giovedì 27 agosto 2015

Antonio Socci: questa vita non basta

di Andrea Zambrano

“Il fatto è che la vita non è abbastanza. Qui sulla terra non c'è abbastanza da desiderare”. E' un Antonio Socci elegiaco e intimista quello che si affaccia di fronte al mistero dell'eternità cui siamo destinati. La frase non è sua, ma di un insospettabile come Jack Keruak ed è una delle tante spie che illuminano il cammino di un personale e sofferto itinerarium mentisin Deum che lo scrittore senese, al pari di un novello Dante, compie alla ricerca di quel senso finale che ha affascinato scrittori, arrovellato scettici e poeti, illuminato uomini persi e senza meta.
In Avventurieri dell'eterno (Rizzoli, 250 pp.) il polemista cattolico ci conduce nel suo personale viaggio alla ricerca di un senso ultimo. E lo fa utilizzando quei segnali che vengono dalla letteratura e dalla vita di uomini in carne ed ossa che ad un certo punto, in un kairòs sempre originale e improcrastinabile, hanno affrontato quel mistero. Un viaggio complesso che tocca come tappe oasi che sono per lo scrittore un filo rosso attraverso cui si dipana il destino di ognuno di noi.
Niente infatti potrebbe legare tutti insieme Giacomo Leopardi e Franz Kafka, un'attrice persa nei meandri del vizio e lo scrittore di On the Road, Agostino e un missionario sereno e beato prima del suo martirio. Niente, se non quel desiderio di conoscere e approdare all'infinito. Socci mette su carta una playlist di idee madri da cui attingere per sperare, continuare a cercare, alimentare questa sete di Dio che ogni uomo, anche se soffocata, fa continuamente ardere le labbra.
C'è Katja Giammona, attrice di origini italiane che in Germania è diventata celebre per la serie Il nostro amico Charlie. Anni di vita disordinata, adulteri, vizi, sregolatezze, esperienze mistiche come palliativo ad una ricerca mai compiuta. Poi la malattia, il coma e la visione dell'Inferno che l'hanno completamente rivoltata come un calzino fino a trasformarla in mistica eremita, che trascorre le giornate a pregare per i malati, a render lode a Dio. La sua storia potrebbe essere la storia di una delle tante e affascinanti conversioni che ogni tanto vengono portate all'attenzione della cronaca. Ma forse è qualche cosa di più. E' la storia di un'anima che adesso può sperare di raggiungere quella salvezza prima insperata e che forse non sapeva di desiderare e che deve ringraziare la madre, la quale non ha mai smesso un istante di pregare per la sua conversione.
Quella conversione che Giacomo Leopardi, il giovane sul balcone dell'infinito, non ha mai del tutto sperimentato salvo vivere un'esistenza drammaticamente protesa verso quell'ignoto che cantava. “Se solo avesse avuto qualche amico che lo avesse aiutato a cominciare l'eternità quaggiù...”, dice Socci. Quel grido disperato del poeta di Recanati è stato strozzato da una lettura della sua poetica troppo influenzata da un materialismo illuminista e risorgimentale che lo ha trasformato in un clichè, ma la sua esperienza umana e artistica è stata tutta un costante cercare quella Donna che non si trova senza la quale la vita è tedio. “Se solo avesse volto lo sguardo giù dal colle dell'Infinito avrebbe visto davanti alla sua Recanati proprio la collina di Loreto e la Santa Casa, quel luogo dove davvero 2000 anni fa l'infinito si è fatto un volto di bimbo, dove la bellezza si è fatta carne, dove la verità si è fatta carne”.
C'è un viaggio dunque che non è il topos letterario alla ricerca dell'oblio cui ci ha abituato la critica moderna. E ogni persona dotata di senso religioso ha cercato di tradurlo in parole, nell'arte o nella musica. Quel viaggio che Albert Camus condensò nella striscia azzurra del cielo dopo un temporale estivo “di una bellezza insopportabile, che ci riduce alla disperazione perché è l'eternità di un minuto che pure vorremmo dilatare nel tempo” e quel viaggio verso casa che l'Ulisse di Cesare Pavese abbandonando Calypso cercava di portare a termine per smettere di rimpiangere “la parte viva di me stesso”.
In mezzo, durante il cammino, ci sono i nostri desideri di inquieti cercatori, sognatori sempre inappagati, viandanti costantemente insoddisfatti, mancanti o caduti, delusi o feriti, indagatori curiosi e appassionati, ma sempre bisognosi di altro, con un vuoto dentro che è un abisso in cui ci si può perdere.
Perché “abbiamo la nostalgia di una patria ignota, di un amore mai conosciuto, di una felicità mai sperimentata”. Questo nostro desiderio strozzato, che ci fa de-siderantes , aruspici e soldati sotto un cielo senza stelle (sidera) è ciò che aziona il motore del cammino. Un cammino che come ammetteva lo stesso Fernando Pessoa è fatto di “letteratura e di arte, confessioni che in fondo la vita non ci basta”.

da: www.lanuovabq.it

mercoledì 26 agosto 2015

Evelyn Waugh, "Ritorno a Brideshead" (ed. Bompiani)

di Luca Fumagalli

Oxford, 1923. Nelle vie larghe e silenti della cittadina si aggirano due curiosi personaggi, matricole del college. Il primo ad avanzare è Charles Ryder, promettente artista di Londra, mentre accanto a lui, un poco in disparte, si trova il suo inseparabile amico, Sebastian Flyte, figlio del marchese di Marchmain e rampollo di una delle famiglie più in vista di tutta l’Inghilterra. Tra le sue braccia stringe un orsetto di pezza chiamato Aloisio a cui si rivolge con la curiosa severità di un padre, come se si trattasse di un ragazzo in carne e ossa. Due tipi piuttosto curiosi, eppure capaci con il sorriso di attrarre un numero crescente di compagni che, tra una bevuta cameratesca e un pranzo allo studentato, trascorrono i trimestri con la gaiezza dei vent’anni, estranei alla grave serietà dei professori o degli studenti più anziani. Naturalmente la resa accademica è piuttosto scarsa, ma tra Charles e Sebastian è nato un affetto così profondo che rende indimenticabile ogni giornata trascorsa insieme: «C’era in noi una vena d’infantile freschezza assai prossima alla gioia dell’innocenza».
L’allegra monotonia viene spezzata quando, durante l’estate, Sebastian invita Charles a trascorrere le vacanze da lui presso il bellissimo castello di Brideshead, la dimora di famiglia. «Era un corso d’estetica vivere tra quelle pareti, vagabondare da una stanza all’altra»: il giovane londinese tocca con mano per la prima volta l’opulenza del patriziato britannico, un’immersione nel delicato gusto della bellezza arcaica. I monumenti, la grande fontana e i verdi giardini che si affacciano su un incantevole lago sono l’adeguata cornice per un’esperienza indimenticabile. Charles ha così modo di incontrare la famiglia Flyte composta dall’austera madre, dal figlio maggiore Bridey e dalle figlie Julia e Cordelia. Il marito vive da tempo a Venezia con Cara, conosciuta in Francia durante la guerra; Lady Marchmain dal canto suo non nutre alcun risentimento nei confronti di un uomo che continua a dimostrare un grande affetto per la prole. Nonostante le attenzioni e le gentilezze di cui è fatto oggetto, Charles fatica a comprendere la religione di questi singolari cattolici, lui che è stato educato all’anglicanesimo dall’ammattito padre – la madre è morta durante la guerra mentre era in Serbia come volontaria per la Croce rossa – e che ora langue in un freddo e distaccato ateismo: «La loro era la tipica storia dei signorotti cattolici inglesi; dal regno di Elisabetta a quello della regina Vittoria avevano condotto vita ritirata, tra affittuari e parentado; mandavano a studiare i figli all’estero, dove prendevano moglie, quando non si sposavano tra loro, nella ristretta cerchia di famiglie della loro stessa fede».
Col passare del tempo i rapporti con Sebastian si fanno sempre più difficili a causa dell’ostentata dipendenza dall’alcol di quest’ultimo, e Julia rimpiazza presto il fratello nell’immaginario affettivo di Charles. Lacerati da forze opposte, i legami tra i protagonisti si dipanano confusi fino allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale in un affresco mai prevedibile che trascina più volte gli inconsapevoli attori del dramma sul ciglio del precipizio. Ma proprio quando le tenebre sembrano aver irrimediabilmente offuscato l’orizzonte esistenziale degli abitanti di Brideshead, ecco che accade il miracolo che conduce la vicenda a un felice epilogo.
Ritorno a Brideshead, pubblicato per la prima volta nel 1945, è il romanzo più famoso dello scrittore britannico Evelyn Arthur Waugh (1903-1966). Noto per le sue narrazioni ironiche e disincantate, argute satire che prendono di mira la classe dirigente britannica, Waugh era un fervente cattolico, teologicamente tridentino, l’ultimo di una schiera d’autori che dal cardinal Wiseman si dipana idealmente fino a raggiungere gli anni del Concilio Vaticano II (accolto dallo scrittore con numerose critiche e riserve). La fede descritta nei suoi lavori ha un sapore antico. Gli uomini e le donne che abitano i romanzi dell’inglese sono peccatori della peggior specie, si comportano il più delle volte come se Dio non ci fosse, ma mai arrivano a negarne l’esistenza o la benevolenza. Alla sua poetica è dunque estranea quella modernissima “teologia del dubbio” che invece caratterizza il lavoro di altri grandi prosatori coevi come Graham Greene.
L’opera di Waugh, definita non a caso dallo studioso Richard Griffiths il “culmine della Tradizione”, è piuttosto eterogenea e solo con il romanzo del ’45 la tematica cattolica diventa rilevante. Il sottotitolo, Memorie sacre e profane del capitano Charles Ryder, rende ragione della convivenza dell’elemento satirico e di quello religioso, ma, soprattutto, mostra la natura intima del testo dove è evitato un intreccio troppo scopertamente apologetico per virare verso una storia di raffinato gusto aristocratico che, tra le pieghe di una vita mondana e apparentemente serena, nasconde i semi del tormento sociale e spirituale. L’edera che si arrampica pervicace sulle pareti del palazzo di Brideshead è infatti il segno più eloquente del tempo che passa, di un’epoca che, come il ciclo delle stagioni, sta giungendo al suo naturale capolinea. Quel glorioso passato in cui la nobiltà godeva di un prestigio invidiabile in Gran Bretagna è destinato a sfaldarsi come i colori degli antichi stemmi araldici. Allo stesso modo anche la fede della famiglia è in costante pericolo, preda delle tentazioni del nuovo che avanza. Una Julia ormai adulta commenta così la fallimentare storia d’amore con il ricco Rex Mottram, un uomo che dietro la modernità ha rivelato tutta la grottesca pretesa del tempo presente: «Lo avevo creduto un selvaggio primitivo, mentre era qualcosa di assolutamente moderno e al passo con i tempi, quale soltanto quest’epoca agghiacciante poteva produrre. Un pezzettino d’uomo che pretendeva d’essere un uomo intero».
Ritorno a Brideshead, come ogni classico della letteratura, generazione dopo generazione continua a parlare ai suoi lettori rivelando anche più di quanto il suo stesso autore avesse programmato. Waugh aveva deciso di accantonare per qualche tempo gli impegni editoriali più urgenti e di dedicarsi, anima e corpo, a un romanzo scritto solo per se stesso, totalmente indifferente alle logiche del mercato. È forse questa la chiave di un successo duraturo testimoniato tra l’altro dall’omonima serie Tv del 1981 con Jeremy Irons e dal film di Julian Jarrold del 2008 (da cui sono tratte le immagini a corredo dell’articolo). La riduzione cinematografica, come spesso accade, si scontra con la necessità di limitare alle linee essenziali un intreccio di per sé piuttosto complesso. Il prodotto finale è comunque positivo, abile soprattutto nel ricreare il plumbeo clima cattolico di Brideshead, anche se sacrifica molto dell’approfondimento psicologico dei personaggi – a volte un po’ stereotipati – che i numerosi dialoghi presenti nel testo contribuiscono a far emergere con vivace nettezza.
La recente edizione Bompiani presenta in appendice il breve racconto Charles Ryder ai tempi della scuola, pochi fogli che trattano degli studi liceali di Charles e, soprattutto, della sua reaziona alla notizia della morte della madre. Per la prima volta vengono presentate al lettore italiano le poche pagine sopravvissute di un probabile antefatto a cui Waugh stava lavorando. Una gradita integrazione che, lungi dall’aggiungere spessore o valore alla trama originale, ha comunque il merito di descrivere con riuscita ironia il vuoto sistema educativo anglicano, ridicolmente preoccupato di gareggiare in fasto e bellezza con la Chiesa di Roma.
Quale sia il filo rosso che unisce gli episodi di una storia lunga e frammentata è esplicitato dallo stesso autore nella prefazione dell’edizione riveduta e corretta del 1960: «Il libro ruota su ciò che la teologia definisce l’atto della Grazia, vale a dire l’immeritato e unilaterale atto d’amore, attraverso il quale Dio chiama le anime a sé». Persi nei tormentati legami esistenziali, i personaggi sono costantemente inseguiti dallo spettro della fiamma divina, un dolce imprevisto che come un segugio non molla mai la loro anima. Alla libertà del singolo è affidato il compito di rispondere alla sollecitazione dello Spirito che spesso si manifesta nei modi più improbabili. Se è vero che «conoscere e amare un altro essere umano è alla base di qualsiasi forma di saggezza», è proprio nelle relazioni che scaturisce l’anelito alla conversione. Come anticipato, ogni passaggio chiave della trama è sempre preceduto da un dialogo in cui è un gesto o una parola pronunciata al momento più opportuno che, come un archetto, fa vibrare le corde della coscienza dell’interlocutore.
È il caso, ad esempio, del colloquio tra Charles ed Anthony Blanche, ex compagno di college, dandy e omosessuale. A Londra per visitare la mostra di quadri recentemente inaugurata dall’amico, ormai affermato pittore, Anthony con le sue critiche ragionate e profonde è una divertente personificazione delle misteriose vie che il Signore adopera per toccare il cuore delle persone. A Charles non resta che ammettere l’evidenza: «Ci voleva quella voce del passato per farmi tornare in me». Anche Sebastian nella seconda parte del libro torna sul tema del riscatto personale: «Ritengo uno dei maggiori conseguimenti della Grazia quello di santificare la vita nella sua totalità».
Proprio lui e la sorella Julia al termine del racconto sperimentano più di altri la gioia del riscatto. Entrambi sembrano infatti condannati alla perdizione. Le loro vite, seppur molto diverse, si sono rivelate nulla più che un grande fallimento che li ha condotti a perdere la fede. Eppure, nel medesimo tempo, basta poco per ribaltare la sorte a cui verosimilmente erano destinati. Nel caso di Sebastian si tratta di un incontro, un’occasione per riprendere il controllo di sé e per chiudere definitivamente con ogni vizio, mentre a smuovere l’animo di Julia interviene una fredda costatazione di Bridey; la consapevolezza di vivere nel peccato la porta a spogliarsi di tutto, a rinunciare a ogni pretesa per arrendersi a Dio. L’epifania dei due fratelli ha inizio dalla conversione sul letto di morte del padre che, sentendo prossima la fine, raggiunge la famiglia a Brideshead. Quando l’uomo sta per chiudere gli occhi, con le ultime forze rimaste si fa il segno della croce e con un dolce sorriso si prepara alla Salvezza.
Nella confusione della modernità, una realtà liquida senza alcun punto d’appoggio, la fede rimane l’unica certezza: «Tutto ciò a cui i cattolici annettono importanza risulta essere diverso dagli altri». In una Oxford attraversata dalle istanze religiose più disparate – il lungo elenco delle possibili funzioni domenicali a cui uno studente può assistere è uno dei momenti satirici più brillanti del romanzo – non è altro che la cartina tornasole di un mondo in rovina di cui lo stesso Charles appare lo stereotipo più riuscito. Eppure anche lui, nonostante gli anni trascorsi e le traversie patite, nell’epilogo si mostra toccato dalla testimonianza dei suoi cari amici. In un finale aperto che suggerisce una situazione di stallo apparente, Charles si trova a fare il bilancio della propria vita, costretto a constatare, pur senza disperazione, il tempo perso a inseguire futili sogni e volgari pretese: «Quando i pozzi sono asciutti la gente prova ad attingere al miraggio». Ma anche per lui la Grazia è in agguato e fa capolino proprio nel momento in cui, nella solitudine della cappella di Brideshead, si trova quasi per caso a contemplare rapito una candela accesa, la speranza di un futuro diverso, più autentico e appagante: la storia è dunque del tutto simile a una fiammella votiva, il cui senso in fondo risiede nel suo perpetuo ardere in segreto.

da :www.radiospada.org

lunedì 24 agosto 2015

Gabriele De Anna "L'origine e la meta" (Ed. Ares)

di Marco Di Matteo


Il 5 maggio 1981 moriva appena trentottenne il grande filosofo Emanuele Samek Lodovici (i cui scritti sono reperibili sul sito www.emanuelesameklodovici.it), che Augusto Del Noce riconosceva già come un vero maestro e Gaspare Barbiellini Amidei come uno dei maggiori pensatori contemporanei. La sua testimonianza esistenziale e morale e il suo contributo speculativo continuano a suscitare ammirazione e ad alimentare la riflessione sulle cause della corruzione sia del modus cogitandi sia del modus agendi dell’uomo contemporaneo.
La fama di Samek è legata soprattutto al volume, ormai divenuto un classico, Metamorfosi della gnosi. Quadri della dissoluzione contemporanea, Ares 1979. In esso Samek mostra come la rivolta contro il reale e contro la natura umana messa in atto dagli utopismi ideologici moderni trovi le sue radici nell’antica gnosi.
Samek presenta la gnosi contemporanea come un attacco multiforme al cristianesimo; in modo originale egli distingue due forme di attacco: macrostrutturale e microstrutturale. La forma macrostrutturale rappresenta un’aggressione frontale ai principi del cristianesimo, un tentativo di dissoluzione interna dei suoi contenuti dogmatici. Il secondo tipo di attacco è invece rivolto ai portatori dei principi cristiani ed ha come bersaglio la prassi concreta del comportamento cristiano, allo scopo di instaurare un nuovo senso comune e costruire un nuovo modo di percepire la vita, di parlare, di comunicare, di vivere le relazioni familiari e la propria mascolinità e femminilità. Nel mondo contemporaneo un ruolo determinante nella diffusione di questa mentalità neognostica lo svolgono i mezzi di comunicazione di massa.
Tuttavia, gli orizzonti dell’impegno intellettuale di Samek non si riducono all’indagine sulla gnosi contemporanea. Un recente volume curato per Ares da Gabriele De Anna (docente di filosofia presso le Università di Bamberg in Germania e di Udine) intitolato L’origine e la meta, ha cercato di ricostruire e presentare in modo esaustivo, attraverso i contributi di diversi specialisti, i temi della riflessione di Samek, che possono essere ricondotti a tre filoni principali: quello accademico e specialistico, rivolto soprattutto al neoplatonismo e a sant’Agostino, quello della critica alle derive della cultura postillumistica e neognostica, quello della passione pedagogica e didattica, che rendevano le sue lezione, come ricorda una sua ex allieva, incandescenti come colate d’oro.
Samek considerava il recupero della memoria storica come uno dei principali antidoti alla dissoluzione contemporanea, caratterizzata soprattutto dal tentativo di allontanare l’uomo da ogni contatto con le sue radici. La memoria storica è specialmente memoria dell’origine e l’origine rappresenta anche la meta, in quanto, in una prospettiva metafisica, la causa prima è anche il termine a cui tende il divenire cosmico e quindi la vita umana. La memoria storica, agli occhi di Samek, ha una forte valenza liberatoria, perché ci aiuta ad affrancarci dalla dittatura del presente, dalla tentazione di considerare lo stato presente come irreformabile e il futuro come ineluttabile.
Inaugura la raccolta di questi studi un interessante inedito di Samek intitolato “Educarsi all’intelligenza”, in definitiva educarsi alla vita feconda e riuscita, trascrizione dell’ultima conferenza pubblica del giovane maestro, tenuta 40 giorni prima della prematura scomparsa. Si tratta di un testo in cui trovano una mirabile confluenza da un lato il vigore teoretico di Samek, dall’altro la sua passione pedagogica e divulgativa, che lo portava a non separare mai la dimensione speculativa dall’impegno di perfezionamento morale.
Dopo l’inedito, i diversi contributi vengono disposti secondo un criterio sistematico: il primo, ad opera di Ariberto Acerbi, affronta il tema della cultura e del nuovo illuminismo nel pensiero di Samek. Dall’indagine di Acerbi emerge chiaramente come nella riflessione di Samek, accanto alla pars destruens, non manchi mai la pars construens. In tal senso, interessante risulta la proposta di un nuovo illuminismo, che superi il riduzionismo antropologico dell’illuminismo moderno e recuperi l’apertura metafisica della ragione e la dimensione spirituale dell’uomo.
Per Samek, «l’atteggiamento tipico dell’uomo religioso» riconosce che «il mondo e gli oggetti sono gratis dati, segno di una creazione che non ha alcuna finalità pratica, e il cui valore è costituito appunto dal fatto che non serve ad alcunché e che proprio per questo è il segno di uno splendore, quello di Dio». Seguono al contributo di Acerbi, il saggio di Alessandro Ghisalberti sul concetto di abisso nelle Confessioni di Agostino, quello di Maria Bettetini sulla metafisica agostiniana, e quello di Paolo Pagani sugli aspetti antignostici del pensiero di Plotino nell’interpretazione di Samek.
Si tratta di interventi ispirati soprattutto ai contributi storico-filosofici del giovane filosofo, in particolare alla corposa monografia che gli valse la cattedra di Filosofia morale, ossia Dio e mondo. Relazione, causa, spazio in S. Agostino. In questo fondamentale studio Samek mostra, contro ogni forma di panteismo, come il mondo non si identifichi con Dio, ma anche come il rapporto Dio-mondo non sia riconducibile al rapporto causa-effetto, alla stregua del rapporto tra artigiano e opera d’arte. Mentre l’opera d’arte, una volta realizzata, vive di vita indipendente dall’artista e dalla sua azione, il creato continua a sussistere grazie al Creatore e al suo sostegno continuo.
Dal quinto saggio in poi l’attenzione si sposta sulle questioni teoretiche maggiormente sviluppate da Samek: Angelo Campodonico esamina la nozione di gnosticismo come rifiuto del finito e della distinzione degli ambiti del sapere; Antonio Allegra si sofferma sulla matrice gnostica delle posizioni postumanistiche contemporanee; Lucetta Scaraffia individua il rapporto genetico tra neognosticismo e femminismo radicale, negatore della differenza tra maschile e femminile, con evidenti tratti precorritori della recente teoria del “gender”, di cui Samek è riuscito a cogliere ante litteram il nucleo essenziale, che consiste nel rifiuto di ogni differenza polare fra i due sessi.
Francesco Russo confronta l’analisi di Augusto Del Noce sulle radici filosofiche neognostiche della moderna società opulenta con quella condotta da Samek in Metamorfosi della gnosi; Gabriele De Anna presenta gli aspetti di attualità della riflessione politica di Samek che fornisce utili spunti per sviluppare una filosofia della storia e della politica ispirata alle categorie del pensiero classico.
Di grande attualità risulta il saggio di Matteo Negro, che si sofferma sul rapporto tra religione e ragionein Samek, con particolare riferimento al processo di decomposizione del cattolicesimo contemporaneo, imputabile in gran parte ad una sorta di suicidio messo in atto dall’intellighentia cattolica, che, nel ‘68, afferma Samek, «di fronte alla frantumazione della cultura accademica […], di fronte all’evidente crisi della civiltà acristiana con i suoi miti della tecnologia sempre buona, dell’industrializzazione salvatrice, della produzione per il consumo […] credette che le urla dei contestatori fossero la vox populi e […] trasferì la crisi del pensiero laico all’interno del proprio mondo, e quel mondo entrò effettivamente in crisi».
Di matrice gnostica è senz’altro, infatti, «il disprezzo per gli aspetti istituzionali della Chiesa, per l’autorità, e di conseguenza l’esaltazione dello spontaneismo, della libertà e della coscienza […]; il disprezzo per i processi del pensiero umano, per la mediazione concettuale […] rimpiazzata da un atto di fede sentimentale». La raccolta termina con il saggio di Danilo Castellano, che mostra con straordinaria chiarezza la matrice gnostica dell’utopia rivoluzionaria contemporanea.
Da questo breve resoconto dei ricchi contenuti della raccolta di saggi in onore di Samek, emerge come l’opera del giovane filosofo rappresenti una valida guida per una comprensione profonda di importanti aspetti teorici che stanno a monte del pensiero e della prassi del mondo contemporaneo, sia in forza delle rigorose ed approfondite analisi, sia in virtù delle tesi propositive, sempre basate su solide argomentazioni. Donde appare auspicabile che quanti si trovano a operare in settori nevralgici della cultura e della politica possano giovarsi della lettura delle sue opere e degli studi a lui dedicati.

domenica 23 agosto 2015

Come sopravvivere in un mondo che ha rifiutato Dio

di Domenico Bonvegna

Ogni anno scelgo qualche libro da leggere in spiaggia, dopo aver completato la lettura di “Re bomba”. Ferdinando II, il Borbone di Napoli che per primo lottò contro l’unità d’Italia”, di Giuseppe Campolieti, Arnoldo Mondadori (2001), ho letto il volumetto “Il Pianeta delle scimmie”, sottotitolo, “Manuale di sopravvivenza in un mondo che ha rifiutato Dio”, pubblicato da Piemme (2008), già dal titolo, il testoincoraggia la lettura. E’ stato scritto a quattro mani da Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, quest’ultimo scomparso l’anno scorso per un male incurabile. Il testo è suddiviso in cinque parti, per ogni parte, gli autori, hanno selezionato dei temi. Così ognuno potrà scegliere più o meno cosa leggere. Gli autori raccontano le avventure di un certo Mario Rossi, un abitante di un pianeta immaginario chiamato Gaia, che guarda caso vive come sulla terra, il nostro pianeta.
Correre sempre e mimetizzarsi.
Dalla follia del moto perpetuo, dove si è costretti a correre in continuazione, “se si vuole rimanere a galla nella cosiddetta civiltà moderna, bisogna arrivare prima degli altri. Bisogna arrivare prima dei concorrenti, prima dei colleghi, prima degli amici, prima dei familiari, prima di tutti”. Con questo velocità o modo di fare alla fine si è disperati, senza sapere perché. Si passa a una società dove si è costretti a mimetizzarsi. E’ strano vivere nel mondo di Gaia, soprattutto i giovani, camminano e si vestono in modo strano, le ragazze con l’ombelico di fuori anche se fa freddo. Gli abitanti di Gaia ricordano i pirati del Borneo: uomini e donne portano orecchini e si infilano pezzi di ferro nel naso.
Ma il libro a questo punto si sofferma sulla questione dell’abito, della divisa. E prende in esame il prete. Si dice che “l’abito non fa il monaco”, che “l’importante non è la forma ma la sostanza”. Naturalmente gli autori cercano di portare argomenti a favore della talare. Certamente ci sono degli ottimi sacerdoti che celebrano bene la Messa, che pregano come Dio comanda, etc. Ma il punto è un altro per i due giornalisti, una è la questione della “guerra ideologica, a tutto ciò che è forma esteriore”. La seconda è quella che si potrebbe chiamare “la vergogna di farsi riconoscere per ciò che si è”. Allora il testo cerca un po’ di fare la storia di quella gigantesca operazione culturale, in particolare del Sessantotto, iniziata anche prima, di chiara matrice giacobina rivoluzionaria, che voleva distruggere ogni elemento esteriore, simbolo della tradizione e del passato. Invece i nostri antenati sapevano benissimo che forma e sostanza, vanno insieme. Pertanto scrivono gli autori del testo, a proposito del vestito, “mentre tutti intorno a noi riscoprono l’importanza dell’abito, dell’uniforme, della divisa, dell’aspetto esteriore, e perfino di una certa ‘estetica’ dell’apparire; mentre le forze di polizia e i college inglesi, certe multinazionali e i bigliettai dell’azienda municipalizzata(…)Che ti fa il mondo cattolico? Abbandona definitivamente l’abito talare e imbocca spesso la strada della nuova tristanzuola divisa d’ordinanza del prete contemporaneo(…)”.
Un prete, un monaco, che veste la talare si trasforma, quasi quasi si trasfigura, e regala agli occhi della gente che lo incontra qualche cosa di regalmente altro, di straordinariamente misterioso”. E questo, insistono i giornalisti,  interessa anche ai non credenti.
La “pedagogia della chiacchiera”.
A scuola vengono dedicate ore e ore all’”educazione alla legalità”, convegni sulla “cultura della legalità”, si organizzano manifestazioni in cui i giovani sono in prima fila nella ‘rivendicazione della legalità”. In un primo momento sembra tutto a posto, poi ci si accorge che “nonostante il gran parlare di cultura della legalità, tutto è rimasto come prima”. E’ un continuo parlarsi addosso. “Mi pare che il successo di questa operazione – scrivono Gnocchi e Palmaro–venga misurato sulla quantità di persone che parlano di legalità invece che sulla quantità di persone che la praticano.
La nostra società ha rinunciato ad insegnare e ad educare. Sembra che non abbia più bisogno di genitori, di maestri, di tutori dell’ordine, di sacerdoti che incarnino l’autorità e trasmettano un sapere. Ha bisogno soltanto di ‘amici’ con cui scambiare quattro chiacchiere”. In pratica dopo anni di pedagogia della chiacchiera, il risultato è che ci ritroviamo “un uomo sfigurato, regredito a scimmietta ammaestrata pronta a ripetere la lezioncina per il diletto del sapiente di turno”. Non poteva esserci un risultato diverso, poiché la pedagogia della chiacchiera, è figlia di primo letto di un tragico pregiudizio illuminista.Il pregiudizio è quello che l’uomo nasca buono e venga corrotto dalla società, come continuano a predicare i nipotini di Jean-Jacques Rousseau. Pertanto se l’uomo non è il cittadino modello, bisognerà riprogrammarlo attraverso gli opportuni insegnamenti.
Ci sono due modi per riprogrammarlo: “L’ideologia che produce i gulag e i campi di rieducazione comunisti o la pedagogia della chiacchiera che produce bamboccioni debosciati in salsa occidentale”. Il motivo? “Perché la teoria illuminista, tipica di tutta la modernità, nega la più grande evidenza insegnata per duemila anni dal cristianesimo: l’uomo è ferito dal peccato originale. L’uomo non nasce buono per natura, nasce malato”. Tuttavia per riaccendere la fiammella divina che brilla nel cuore di ciascun uomo, secondo i due giornalisti, serva l’”autorità. Servono padri e madri che non facciano gli ‘amici’. Servono maestri che non facciano gli ‘amici’, ma facciano i maestri. Servono i sacerdoti che non facciano gli ‘amici’, ma facciano i sacerdoti”. Gnocchi e Palamaro, insistono, oggi, “servono uomini capaci di mostrare mete faticose e impervie. Servono uomini che non temano di perdere consenso se chiedono sacrificio. Servono uomini capaci di sacrificarsi”. Servono i santi, come il Santo Curato d’Ars, che per convertire i suoi contemporanei, non consigliava bei sermoni o trattati di teologia, consigliava ai suoi confratelli di flaggellarsi. San Giovanni Vianney che trascorreva fino a diciotto ore al giorno in confessionale, chiedeva a Dio: “concedetemi la conversione della mia parrocchia. Io sono disposto a soffrire tutto quello che Voi vorrete, per tutta la durata della mia vita, purchè si convertano” .
Mancano queste persone nel nostro tempo.“In un mondo dove la legalità viene schiacciata sotto i piedi, non servono intellettuali che mostrino quanto sia interessante parlare dell’onestà: servono persone oneste. In un mondo dove impera il mito del ‘tutto subito e senza fatica’, non servono intellettuali che tuonino contro il consumismo: servono uomini capaci di rinunciare a ogni cosa. In un mondo che ha dimenticato Dio, non servono teologi incupiti sull’ennesima interpretazione di un versetto di Osea: serve gente che prega”. Così davanti alla scelta tra l’intellettuale che parla di onestà e la persona onesta, i giovani sceglieranno la persona onesta.

sabato 22 agosto 2015

Bonifacio Vincenzi, "Le bambine di Carrol" (Ed. Lierto Colle)

di Mariagrazia Scarnecchia

“Ci son più cose tra cielo e terra, Orazio, di quante ne contempli la tua filosofia”, spiega Amleto al fraterno amico. Sì, sembra voler rispondere Bonifacio, ce ne sono di cose e, prima fra tutte, “l'enigma della venuta e della partenza” , l'enigma degli enigmi, come dire poi il senso della vita. Ma l'uomo da sempre “ignora ad arte” questo enigma, attraverso i “io sono faccio, conosco, dico” (l'enigma, pag. 41). E lo ignora attraverso lo strumento più potente di cui dispone, il pensiero, quel pensiero che può far sentire onnipotenti, che tutto spiega e che tutto almeno potenzialmente risolve; lo fa attraverso la filosofia, il meticoloso cercare di spiegare ciò che all'intelletto può apparire chiaro, ma non riesce a dare nessun sollievo alla parte emozionale di ogni essere umano. Perché nessun uomo è mero intelletto. Proprio così, Orazio.
E noi, tanti Orazio in cerca di risposte ai nostri perché, ci avviciniamo all'opera del poeta con un bisogno forte di sentirci umani e compresi, di condividere le domande, le paure, le emozioni che la poesia sa risvegliare in ognuno di noi. Senza sovrastrutture intellettuali, senza sofismi né infingimenti. Con la parte più profonda e più vera di noi: col nostro intimo.
Ma, per farlo, ci ammonisce Bonifacio Vincenzi, occorre attraversare lo specchio, diventare in qualche modo Alice, un'Alice curiosa di ciò che riempie lo spazio tra la venuta e la partenza, di ciò che chiamiamo vita, quella vera, fatta di pensiero ma anche di emozione. “Attenti alle bambine di Carroll, ci ammonisce il poeta, portano sempre di là dallo specchio” (le bambine di Carrol, pag.21).
E qui, una volta che si sia passati dall'altra parte dello specchio, la verità non si può più nascondere. Ed è una verità cupa, a tratti disperata ma comunque sempre lucida, quella del nostro poeta. Una verità che ci parla della facilità della discesa – la via facile che fa comportare l'uomo come se fosse immortale, che ne esalta l'onnipotenza a prezzo di fuggire da tutto ciò che è  consapevolezza dei propri limiti, ma che ci parla anche della fatica della salita, quella che rende consapevoli che il proprio cammino ha avuto un inizio e avrà una fine (nessuno sceglie la salita, pag.13). Una verità che non lascia spazio alla finzione, che mette ogni individuo di fronte alla cruda realtà di ciò che è e di ciò che fa, un individuo che, anche quando ama, (non abbiamo sempre pensato che l'amore sia l'unica salvezza?) in fondo tende a vedere solo se stesso.
Vengono in mente le parole di Pessoa: ...”non amiamo mai nessuno. Amiamo solo l'idea che ci facciamo di qualcuno. E' un concetto nostro quello che amiamo. Insomma, amiamo noi stessi....” (il libro dell'inquietudine, pag.86).
Come per Pessoa anche per Bonifacio Vincenzi  l'amore ha sempre un implicito anti-amore, la coppia che si ama corre sempre il rischio di un rispecchiamento esclusivamente narcisistico (“non è affatto tenero l'intruso che abita la mente degli innamorati, vincitore su tutti i tavoli dell'illusione” (l'intruso pag.39). A differenza della totale mancanza di speranza di Pessoa, però, in Bonifacio troviamo uno spiraglio, una via verso un'esistenza senza gli orpelli della ragione: c'è un amore possibile, ed è quello basato sulla  condivisione affettiva dell'essere nati e del dover morire e, nel mezzo, del cercare di vivere.
Un famoso psicoanalista inglese, Bollas, nel descrivere la vita dell'uomo, usa due metafore: la prima è il fato, quella che ci è data e non possiamo in alcun modo cambiare (sono nato qui, da questa famiglia, sono destinato ad essere bambino poi a crescere e a invecchiare, a vedere il mio corpo che cambia, che io lo voglia o no, posso nascere  sano o portare in me la croce di una malattia, e via di seguito); l'altra è il destino, quella che costruiamo con le nostre mani col solo limite del binario del fato. E, in questo destino, possiamo sempre scegliere tra l'illusione dell'inganno e il dolore della verità. Bonifacio ha scelto e noi, che lo leggiamo, scegliamo con lui.
Poche parole per una silloge potente che spazia tra tutti gli aspetti dell'umano, dai più profondi e personali alla lucida disamina del mondo che abbiamo intorno e che ci siamo costruiti. Volendolo o, semplicemente, accettandolo con passiva subordinazione. Poche parole per un amico, per un letterato che da sempre apprezzo e lui lo sa bene, per un poeta che – lo dico con estrema fierezza – sono stata la prima a pubblicare. Mi sono sentita capita come essere umano, in questa lettura, mi sono sentita non sola, ma insieme nella condivisione della mia condizione di donna che ha sempre cercato di guardare oltre, al di là dello specchio. 

martedì 4 agosto 2015

Vincenzio Massimo Majuri, "Dante e la Bibbia" (Ed Leonardo da Vinci)

Questo mese segnaliamo il volume Dante e la Bibbia, testo che inaugura la collana Fede e poesia e che si inserisce nella serie di iniziative e di opere che hanno reso omaggio al grande poeta toscana Dante Alighieri nel 750° anniversario della sua nascita.

Il valore primario della persona, la sua libertà, l’uguaglianza di tutti gli uomini, umili o potenti, famosi o sconosciuti; il valore provvidenziale della storia, la giustizia e la misericordia divina: sono valori che costituiscono l’humus cristiano dell’opus magnum di Dante, che, uniti ai valori della patria, della pace, della famiglia, della lealtà, del rispetto dell’autorità, mutuati dal mondo classico, gettano le basi per il vivere civile che ha caratterizzato per secoli il nostro “Occidente” e che oggi, più che mai, alcuni gruppi di violenti vorrebbero minare con le loro azioni folli. Letta e tradotta in tutto il mondo, la Divina Commedia è uno dei libri più letti dopo la Bibbia. E poiché tanta Bibbia è citata nel “Poema Sacro”, questo lavoro vuole essere una “passeggiata” con Dante pellegrino nei tre Regni ultraterreni, non per obbligo di urgenze scolastiche ma nella serena certezza di essere in compagnia di uno tra i più grandi uomini, e uomini credenti, che mai siano stati. Desiderando rendere ragione dell’imponente presenza della Sacra Scrittura nella Divina Commedia, l’Autore augura a tutti coloro che vorranno fare questo e altri cammini con lui, di essere guidati dall’Alighieri, il quale, se da Virgilio, Beatrice e Bernardo di Chiaravalle fu condotto nel suo viaggio immaginario ultraterreno, può ora condurre o continuare a condurre noi nel nostro viaggio reale terreno.

Pietro Pizzuto, recensendo il testo di Majuri, ha scritto: «L’autore vuole dimostrare come Dante, nel comporre le tre Cantiche, abbia fatto riferimento costante alla Parola di Dio attestata nella Sacra Scrittura. Il volume è un prontuario che individua e raccoglie tutti i testi biblici che hanno ispirato gli endecasillabi dell’Alighieri. […] Majuri elenca sinotticamente i passi biblici incolonnandoli accanto al testo poetico; poi, alla fine di ogni Cantica, li riporta per esteso. Nell’introduzione (pp. 19-32) l’autore evidenzia come il testo di Dante sia stato costantemente considerato nel Magistero pontificio a partire da Benedetto XV. In appendice (pp. 341-363) vengono riportati i due testi magisteriali più significativi: la lettera enciclica In praeclara summorum di Benedetto XV, del 1921 (in occasione del VI centenario della morte) e la lettera apostolica Altissimi cantus di Paolo VI, del 1965 (in occasione del VII centenario della nascita e non del VI come indicato). Riguardo alle questioni inerenti alla Scrittura vengono riprese per lo più le conclusioni di Penna: Dante utilizza due linee interpretative, quella letterale e quella allegorica (pp. 60-61. 63-67); la traduzione di riferimento è la Vulgata (p. 61); Dante cita anche i testi deuterocanonici (p. 61); la Scrittura è considerata un’auctoritas in quanto vera e ispirata (p. 62); l’ispirazione viene creduta sulla scorta del compimento delle parole profetiche (pp. 70-71); Dante è cosciente che esiste un’interpretazione definitiva del testo biblico che è quella della Chiesa nel suo Magistero e che si può verificare un uso distorto della lettera della Scrittura (pp. 62-63). Tutte queste questioni sono davvero interessanti e meritano un ulteriore approfondimento per vedere fino a che punto Dante possa essere considerato un qualificato testimone della comprensione ecclesiale circa ispirazione, canone ed ermeneutica biblica»