sabato 22 agosto 2015

Bonifacio Vincenzi, "Le bambine di Carrol" (Ed. Lierto Colle)

di Mariagrazia Scarnecchia

“Ci son più cose tra cielo e terra, Orazio, di quante ne contempli la tua filosofia”, spiega Amleto al fraterno amico. Sì, sembra voler rispondere Bonifacio, ce ne sono di cose e, prima fra tutte, “l'enigma della venuta e della partenza” , l'enigma degli enigmi, come dire poi il senso della vita. Ma l'uomo da sempre “ignora ad arte” questo enigma, attraverso i “io sono faccio, conosco, dico” (l'enigma, pag. 41). E lo ignora attraverso lo strumento più potente di cui dispone, il pensiero, quel pensiero che può far sentire onnipotenti, che tutto spiega e che tutto almeno potenzialmente risolve; lo fa attraverso la filosofia, il meticoloso cercare di spiegare ciò che all'intelletto può apparire chiaro, ma non riesce a dare nessun sollievo alla parte emozionale di ogni essere umano. Perché nessun uomo è mero intelletto. Proprio così, Orazio.
E noi, tanti Orazio in cerca di risposte ai nostri perché, ci avviciniamo all'opera del poeta con un bisogno forte di sentirci umani e compresi, di condividere le domande, le paure, le emozioni che la poesia sa risvegliare in ognuno di noi. Senza sovrastrutture intellettuali, senza sofismi né infingimenti. Con la parte più profonda e più vera di noi: col nostro intimo.
Ma, per farlo, ci ammonisce Bonifacio Vincenzi, occorre attraversare lo specchio, diventare in qualche modo Alice, un'Alice curiosa di ciò che riempie lo spazio tra la venuta e la partenza, di ciò che chiamiamo vita, quella vera, fatta di pensiero ma anche di emozione. “Attenti alle bambine di Carroll, ci ammonisce il poeta, portano sempre di là dallo specchio” (le bambine di Carrol, pag.21).
E qui, una volta che si sia passati dall'altra parte dello specchio, la verità non si può più nascondere. Ed è una verità cupa, a tratti disperata ma comunque sempre lucida, quella del nostro poeta. Una verità che ci parla della facilità della discesa – la via facile che fa comportare l'uomo come se fosse immortale, che ne esalta l'onnipotenza a prezzo di fuggire da tutto ciò che è  consapevolezza dei propri limiti, ma che ci parla anche della fatica della salita, quella che rende consapevoli che il proprio cammino ha avuto un inizio e avrà una fine (nessuno sceglie la salita, pag.13). Una verità che non lascia spazio alla finzione, che mette ogni individuo di fronte alla cruda realtà di ciò che è e di ciò che fa, un individuo che, anche quando ama, (non abbiamo sempre pensato che l'amore sia l'unica salvezza?) in fondo tende a vedere solo se stesso.
Vengono in mente le parole di Pessoa: ...”non amiamo mai nessuno. Amiamo solo l'idea che ci facciamo di qualcuno. E' un concetto nostro quello che amiamo. Insomma, amiamo noi stessi....” (il libro dell'inquietudine, pag.86).
Come per Pessoa anche per Bonifacio Vincenzi  l'amore ha sempre un implicito anti-amore, la coppia che si ama corre sempre il rischio di un rispecchiamento esclusivamente narcisistico (“non è affatto tenero l'intruso che abita la mente degli innamorati, vincitore su tutti i tavoli dell'illusione” (l'intruso pag.39). A differenza della totale mancanza di speranza di Pessoa, però, in Bonifacio troviamo uno spiraglio, una via verso un'esistenza senza gli orpelli della ragione: c'è un amore possibile, ed è quello basato sulla  condivisione affettiva dell'essere nati e del dover morire e, nel mezzo, del cercare di vivere.
Un famoso psicoanalista inglese, Bollas, nel descrivere la vita dell'uomo, usa due metafore: la prima è il fato, quella che ci è data e non possiamo in alcun modo cambiare (sono nato qui, da questa famiglia, sono destinato ad essere bambino poi a crescere e a invecchiare, a vedere il mio corpo che cambia, che io lo voglia o no, posso nascere  sano o portare in me la croce di una malattia, e via di seguito); l'altra è il destino, quella che costruiamo con le nostre mani col solo limite del binario del fato. E, in questo destino, possiamo sempre scegliere tra l'illusione dell'inganno e il dolore della verità. Bonifacio ha scelto e noi, che lo leggiamo, scegliamo con lui.
Poche parole per una silloge potente che spazia tra tutti gli aspetti dell'umano, dai più profondi e personali alla lucida disamina del mondo che abbiamo intorno e che ci siamo costruiti. Volendolo o, semplicemente, accettandolo con passiva subordinazione. Poche parole per un amico, per un letterato che da sempre apprezzo e lui lo sa bene, per un poeta che – lo dico con estrema fierezza – sono stata la prima a pubblicare. Mi sono sentita capita come essere umano, in questa lettura, mi sono sentita non sola, ma insieme nella condivisione della mia condizione di donna che ha sempre cercato di guardare oltre, al di là dello specchio. 

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