di Mariagrazia Scarnecchia
“Ci son più cose tra cielo e
terra, Orazio, di quante ne contempli la tua filosofia”, spiega Amleto al
fraterno amico. Sì, sembra voler rispondere Bonifacio, ce ne sono di cose e,
prima fra tutte, “l'enigma della venuta e della partenza” , l'enigma degli
enigmi, come dire poi il senso della vita. Ma l'uomo da sempre “ignora ad arte”
questo enigma, attraverso i “io sono faccio, conosco, dico” (l'enigma, pag.
41). E lo ignora attraverso lo strumento più potente di cui dispone, il
pensiero, quel pensiero che può far sentire onnipotenti, che tutto spiega e che
tutto almeno potenzialmente risolve; lo fa attraverso la filosofia, il
meticoloso cercare di spiegare ciò che all'intelletto può apparire chiaro, ma
non riesce a dare nessun sollievo alla parte emozionale di ogni essere umano.
Perché nessun uomo è mero intelletto. Proprio così, Orazio.
E noi, tanti Orazio in cerca
di risposte ai nostri perché, ci avviciniamo all'opera del poeta con un bisogno
forte di sentirci umani e compresi, di condividere le domande, le paure, le
emozioni che la poesia sa risvegliare in ognuno di noi. Senza sovrastrutture
intellettuali, senza sofismi né infingimenti. Con la parte più profonda e più
vera di noi: col nostro intimo.
Ma, per farlo, ci ammonisce
Bonifacio Vincenzi, occorre attraversare lo specchio, diventare in qualche modo
Alice, un'Alice curiosa di ciò che riempie lo spazio tra la venuta e la
partenza, di ciò che chiamiamo vita, quella vera, fatta di pensiero ma anche di
emozione. “Attenti alle bambine di Carroll, ci ammonisce il poeta, portano
sempre di là dallo specchio” (le bambine di Carrol, pag.21).
E qui, una volta che si sia
passati dall'altra parte dello specchio, la verità non si può più nascondere.
Ed è una verità cupa, a tratti disperata ma comunque sempre lucida, quella del
nostro poeta. Una verità che ci parla della facilità della discesa – la via
facile che fa comportare l'uomo come se fosse immortale, che ne esalta
l'onnipotenza a prezzo di fuggire da tutto ciò che è consapevolezza dei propri limiti, ma che ci
parla anche della fatica della salita, quella che rende consapevoli che il
proprio cammino ha avuto un inizio e avrà una fine (nessuno sceglie la salita,
pag.13). Una verità che non lascia spazio alla finzione, che mette ogni
individuo di fronte alla cruda realtà di ciò che è e di ciò che fa, un
individuo che, anche quando ama, (non abbiamo sempre pensato che l'amore sia
l'unica salvezza?) in fondo tende a vedere solo se stesso.
Vengono in mente le parole
di Pessoa: ...”non amiamo mai nessuno. Amiamo solo l'idea che ci facciamo di
qualcuno. E' un concetto nostro quello che amiamo. Insomma, amiamo noi
stessi....” (il libro dell'inquietudine, pag.86).
Come per Pessoa anche per
Bonifacio Vincenzi l'amore ha sempre un
implicito anti-amore, la coppia che si ama corre sempre il rischio di un
rispecchiamento esclusivamente narcisistico (“non è affatto tenero l'intruso
che abita la mente degli innamorati, vincitore su tutti i tavoli
dell'illusione” (l'intruso pag.39). A differenza della totale mancanza
di speranza di Pessoa, però, in Bonifacio troviamo uno spiraglio, una via verso
un'esistenza senza gli orpelli della ragione: c'è un amore possibile, ed è
quello basato sulla condivisione
affettiva dell'essere nati e del dover morire e, nel mezzo, del cercare di
vivere.
Un famoso psicoanalista
inglese, Bollas, nel descrivere la vita dell'uomo, usa due metafore: la prima è
il fato, quella che ci è data e non possiamo in alcun modo cambiare (sono nato
qui, da questa famiglia, sono destinato ad essere bambino poi a crescere e a
invecchiare, a vedere il mio corpo che cambia, che io lo voglia o no, posso
nascere sano o portare in me la croce di
una malattia, e via di seguito); l'altra è il destino, quella che costruiamo
con le nostre mani col solo limite del binario del fato. E, in questo destino,
possiamo sempre scegliere tra l'illusione dell'inganno e il dolore della
verità. Bonifacio ha scelto e noi, che lo leggiamo, scegliamo con lui.
Poche parole per una silloge
potente che spazia tra tutti gli aspetti dell'umano, dai più profondi e
personali alla lucida disamina del mondo che abbiamo intorno e che ci siamo
costruiti. Volendolo o, semplicemente, accettandolo con passiva subordinazione.
Poche parole per un amico, per un letterato che da sempre apprezzo e lui lo sa
bene, per un poeta che – lo dico con estrema fierezza – sono stata la prima a
pubblicare. Mi sono sentita capita come essere umano, in questa lettura, mi sono
sentita non sola, ma insieme nella condivisione della mia condizione di donna
che ha sempre cercato di guardare oltre, al di là dello specchio.
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