domenica 23 agosto 2015

Come sopravvivere in un mondo che ha rifiutato Dio

di Domenico Bonvegna

Ogni anno scelgo qualche libro da leggere in spiaggia, dopo aver completato la lettura di “Re bomba”. Ferdinando II, il Borbone di Napoli che per primo lottò contro l’unità d’Italia”, di Giuseppe Campolieti, Arnoldo Mondadori (2001), ho letto il volumetto “Il Pianeta delle scimmie”, sottotitolo, “Manuale di sopravvivenza in un mondo che ha rifiutato Dio”, pubblicato da Piemme (2008), già dal titolo, il testoincoraggia la lettura. E’ stato scritto a quattro mani da Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, quest’ultimo scomparso l’anno scorso per un male incurabile. Il testo è suddiviso in cinque parti, per ogni parte, gli autori, hanno selezionato dei temi. Così ognuno potrà scegliere più o meno cosa leggere. Gli autori raccontano le avventure di un certo Mario Rossi, un abitante di un pianeta immaginario chiamato Gaia, che guarda caso vive come sulla terra, il nostro pianeta.
Correre sempre e mimetizzarsi.
Dalla follia del moto perpetuo, dove si è costretti a correre in continuazione, “se si vuole rimanere a galla nella cosiddetta civiltà moderna, bisogna arrivare prima degli altri. Bisogna arrivare prima dei concorrenti, prima dei colleghi, prima degli amici, prima dei familiari, prima di tutti”. Con questo velocità o modo di fare alla fine si è disperati, senza sapere perché. Si passa a una società dove si è costretti a mimetizzarsi. E’ strano vivere nel mondo di Gaia, soprattutto i giovani, camminano e si vestono in modo strano, le ragazze con l’ombelico di fuori anche se fa freddo. Gli abitanti di Gaia ricordano i pirati del Borneo: uomini e donne portano orecchini e si infilano pezzi di ferro nel naso.
Ma il libro a questo punto si sofferma sulla questione dell’abito, della divisa. E prende in esame il prete. Si dice che “l’abito non fa il monaco”, che “l’importante non è la forma ma la sostanza”. Naturalmente gli autori cercano di portare argomenti a favore della talare. Certamente ci sono degli ottimi sacerdoti che celebrano bene la Messa, che pregano come Dio comanda, etc. Ma il punto è un altro per i due giornalisti, una è la questione della “guerra ideologica, a tutto ciò che è forma esteriore”. La seconda è quella che si potrebbe chiamare “la vergogna di farsi riconoscere per ciò che si è”. Allora il testo cerca un po’ di fare la storia di quella gigantesca operazione culturale, in particolare del Sessantotto, iniziata anche prima, di chiara matrice giacobina rivoluzionaria, che voleva distruggere ogni elemento esteriore, simbolo della tradizione e del passato. Invece i nostri antenati sapevano benissimo che forma e sostanza, vanno insieme. Pertanto scrivono gli autori del testo, a proposito del vestito, “mentre tutti intorno a noi riscoprono l’importanza dell’abito, dell’uniforme, della divisa, dell’aspetto esteriore, e perfino di una certa ‘estetica’ dell’apparire; mentre le forze di polizia e i college inglesi, certe multinazionali e i bigliettai dell’azienda municipalizzata(…)Che ti fa il mondo cattolico? Abbandona definitivamente l’abito talare e imbocca spesso la strada della nuova tristanzuola divisa d’ordinanza del prete contemporaneo(…)”.
Un prete, un monaco, che veste la talare si trasforma, quasi quasi si trasfigura, e regala agli occhi della gente che lo incontra qualche cosa di regalmente altro, di straordinariamente misterioso”. E questo, insistono i giornalisti,  interessa anche ai non credenti.
La “pedagogia della chiacchiera”.
A scuola vengono dedicate ore e ore all’”educazione alla legalità”, convegni sulla “cultura della legalità”, si organizzano manifestazioni in cui i giovani sono in prima fila nella ‘rivendicazione della legalità”. In un primo momento sembra tutto a posto, poi ci si accorge che “nonostante il gran parlare di cultura della legalità, tutto è rimasto come prima”. E’ un continuo parlarsi addosso. “Mi pare che il successo di questa operazione – scrivono Gnocchi e Palmaro–venga misurato sulla quantità di persone che parlano di legalità invece che sulla quantità di persone che la praticano.
La nostra società ha rinunciato ad insegnare e ad educare. Sembra che non abbia più bisogno di genitori, di maestri, di tutori dell’ordine, di sacerdoti che incarnino l’autorità e trasmettano un sapere. Ha bisogno soltanto di ‘amici’ con cui scambiare quattro chiacchiere”. In pratica dopo anni di pedagogia della chiacchiera, il risultato è che ci ritroviamo “un uomo sfigurato, regredito a scimmietta ammaestrata pronta a ripetere la lezioncina per il diletto del sapiente di turno”. Non poteva esserci un risultato diverso, poiché la pedagogia della chiacchiera, è figlia di primo letto di un tragico pregiudizio illuminista.Il pregiudizio è quello che l’uomo nasca buono e venga corrotto dalla società, come continuano a predicare i nipotini di Jean-Jacques Rousseau. Pertanto se l’uomo non è il cittadino modello, bisognerà riprogrammarlo attraverso gli opportuni insegnamenti.
Ci sono due modi per riprogrammarlo: “L’ideologia che produce i gulag e i campi di rieducazione comunisti o la pedagogia della chiacchiera che produce bamboccioni debosciati in salsa occidentale”. Il motivo? “Perché la teoria illuminista, tipica di tutta la modernità, nega la più grande evidenza insegnata per duemila anni dal cristianesimo: l’uomo è ferito dal peccato originale. L’uomo non nasce buono per natura, nasce malato”. Tuttavia per riaccendere la fiammella divina che brilla nel cuore di ciascun uomo, secondo i due giornalisti, serva l’”autorità. Servono padri e madri che non facciano gli ‘amici’. Servono maestri che non facciano gli ‘amici’, ma facciano i maestri. Servono i sacerdoti che non facciano gli ‘amici’, ma facciano i sacerdoti”. Gnocchi e Palamaro, insistono, oggi, “servono uomini capaci di mostrare mete faticose e impervie. Servono uomini che non temano di perdere consenso se chiedono sacrificio. Servono uomini capaci di sacrificarsi”. Servono i santi, come il Santo Curato d’Ars, che per convertire i suoi contemporanei, non consigliava bei sermoni o trattati di teologia, consigliava ai suoi confratelli di flaggellarsi. San Giovanni Vianney che trascorreva fino a diciotto ore al giorno in confessionale, chiedeva a Dio: “concedetemi la conversione della mia parrocchia. Io sono disposto a soffrire tutto quello che Voi vorrete, per tutta la durata della mia vita, purchè si convertano” .
Mancano queste persone nel nostro tempo.“In un mondo dove la legalità viene schiacciata sotto i piedi, non servono intellettuali che mostrino quanto sia interessante parlare dell’onestà: servono persone oneste. In un mondo dove impera il mito del ‘tutto subito e senza fatica’, non servono intellettuali che tuonino contro il consumismo: servono uomini capaci di rinunciare a ogni cosa. In un mondo che ha dimenticato Dio, non servono teologi incupiti sull’ennesima interpretazione di un versetto di Osea: serve gente che prega”. Così davanti alla scelta tra l’intellettuale che parla di onestà e la persona onesta, i giovani sceglieranno la persona onesta.

Nessun commento:

Posta un commento