Sacre e Liturgia di Roma.
Non sono assolutamente adeguato al compito che mi è stato affidato. Molto meglio guardare direttamente alle opere del Maestro Corrao e leggere il libro. C’è però nel testo di Tommaso Romano un riferimento, quello sulle cosiddette arti minori, che mi può aiutare a non fare scena muta.
La creazione di ceramiche, nella quale Corrao si è distinto, è arte maggiore o arte minore? Dieci giorni fa osservavo con ammirazione il giovane scultore Mauro Gelardi montare su un ambone di marmo la sua ultima opera, una sontuosa aquila di bronzo. L’artista vero è artigiano, domina la materia. E allo stesso tempo ne è soggiogato, la ama appassionatamente, obbedisce alle sue regole interne, non le impone elucubrazioni cerebrali (anche perché la materia si ribella, non si può piegare alle teorie estranee alla natura delle cose). In me ha prodotto molta gioia osservare mese per mese come nasceva la scultura. Ma contemplare uno scultore impegnato a completare la collocazione di una sua opera con in mano trapano, pinze, silicone, è stata un’esperienza liberatoria! Un riconciliarsi con la realtà più genuina dell’arte. Che non è più definibile minore. Casomai possiamo chiamarla arte applicata. Ed è il magistrale esercizio di una virtù dell’intelletto pratico al servizio dei clienti.
Di tutto questo la CIA ha cercato di privarci. Sì, proprio la CIA, come dimostra il libro della Saunders[2]! All’indomani di due decenni di fascismo e di una guerra mondiale, gran parte degli intellettuali europei aveva abbracciato posizioni anticapitaliste. Per contrastare il richiamo del comunismo e la crescita del peso elettorale dei partiti di sinistra, la CIA non risparmiò né uomini né mezzi finanziari, dando il via a un’imponente campagna occulta che fece di alcuni fra i più illustri esponenti della libertà intellettuale dell’Occidente meri strumenti del governo americano. Grazie a documenti recentemente desecretati e interviste esclusive, l’autrice fornisce la prova di una vera e propria “battaglia per la conquista delle menti” ingaggiata dalla CIA al fine di orientare la vita culturale dell’Occidente attraverso iniziative ambiziosissime: congressi, conferenze internazionali, festival musicali. Ne furono un esempio le numerose mostre dedicate all’espressionismo astratto americano: per un decennio i vari Pollock, Gorky, Motherwell diventarono le vedettes delle gallerie europee. E generosi furono i finanziamenti che, tramite le sue “istituzioni”, la Cia elargì al settore dell’alta cultura, in cui si collocavano le riviste che ospitavano il dibattito politico e culturale (fra esse “Tempo Presente”, diretta da Ignazio Silone e Nicola Chiaromonte). L’edizione italiana del 2007 (quella statunitense è del 2000) è arricchita da un’appendice di documenti relativi ai legami specifici tra l’agenzia governativa statunitense e gli intellettuali nostrani.
La Cia finanziò abbondantemente l’espressionismo astratto. Obiettivo dell’intelligence Usa era quello di sedurre le menti degli elettori di sinistra negli anni della Guerra Fredda. Fu proprio la Cia a organizzare le prime grandi mostre del “new american painting”, che rivelò le opere dell’espressionismo astratto in tutte le principali città europee: “Masterpieces of the Twentieth Century” (1952) e “Modern art in the United States” (1955).
In che misura il veleno con cui sono state irrigate le nostre radici ha causato la volgarità, la barbarie, il dilagare del brutto in tutte le manifestazioni della nostra vita quotidiana? Guardate la Palermo odierna e confrontatela con quella che era fino alla prima metà dell’Ottocento. È vero, anche la Palermo del floreale ha edifici stupendi e una certa qualità diffusa è stata presente sino alla metà del Novecento, ma il Piano Giarruso ne stava sfigurando irrimediabilmente il volto. Il Piano Regolatore del 1962 avrebbe dato il colpo di grazia. Com’è possibile che in una terra come quella italiana, che ha prodotto capolavori per millenni, il gusto si sia corrotto a tal punto?
Diceva Gregorio Magno, in qualche modo legato alla Sicilia: Corruptio optimi pessima. Chi sta molto in alto quando cade fa un tonfo più clamoroso. Consideriamo la ritrosia che c’è nelle Accademie di Belle Arti italiane attuali ad insegnare il figurativo. Persino i docenti di anatomia si inventano esercitazioni sulle idee più astruse e sulla trasgressione. Sono capriole intellettualistiche fini a sé stesse. Eppure le ricerche più avanzate dell’arte contemporanea sembrano andare proprio nella direzione della rappresentazione del corpo umano. A Barcellona, per esempio, è stato aperto il MEAM, Museu Europeu d’Art Modern, con una esposizione permanente di arte contemporanea figurativa. Uno dei segni dell’inversione di tendenza in corso.
Come scriveva Albano Rossi: «Non si può certo dire che Elio Corrao si sia fatto stregare da Pollock, né da Rauschenberg, da Vasarely, o da Burri. La ceramica non ha bisogno di fanatici, di scimmiottatori, di farisei, ma di artefici geniali ed accorti»[3].
Potremmo dire che l’opera del prof. Corrao ci conduce per mano fino a quel bisnonno pittore, Onofrio Tomaselli (1866 – 1956), autore della straordinaria tela del 1905 su I Carusi, i ragazzi delle miniere di zolfo. E ad un altro parente, Armando Tomaselli, scultore e architetto, di cui Tommaso Romano lamenta l’ingiusto confinamento nell’oblio. Corrao è il testimone di una forma di continuità, che ci riporta alle radici della creatività siciliana.
Non si tratta di tirar fuori gli abusati concetti di insularità d’animo, sicilitudine e altro ancora. Ci tocca invece il compito gratificante di riscoprire la nostra identità artistica, la nostra specificità, unica nel suo genere.
La Sicilia oggi è come un bellissimo albero, spezzato dalla furia degli elementi, da tempeste violente e inconsuete rispetto alla sua storia plurimillenaria. Le manca la chioma rigogliosa che la coronava in altre epoche. Ci diranno che i siciliani in realtà non esistono, che quelle fronde e quel fogliame erano di altri popoli, quelli che ci hanno conquistato e dominato. Ma non è vero.
La civiltà di Palermo, la civiltà degli innumerevoli bellissimi centri urbani della Sicilia, è come il mandorlo. Questa specie arborea (il prunus dulcis) è antichissima. Alcuni dicono che sia autoctona, altri importata dai fenici. Produce un seme prelibato, migliore di quello californiano, ottimo per la pasta reale, per i confetti, per il latte di mandorla e per altro. Vi si possono innestare ciliegio, pesco, albicocco e susino.
Le civiltà giunte da fuori sono proprio questo, almeno nel campo artistico: sono innesti che hanno prodotto frutti unici e saporiti perché il portainnesto era il nostro, quello della mente riflessiva, dell’occhio sognatore, della mano meticolosa e irrequieta dei nostri artigiani. È vero che è giunto più di un gene artistico dall’esterno (greci, romani, bizantini, persiani, normanni, catalani, aragonesi), ma ciascuno di essi ha subito modifiche sostanziali, perché il genotipo – nell’interazione con il nuovo ambiente dell’Isola – ha modificato il suo fenotipo. Sono i geni che forniscono le caratteristiche essenziali, la nostra terra e il nostro sole fanno la differenza.
La pianta è viva, anche se hanno fatto di tutto per sradicarla. Il mandorlo è vivo. Forse è giunto il momento di smetterla con l’introduzione di nuove varietà, come succede nella frutticoltura[4]. Forse sta per scoccare l’ora in cui comincerà a produrre arte siciliana sic et simpliciter, senza altre aggettivazioni. Ringraziamo Elio Corrao per averci spinto in questa direzione con il suo mezzo secolo di creazioni.



[1] Tommaso Romano, Elio Corrao, Fondazione Thule Cultura, Palermo 2015.
[2] Frances Stonor Saunders, Gli intellettuali e la CIA. La strategia della guerra fredda culturale, Fazi, Roma 2007.
[3] Albano Rossi, Le ceramiche di Elio Corrao, citato in Tommaso Romano, Elio Corrao, Fondazione Thule Cultura, Palermo 2015, p. 9.
[4] Debbo queste precisazioni all’amico agronomo Placido Volo, PhD.

lunedì 23 novembre 2015

Un testo di Calogero Messina: Il mio dialogo con il Can. De Gregorio - Elogio di una copertina

di Vittorio Riera

La copertina ha in genere un ruolo di protezione del libro o di identificativo di una collana cui il libro viene fatto appartenere. Le copertine grigie della storica BUR (Biblioteca Universale Rizzoli), per fare qualche esempio, sono inconfondibili, si riuscirebbe a identificarle da appena un frammento, e così quelle su cartoncino giallo della BMM (Biblioteca Moderna Mondadori) o ancora quelle cobalto della Sellerio di Palermo. Vi sono infine copertine che, e sono la gran parte, oltre al titolo del libro, offrono una illustrazione lontana dal contenuto del libro stesso, ovvero, come nei libri di avventure per ragazzi, raffiguranti la scena madre del racconto (pensiamo alle copertine salgariane delle ricercatissime edizioni Viglongo di Torino). Potremmo continuare su questa falsariga, ma a noi interessano in questo momento le copertine che non esitiamo a definire ‘intelligenti’, quelle cioè che racchiudono in una mirabile sintesi il messaggio veicolato attraverso il libro. Ed è proprio il caso della copertina del testo che ci apprestiamo ad analizzare: Il mio dialogo con il Can. De Gregorio di Calogero Messina.
Appare evidente che in copertine del genere si intravede la mano dell’autore. Ecco allora il Messina, che è fine storico, fine poeta, filologo e fine scrittore, utilizzare la propria intelligenza per ‘costruire’ una copertina aderente al messaggio che ha voluto trasmetterci con il suo libro, messaggio che, lo ripetiamo, è già nel titolo stesso: “Il mio dialogo con il Can. De Gregorio”. Dialogo, ecco la chiave con cui il Messina ci invita a leggere il suo incontro con un personaggio, un sacerdote, perché, sembra anche dirci il Messina, è soltanto attraverso il dialogo, scevro da ogni preconcetto e presunzione, che si possono aprire e scoprire orizzonti insperati e che si può superare la tragica, e per certi aspetti, selvaggia realtà di oggi. Ecco anche perché taluni incontri è, direi, quasi provvidenziale che avvengano. E così era naturale che il Messina incontrasse un altro dei suoi fari e maestri, Virgilio Titone, o che incrociasse lungo il suo percorso di ricercatore lo storico di fama internazionale Helmut Koenisberger e che i quattro destini – quello del Canonico De Gregorio, di Koenisberger, di Titone e Messina – si intercettassero e si alimentassero a vicenda con un dialogo continuo e un conversare creativo. 
Ora, cosa c’è al fondo, al centro del ‘dialogo’ di Messina con il Canonico De Gregorio? Quale l’oggetto di questo dialogo? Chi ne è il destinatario? E qui tanto ruolo e spazio ha un giornale molto diffuso nell’Agrigentino: “L’Amico del popolo” che continua le sue pubblicazioni a sessant’anni dalla sua fondazione. Ecco, il popolo visto come protagonista della storia, che si identifica anzi con la storia. E qui ci si pone un’ulteriore questione: ma cos’è la storia per Messina? La risposta è disarmante nella sua semplicità: la storia deve raccontare della vita del popolo nei suoi molteplici aspetti: antropologici, folcloristici, poetici, letterari e via di questo passo; sono aspetti, questi, che poi ritroviamo puntualmente e coerentemente nella ormai vasta e diversificata produzione dello ‘storico’ Messina, perché tale, docente di storia moderna è stato ufficialmente il nostro amico, ma di una storia umanizzata, umanizzante e non esaltante i grandi personaggi storici o ridotta a pura elaborazione ed elencazione di sterili statistiche. Come riassumere, sembra essersi chiesto il nostro autore su una copertina questo messaggio? Come fare della copertina lo specchio della realtà di cui si discute? In poche parole, come fare ‘parlare’ la copertina?
Messina avrebbe potuto rivolgersi a un disegnatore, ma difficilmente avrebbe potuto trovarne uno capace di soddisfare le sue esigenze. Fa allora tutto da sé e struttura una copertina a guisa della prima pagina di un quotidiano: di spalla, la riproduzione della testata del settimanale citato sopra – “L’Amico del popolo” – dove sia lui e più ancora il Canonico hanno avuto modo di collaborare (il Canonico De Gregorio, si ricorda, è stato per più di vent’anni direttore di quel settimanale), a sinistra, a mo’ di editoriale, la riproposizione di un articolo dal significativo titolo “Pellegrini instancabili”, a destra, sempre di spalla, un altro articolo, a firma Messina, – “Aborto e cultura” – in difesa della vita con la foto di un bimbo appena nato. Al centro in alto, due foto di tre dei protagonisti del dialogo (Helmut Koenisberger, il Canonico De Gregorio, e Calogero Messina), a sinistra in basso, infine, il titolo del libro, in verde. Sull’ultima di copertina, campeggia la bella pacata figura del Canonico colto durante un discorso con dei fogli in mano mentre una delle più significative pagine dell’intero libro, non a caso in caratteri leggibili, gli fa da cornice. Una copertina, come si vede, inusitata, unica, per quel che ci consta, irripetibile, per niente anonima, una copertina, come si è detto, ‘parlante’, che fa un tutt’uno con il libro di cui è a protezione. Peccato che non sia stato possibile fare un riferimento in questa copertina a Virgilio Titone, che è stato uno dei fari, se non il faro, che ha illuminato e continua a illuminare il cammino fin qui percorso dal Messina.

venerdì 20 novembre 2015

Presentazione allo Studio 71 di un Volume sul Pittore Elio Corrao

Sabato 21 Novembre 2015 alle ore 17:30, Galleria Studio 71, 
via Vincenzo Fuxa 9, Palermo
Presentazione della Monografia d’Arte 
con un testo di Tommaso Romano sull’Opera del Maestro
Elio Corrao
Con testimonianze di Aldo Gerbino e Delia Parrinello,
 edito dalla Fondazione Thule Cultura.
Presenta il volume Ciro Lomonte, coordina Vinny Scorsone
A tutti gli intervenuti sarà omaggiata una copia del volume




martedì 17 novembre 2015

Spiritualità & Letteratura n° 86

E' online il numero 86 di Spiritualità & Letteratura, Collezione aperiodica di Testi diretta da Tommaso Romano. in questo numero Articoli, Poesie, Recenzioni ed Interviste di: Vincenzo Aiello - Girolamo Alagna Cusa - Maria Patrizia Allotta Giuseppe Bagnasco - Anna Maria Bonfiglio - Cinzia Demi - Arturo Donati - Rita Elia - Adalpina Fabra Bignardelli - Carmelo Fucarino - Luigi Impresario - Giuseppe La Russa - Serena Lao - Mario Luzi - Vito Mauro - Silvano Panunzio - Guglielmo Peralta - Teresinka Pereira - Maria Elena Mignosi Picone - Ivan Pozzoni - Nicola Romano - Tommaso Romano - Biagio Scrimizzi - Lucio Zinna.
Recensioni ai libri di: Giancarlo Licata, Vincenzo Arnone, Vincenzo Aiello, Adalpina Fabra Bignardelli, Giusi Lombardo.

giovedì 12 novembre 2015

Cinzia Demi, "Maria e Gabriele – L’accoglienza delle madri" (ed. Puntoacapo)

di Dante Maffia

Cinzia Demi è una sorpresa continua, una che dall’inquietudine umana e spirituale trae energia per prendere a volo quelle intuizioni che non sono la verità, “ma uno scalino della verità”, come fa dire Giorgio Saviane a Padre Sergio neLe due folle, suo romanzo d’esordio.
Non è casuale che mi sia venuto in mente Saviane, come non è casuale che mi venga in mente Renan. Non per affinità di temi trattati, ma per l’atteggiamento al limite dell’eresia, quella che con acutezza critica ed eleganza Massimo Morassochiama “l’azzardo di un’effrazione al lascito tradizionale”.
Comunque non sta nella esattezza o meno del rispetto delle fonti la freschezza della poesia di Cinzia, ma piuttosto nell’aver saputo rubare una scintilla divina riportandola al proprio seno, edificandola in sé e soltanto dopo proiettandola verso l’universo e verso l’Infinito.
In questi versi c’è un totale abbandono alla Luce che arriva da lontani siti e non s’arresta perché il lievito della leggiadria non può né deve restare statico e così le quartine scandiscono un vero e proprio percorso che dà l’idea, a me, di stazioni dalle quali ripartire di continuo per approdare alla Grazia.
Gabriele deve annunciare a Maria quel che accadrà, ma il turbamento diventa padrone e tuttavia nonsi oltrepassano i limiti della volontà divina, perché in tutti e due vige il principio dell’obbedienza e della castità.
Credo che l’idea di Cinzia Demi sia stata geniale: un incipit di romanzo meraviglioso tra Gabriele e Maria, che nella sezione Quasi uomo  quasi umano ha i momenti alti di poesia  del libro, perché il dettato si fa preghiera.
Cinzia è riuscita a impossessarsi del tema trattato fino a immolarvisi ed è per questoche a un certo punto può dire liberamente: “quasi uomo  quasi umano / come un corpo che ha raccolto / il giorno e la notte  / nelle sue pieghe d’animale // ti sarebbe piaciuto Maria / lo avresti raccolto e nutrito / cresciuto insieme a tuo figlio / radici gli avresti dato di casa // mite e deciso / ti avrebbe somigliato / consolato forse  nei giorni / delle foglie cadute”.
Credo che esiti così convincenti e così alti nella poesia religiosa siano stati raggiunti prima di Cinzia soltanto da altre due poetesse, Margherita Guidacci ed Elena Bono e da poeti come Idilio dell’Era e Carmelo Mezzasalma.
La voce di Cinzia resta voce al femminile, come deve sempre essere per non perdere la propria identità, ma si tratta di un femminile che sa entrare fermamente anche nell’animo di Gabriele per metterlo davanti alle proprie responsabilità.
In calce al libro noto che Cinzia, oltre a una Nota che spiega come “Dal grande mistero dell’Annuncio e dall’alto valore simbolico dell’accoglienza, racchiuso nel sacro evento, nascono le figure umanizzate di Maria e di Gabriele che non potranno non piacersi e che rinunceranno ai loro sentimenti per un fine più alto” riporta anche una Bibliografia Essenziale con nomi di grande prestigio. L’intento è sicuramente quello di avvertire il lettore che, nonostante l’effrazione lei si è documentata e ha cercato di entrare nell’argomento non solo con le sue percezioni ma anche con l’apporto di confronti di vario genere.
L’onestà intellettuale di Cinzia Demi è proverbiale, ma devo dire che leggendo Maria e Gabriele – L’accoglienza delle madri ho riscontrato un’autonomia e una franchezza che ha il sapore della sana teologia. Che però non ha inficiato il canto, non ha appesantito la fluidità poetica, anzi gli ha dato una forza che a tratti inquieta e a tratti rasserena, come deve accadere sempre nel rapporto con i testi pregni di significati e di valorietici e morali.
Un importante libro di poesia e, perché no? Di teatro di poesia, e chi non avesse voglia di sfogliare il Vangelo, si fermi sulle pagine di Cinzia, ne trarrà refrigerio: se donna prenderà maggiore consapevolezza del suo ruolo; se uomo saprà meglio guardare nel grembo dellemadri scevro da tentazioni irresponsabili. La castità è un valore illuminante, un valore che va ben oltre la rinuncia “come gemma da curare / strada da inventare / rubata alle paroledell’angelo”.

mercoledì 11 novembre 2015

Sebastiano Timpanaro, "Alcune osservazioni sul pensiero di Leopardi" (ed. Solfanelli)


Il presente lavoro di Sebastiano Timpanaro, che si avvale nelle sue argomentazioni della svolta critica segnata dagli studi di Walter Binni e di Cesare Luporini, è una serrata indagine, filologica e filosofica insieme, che porta in primo piano la sostanza concettuale dell'opera di Leopardi, il quale fece della poesia un passaggio testimoniale per la definizione del suo pensiero.
     La particolarità della posizione leopardiana, ancorata a una tradizione classicistico-illuministica, risiede nella rappresentazione del rapporto uomo-natura che esclude ogni metafisica consolatoria. Il critico, tenace avversario della linea idealista ottocentesca e poi crociana, vede nell'umana infelicità di cui ragiona il Leopardi materialista non già un romantico mal du siècle, né un'angoscia esistenziale, ma un'afflizione soprattutto fisica che egli converte in strenua strategia conoscitiva.
     Leopardi viene esaminato lungo il dispiegarsi di un pensiero lucido, corrosivo pur dietro le sue forme limpide, che Timpanaro va ricomponendo attraverso le categorie del «materialismo» e del «pessimismo» per ridefinirne la visione del mondo e dell'uomo, con un'indagine sempre puntuale e poggiata sulle fonti.
     L'appassionata esperienza di Timpanaro rimane uno dei rari esempi italiani di quella difficile unità fra campo di analisi e scelte di vita, fra ragione letteraria e ragione politica. Le pagine introduttive di Antonio Prete, che rivisitano con garbo e autorevolezza il lavoro del grande studioso, aiutano a metterci in ascolto di quell'interrogare che è il «respiro» della scrittura leopardiana.

martedì 10 novembre 2015

Gabriella Maleti, "Vecchi corpi" (Ed. LaRecherche)

Gentili Autrici e Autori, Lettrici e Lettori,
informiamo che è in linea l'eBook n. 191 della Collana Libri Liberi de LaRecherche.it (scaricabile gratuitamente): 

lunedì 9 novembre 2015

Irene Foderà, "L’officina della memoria" (Ed. Book Sprint)

di Sandra Vita Guddo

Ricostruendo, tassello dopo tassello, sulla scorta di ricordi di famiglia supportati da ritratti, vecchie foto e documenti  ritrovati attraverso un’accurata ricerca, Irene Foderà ci racconta nel suo libro “ L’officina della memoria “ la storia della Famiglia Pojero ed in particolare del suo bisnonno: Michele junior .
Il progetto di scrivere il racconto che, opportunamente, l’autrice definisce storico, nasce in occasione delle celebrazione del 150° anniversario dell’Unità d’Italia a cui, secondo i fatti esposti, Michele junior diede il suo valido contributo partecipando attivamente alla mitica impresa del Generale Giuseppe Garibaldi e dei Mille . Il libro ha soprattutto il merito, come declama il titolo “ L’officina della memoria “ di scavare nel passato e riportare alla luce fatti di importanza storica che altrimenti sarebbero rimasti  relegati nel mondo dell’oblio .
La storia della famiglia Pojero, originaria di Napoli, si intreccia con quella della Sicilia e del Regno di Napoli, a partire dalla seconda metà del settecento fino ai primi anni del novecento raccontata, nelle sue fasi più salienti. Molte altre famiglie e comunità provenienti da Genova, da Firenze e dalla Calabria come i Florio ma anche dalla Francia e dall’Inghilterra si trasferirono nell’isola, in cerca di fortuna, contribuendo  a formare una classe imprenditoriale vivace ed intraprendente. Tra i maggiori imprenditori, famoso per la sua abilità di uomo d’affari, ci fu  Joseph Ingham , zio del più noto Giuseppe Witacher .
Ma tornando alla famiglia Pojero, il primo ad arrivare a Palermo fu Matteo, nato nel 1755 da Bartolomeo, stimato commerciante di agrumi e di sommacco ; con lui inizia la vera importante  svolta nella fortuna economica di questa famiglia che si rafforza quando, nel 1820, il figlio Michele senior inizia i suoi traffici con l ’America, principalmente a New York e a Boston. “
 Don Michele inoltre comprese l’importanza della pubblicità, da lui ritenuta indispensabile per aumentare il volume dei suoi affari. A tal proposito l’autrice inserisce un’ interessante fotografia che immortala uno specchio con la scritta pibblicitaria  “ Boston D. H. Tylly & co . Agenti della Pojero . “ In quello stesso periodo l’imprenditore palermitano acquista  “ per 322  onze  lo sciabecco Madonna della Misericordia, con tutti con tutti gli attrezzi e i fornimenti “ con cui intensificò i suoi traffici commerciali ed un palazzo in via Butera al civico n. 1 , proprio di fronte alla prestigiosa abitazione della famiglia Butera. Provvide anche alla costruzione di uno stabilimento per la lavorazione del sommacco da cui venivano estratti i tannini, impiegati in tintoria e nei processi di concia delle pelli.
Alla sua morte, avvenuta nel 1866, il giovane figlio Michele junior che, già  da tempo lavorava a fianco dell’anziano genitore,  è pronto a prendere le redini dell’azienda e ad incrementare  gli affari di famiglia tra molteplici difficoltà, tra le quali viene indicato il mancato sviluppo delle infrastrutture, deficienza che ancora oggi perdura  danneggiando irreversibilmente l’economia isolana.
A questo punto mi viene spontanea una riflessione: alcuni di questi imprenditori sembra abbiano avuto lo stesso destino “ sono arrivati in maniche di camicia e, dopo tre generazioni, si sono ritrovati in maniche di camicia “ come afferma Orazio Cancila nel suo interessante lavoro sulla famiglia Florio, intitolato: “ Storia di una dinastia imprenditoriale . “
Strano destino, dovuto sicuramente non soltanto al caso ma, come è documentato nel presente racconto storico, dalla constatazione che l’Unità d’Italia non portò i benefici sperati anzi le successive tasse e leggi emanati dal giovane regno, impoverirono il sud al punto da compromettere quella debole rinascita che era stata avviata da imprenditori capaci come i Pojero e tanti altri: “ La politica fiscale rimase oppressiva e strade, scuole, ospedali crebbero con molto rilento. Era ancora il mondo dove il contadino chiedeva la riduzione della tassa sul pane ( … ) . La prospettiva unitaria rivelò un’angolazione diversa da quella auspicata ed alcune questioni furono più difficili da gestire “ . Tale interpretazione dei fatti, tuttavia, sarebbe riduttiva e incompleta se non si considerassero altri importanti fenomeni e congiunture sociali ed economiche, nel quadro internazionale, che portarono ad un minore richiesta dei prodotti siciliani come il sommacco e lo zolfo, mentre nell’isola, come  scriveva Diomede Pantaleoni il 10 ottobre del 1891 al presidente del consiglio Bettino Ricasoli, in un lungo rapporto sulle condizioni della Sicilia  “  La sicurezza nell’isola era insostenibile; gli omicidi all’ordine del giorno e la vendetta personale l’unica forma di giustizia conosciuta “  .
L’autrice, Irene Foderà preferisce non approfondire tali aspetti poiché il suo intento principale, in questo breve racconto, è quello di parlare di Michele junior che, per il valido contributo dato al nostro Risorgimento, nel 1922, fu eletto all’unanimità socio della Società Siciliana di Storia Patria e “ al Museo del Risorgimento rimane la sua fotografia insieme alle altre dei garibaldini. “
L’episodio centrale di questa ricostruzione storica, riguarda la partecipazione attiva del giovane Michele, infiammato dalla passione politica, all’impresa di Garibaldi la cui avanzata in terra di Sicilia, dopo lo sbarco a Marsala, avvenuto l’ 11 maggio 1860, viene documentata tappa dopo tappa finché Il generale arriva a Gibilrossa e qui stanzia, in attesa di ricevere la carta topografica di Palermo con le postazioni borboniche . Sarà proprio Michele junior a recapitargliela: sfidando il pericolo di essere intercettato dalle forze borboniche, travestito da ufficiale della marina americana grazie anche al suo ottimo inglese, superò facilmente i posti di blocco, nascondendo, nel polpaccio della gamba destra, tutta la documentazione richiesta da Garibaldi. Inoltre “ In Sicilia, le armi, Garibaldi le avrebbe potuto acquistare dai bastimenti inglesi che erano ancorati nella baia di Palermo e Michele Pojero si prestò per questa missione. Mise a disposizione una sua imbarcazione ( … ) “
La narrazione, chiara e lineare, segue i fatti in ordine cronologico senza digressioni che potrebbero confondere il lettore. Molto appropriata la veste grafica e la copertina dove sono visibili il ritratto di Don Michele senior, divenuto senatore del Regno delle Due Sicilie , dopo la parentesi rivoluzionaria del ‘ 48,  e la foto del figlio con la divisa di un prestigioso collegio di New York dove, oltre ad imparare perfettamente la lingua inglese, condusse studi  di economia avanzata, abilità che gli torneranno estremamente utili sia per la sua attività commerciale ma anche per la sua esperienza di garibaldino: infatti diventerà traduttore ufficiale del Comitato  Rivoluzionario a testimonianza che, dietro l’impresa di Garibaldi, vi furono molti altri attori, inglesi e americani, il cui contributo, secondo un mio personale parere, è risultato determinante per l’esito finale dell’impresa dei Mille .

martedì 3 novembre 2015

Recensione a Antonino Sala, "Da Burgio all'Isonzo. Cento anni di gloria 1915 - 2015"

Pubblichiamo la recensione apparsa sul quotidiano "La Sicilia" del 31 Ottobre 2015 ad Antonino Sala "Da Burgio all'Isonzo. Cento anni di gloria 1915 - 2015".
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