martedì 26 gennaio 2016

Spiragli di luce tra le rovine. I romanzi di Elvira Sciurba e Giovanni Taibi

di Maria Patrizia Allotta

Non tutto è perduto, fortunatamente. Ancora qualcosa si salva tra le rovine letterarie che caratterizzano i nostri giorni.
Infatti, tra l’inchiostro barbaro e le incolte carte, in mezzo alle selvagge pagine e ai banali fogli, insieme ai libri che evidenziano la pochezza e la volgarità di certi tardi pseudi-scrittori che con arroganza si autoprofessano innovatori e con boria si autoproclamano creatori di nuovi stratagemmi stilistici, troviamo ancora pochi Autori che quasi stoicamente resistono all’abbaglio delle false mode letterarie, alla furbizia degli infingimenti, alle novità esageratamente eclatanti del linguaggio, per salvaguardare quel sinolo di forma e sostanza che solo la nostra tradizione letteraria può vantare.
Ed è tra i coraggiosi paladini della cultura senza tempo, tra i guerrieri del sapere arcaico, tra i prodi del patrimonio autoctono che troviamo due figli della Sicilia, ovvero, Elvira Sciurba e Giovanni Taibi, i quali con le loro opere rispettivamente intitolate La silente colpa del peccato e Lame di buio dal passato illuminano i sentieri della buona lettura.
Due narrazioni, che non hanno in comune semplicemente l’essere stati scritti quasi contemporaneamente da due siciliani doc, ma anche la capacità descrittiva dell’ambientazione tipicamente mediterranea che inevitabilmente riconduce alle radici e alle origini dei due Autori, la sofferenza individuale dei protagonisti che si allarga poi in direzione universale, e ancora, l’incomunicabilità tra i personaggi, l’indifferenza fatale e l’incomprensione predestinata che si evidenzia tra loro, e infine, l’affanno persistente, il dubbio lacerante, il dolore perpetuo e la morte considerata quest’ultima non come naturale possibilità ma come liberante necessità dell’essere.
Certamente, non si preoccupano i Nostri di fissare in modo chiaro ed evidente le coordinate spazio-temporali. Per il loro disegno non serve. Le azioni descritte, infatti, si svolgono in un tempo dilatato, quasi a volere dimostrare ai propri lettori che la colpa del peccato - che troppo spesso svilisce l’esistenza umana - e le lame di buio - che sovente deprezzano la stessa vita - non hanno età, non conoscono epoche precise, né stagioni particolari, neppure momenti prescritti. Persistono senza fine, invece, nel teatro dell’eternità, quasi come archè incondizionato, principio irrazionale, inizio assurdo, primordio sconfinato che prima abbraccia e poi stringe fino a soffocare.
E l’arena delle azioni dettate dalle colpe e dalle lame, dal peccato e dal passato è, appunto, l’intero universo che ora si concretizza minuziosamente e consapevolmente nell’opera ampia, articolata, enfatica, della Sciurba la quale s’ispira all’alto magistero del Tasso che della concatenazione strutturale architettata ne fece un gioco autentico privo di ogni registro comico o volgare, ora si delinea globalmente e inconsciamente nel lavoro passionale, essenziale, asciutto, armonioso del Taibi, il quale servendosi della brevità e dell’intensità dell’intreccio raggiunge un perfetto equilibrio.
Non c’è dubbio: entrambe le opere riconducono alle problematiche pirandelliane. Infatti, tanto i personaggi sostanzialmente popolani e umili della Sciurba, quanto i personaggi borghesi e colti di Taibi si muovono in una dimensione ora patetica ora dimessa, afflitta e deposta, quasi malinconica, a volte esageratamente violenta, priva di certezze e senza messaggi apparentemente positivi da trasmettere, ma perché presi da quei conflitti interiori che sfociano poi in indicibili drammi, causati, paradossalmente, da quell’intimità profanata che lo stesso nucleo familiare dona, generando nel tempo, un’irreparabile incomunicabilità.
E chiaramente i Nostri non descrivono la crisi dei rapporti umani, o la rottura in seno alla famiglia, oppure la caduta di ogni ideale semplicemente per rappresentare una società in pieno disfacimento che ha perso ogni riferimento cardinale, magari sperando nell’identificazione del lettore con gli stessi personaggi da Loro raccontati, al contrario, secondo chi adesso scrive, l’intendimento è quello di evitare la diretta assimilazione e, comunque, ogni forma di riflessa complicità, costringerlo semmai il pubblico a riflettere e ripensare criticamente circa i veri significati dell’esistenza andando oltre i luoghi comuni, gli stereotipi e i pregiudizi, le false opinioni e gli inutili moralismi fini a se stessi.
Ecco, allora che il pregio delle due narrazioni sopramenzionate, è dato proprio da quel prezioso rapporto organico tra fantasia, invenzione e riflessione intellettuale, la quale riflessione, ha come ipotetico obiettivo la possibile fuga dalla crisi esistenziale che appare ora sotto forma di snaturamento della personalità ora sotto forma d’incapacità comunicativa ed espressiva, ora come violenza e aggressione ora come irrimediabile caduta di quelle certezze affettive che, invece, necessitano ad ogni singolo, per essere se stesso e avere rapporti continui ed equilibrati con gli altri.
Ma non è tutto. Se nell’opera intitolata La silente colpa del peccato evidente è il richiamo forse inconsapevole alla teoria del dolore e della felicità di Schopenhauer, nell’opera Lame di buio dal passato chiara e costruttiva è l’istanza filosofica che riconduce inevitabilmente al punto zero di Kierkegaard e al nichilismo di Nietzsche.
Alla maniera del filosofo nato a Danzica sembrerebbe, infatti, che per la Sciurba la vita è dolore per essenza.
Nelle sue descrizioni lente tutto soffre. I suoi stessi personaggi, al di là del “breve sogno” e delle inutili “illusione”, risultano soggetti tormentati e angosciati che esistono a patto di sopportarsi gli uni con gli altri. Il pendolo della loro vita oscilla fra il “desiderio” e la “noia” e perfino l’amore “che si impadronisce delle forze e dei pensieri dell’umanità più giovane” è inganno voluto da Cupido “signore degli dèi e degli uomini”.
Fra colpe e peccati l’amore, dunque, così come pure afferma Schopenhauer altro non è se non “due infelicità che si incontrano, due infelicità che si scambiano e una terza infelicità che si prepara (…), infatti, l’unico amore di cui si può tessere l’elogio non è quello generativo dall’eros, ma quello disinteressato della pietà”. E nel testo della scrittrice palermitana nessuna pietà s’intravede, nessuna misericordia, nessuna via di liberazione, e Celeste di nome e di fatto, vera protagonista dello scritto, è frutto di quell’amore che genera solo vergogna, traviamento, tragedia.
Scrive la Sciurba: “(…) sarebbe bastato un normale comportamento amorevole e altruistico, l’uno nei confronti dell’altro per vivere nella normalità della vita. Ognuno invece era stato artefice della rovina dell’unica vita che il cielo dona, sprecandola nel dolore e nell’infelicità generati ogni giorno dalla loro inspiegabile voglia di far male agli altri in nome dell’affermazione del proprio io, un io inutile e diabolico”.
E più avanti “La vita è proprio come un anello: parti dall’origine, giri, giri e poi ritorni sempre al punto di partenza. E lì troverai ciò da cui sei partito e ciò che hai lasciato. Ma se parti dalle macerie è probabile che troverai ceneri. (…) per questo quel pianto non era un pianto liberatorio: era il pianto della disperazione, del dolore, dei rimorsi e della paura.”
Infine: “Quanto avevano sofferto tutti quanti! E quanto male si erano reciprocamente causati! E poi perché? Per nulla. Solo per rancore l’uno contro l’altro, vittime inconsapevoli di un aberrante sistema sociale.”
Bastano queste citazioni, per fare intendere come nell’opera della Sciurba “la volontà di vivere” non segue nessuna apparente logica, né ragione, neppure saggezza, piuttosto la stessa “volontà” è un destino fatale che determina nell’esistenza di ciascun uomo un perenne tendere senza una meta ultima. E poi, in fondo, la morte, senza avere certamente conosciuto la felicità, la quale altro non è se non privazione del dolore.
E’ così per Donna Maria e Vito Colajanni, per Ciccio e Donna Matilde, per Don Totò, Cecilia, e la già menzionata Celeste per i quali il livore, il rancore e l’avversione sono più determinati della remissione, del perdono e della grazia, mentre il silenzio, le colpe e i ricordi sono più forti del grido della gioia, della passione e dell’amore stesso.
E questa gioia, questa passione e questo stesso amore, in modo ancora più drammatico, vengono negate anche ai pochi ma significativi personaggi ideati da Taibi, in quest’opera dal titolo estremamente emblematico, dove è possibile, tra l’altro, rintracciare rare ma sicure tracce e intonazioni autobiografiche, forse inconsciamente dettate.
In Lame di buio dal passato la “volontà di vivere” è ancora più oscura, il dolore più acuto e la morte più incombente. Il passato è veramente silente e le colpe rappresentano affilatissime lame.
L’autore, infatti, raccontando le vicissitudini amorose di Salvatore - diversamente dalla Sciurba che parte da una disamina di stampo sociale per arrivare all’individuale - indaga direttamente sull’interiorità dell’esserCi e sulle sue possibilità, proprio alla maniera di Heidegger e Kierkegaard.
La riflessione dello scrittore di Baucina non riguarda, dunque, l’uomo in generale ma piuttosto “l’esistenza del singolo", dando al termine esistere il giusto significato di existere, ovvero la possibilità per ogni uomo di uscire fuori dall’infinità, per prendere coscienza della propria condizione finita, che è sempre posta all’estremità tra essere e non essere.
E in effetti sia il protagonista che i personaggi dell’opera di Taibi si trovano - in relazione alla propria condizione esistenziale - davanti a illimitate possibilità che necessitano, tuttavia, una sola scelta: da qui la loro instabilità affettiva, l’indecisione tra le alternative eventuali, il dubbio, il forse, la paralisi e, quindi, l’angoscia, la disperazione. Ancora una volta siamo in presenza di un dramma.
Ed è probabilmente la formazione umanistico-filosofica dell’Autore, professore di materie letterarie, a spingerLo a fare tesoro dell’insegnamento kierkegaardiano, secondo il quale: “Chi esce dalla scuola della possibilità ha imparato, meglio di quanto un bambino non abbia imparato il suo abbecedario, che dalla vita non ha assolutamente il diritto di pretendere nulla e che il terrore, la distruzione e la perdizione, abitano uscio ad uscio con ogni uomo”. E questo il Nostro lo sa perfettamente - forse perché sperimentato sulla sua stessa pelle – facendo, per questo, del suo ultimo lavoro letterario un singolare racconto dove le alternative sono inconciliabili e le soluzioni definitive impossibili.
In virtù di quanto detto, tuttavia, è giusto precisare che - alla maniera di Nietzsche - non siamo in presenza di un “nichilismo passivo” ma di un “nichilismo attivo”.
La volontà del Taibi, infatti, sembrerebbe quella di non evidenziare semplicemente (come già detto) la crisi dei valori, la decadenza, la negatività, la solitudine e l’angoscia dell’uomo dettata dalle sue possibilità e dalle eventuali inconciliabilità, ma quella di condividere fino in fondo la logica perversa del nichilismo fino a scoprirne se all’esaurimento di questo diabolico procedimento non si spalanchino all’uomo spazi per una nuova progettualità esistenziale.
In tal senso, il medico Salvatore - che pure crede nella morale collettiva e nei più alti ideali tradizionali - preso dal suo “mal d’amore” che coincide perfettamente col suo “mal di vivere”, non appare ai lettori un nostalgico, né tanto meno un malinconico, neppure un inutile sentimentale fermo al punto 0, ma un eroe, un coraggioso combattente, un oltreuomo capace di affidarsi alle proprie forze per tacitamente generare nuovi sentieri e progettare insoliti orizzonti.
Non soltanto dolore e morte, allora nell’opera di Taibi, ma anche speranza e vita, così come similmente nell’opera della Sciurba.
L’eterna lotta freudiana tra Éros e Thánatos è, infatti, presente sia nell’analitico chiaroscuro di passione-desolazione, odio-amore, realtà-sogno proposto nelle articolate e minuziose 462 pagine racchiuse sotto il titolo di La silente colpa del peccato, edito da Europa edizioni, sia nel contrasto sinteticamente organico e introspettivo presentato nelle 118 pagine ben strutturate, edite da Sergio Cingolani, di Lame di buio dal passato, dove anche i preziosi aforismi che introducono ogni capitolo abilmente rappresentano la continua lotta fra le “pulsioni di vita” e le “pulsioni di morte”.
Ed è proprio in funzione delle pulsioni di vita, che tra l’altro includono quelle dell’autoconservazione, del sesso, del piacere e della bellezza, che entusiasticamente spingono ancora una volta Elvira e Giovanni a donare piccoli frammenti lucenti rintracciabili… tra le rovine letterarie…. che caratterizzano i nostri giorni.
Fortunatamente, non tutto è perduto, almeno in ambito creativo e letterario. 

sabato 16 gennaio 2016

Robert Hugh Benson, "I Necromanti" (Ed. Fede & Cultura)

di Luca Fumagalli

I necromanti (The necromancers), pubblicato nel 1909, a soli due anni di distanza da Il padrone del mondo, è l’unico romanzo della vasta produzione di R. H. Benson ad affrontare in senso critico-apologetico lo spiritismo.
Ambientato tra il 1901 e il 1902, il testo narra la vicenda di Laurie Baxter, ex universitario di Oxford convertito al cattolicesimo e ora tirocinante presso uno studio legale a Londra. La sua carriera sembra orientata al meglio, ma Amy Augent, la promessa sposa, muore improvvisamente e il ragazzo cade in una profonda depressione. Maggie, la sorella adottiva, cerca di aiutarlo a sostenere il peso del lutto facendo leva sulla comune appartenenza alla Chiesa di Roma. Nel frattempo Laurie viene a conoscenza di come un certo signor Vincent riesca a evocare le anime dei morti. Preso contatto con la cerchia del celebre occultista, il ragazzo partecipa ad alcune sedute giungendo in un’occasione a materializzare l’amata. Assaporata, anche se solo per un istante, la gioia di rivedere Mary, Laurie dedica tutto se stesso allo spiritismo e abbandona la pratica cristiana. Ma tutto questo ha un prezzo: tornato a casa alla vigilia di Pasqua per trascorrere le vacanze in famiglia, il giovane è chiaramente mutato; taciturno e apatico, il suo volto mostra i segni di quella creatura demoniaca che si sta lentamente impossessando di lui. Maggie, resasi conto del pericolo che corre Laurie, è costretta dalle circostanze a ingaggiare una disperata battaglia contro le forze del male potendo contare solo sull’amore che prova per il fratellastro.
I necromanti narra del conflitto tra due mondi inconciliabili – quello della Fede e della magia – che, cortocircuitando, generano i mostri di un romanzo dalle tinte cupe, che non trova paragoni in nessun’altra opera di Benson.
Il tema della narrazione era stato anticipato da alcuni articoli pubblicati dallo scrittore britannico sulle colonne del “Dublin Review”. Affrontando la questione del soprannaturale secondo il punto di vista cattolico, Benson si dichiarava certo dell’esistenza degli spiriti, capaci di incarnarsi o di offrire un’interazione vera e immediata con i vivi.
Sui pericoli dello spiritismo anche la Chiesa si è pronunciata in diversi frangenti, a partire dalla costituzione Coeli et terra Creator di Sisto V, emanata nel 1585. Le condanne si sono susseguite nel corso dei secoli e, tra l’altro, sia nel Vecchio che nel Nuovo Testamento si possono trovare conferme in tal senso.
La Chiesa non nega in via teorica la possibilità di mettersi in contatto con i defunti attraverso pratiche magiche. Il vero problema non sono gli inganni dai ciarlatani, quanto capire che dietro tali azioni si cela il desiderio compiaciuto dell’autodivinizzazione e, non meno importante, il rischio di perdere l’anima: «Il cristianesimo definiva beati coloro che, pur non avendo visto, credevano. Lo spiritismo sosteneva che l’unica credenza ragionevole era quella che nasceva dopo aver visto». Non a caso, dopo aver istruito Laurie sulla pratica dell’evocazione, il signor Vincent schernisce la devozione cristiana: «Ciò che chiamiamo preghiera è, in realtà, un tributo che la nostra immaginazione paga alla debolezza della nostra natura umana. Segua la via più breve. Imponga la sua … la sua unicità». La via breve ipotizzata dallo spiritista è quella che conduce al deperimento fisico e mentale, alla negazione di sé e alla dannazione eterna.
Lo spiritismo era approdato in Inghilterra a metà del XIX secolo, quando dall’America giunsero alcuni famosi medium come le sorelle Fox. Il termine venne coniato da Allan Kardec che nel volume Il libro degli spiritine elaborò per la prima volta una dottrina sistematica. Lo spiritismo divenne presto un fenomeno di moda, un’opportunità per sfuggire al ferreo razionalismo dell’età vittoriana, stemperando le tensioni sociali e liberandosi dalle repressioni morali. Proprio per queste ragioni chi partecipava alle sedute non era interessato alla veridicità della natura paranormale del fenomeno, ma cercava più semplicemente lo stupore, l’evasione dalla banalità del quotidiano.
Gli incontri, che spesso si tenevano nei salotti dell’alta società, avevano come scopo quello di evocare lo spirito di un defunto. La stanza era preventivamente purificata con l’incenso e, per aiutare la concentrazione dei convenuti, luci soffuse e candele completavano l’atmosfera. La seduta era guidata da un capogruppo, un medium capace di mettersi in contatto con il mondo degli spiriti, mentre tutti gli avvenimenti erano registrati da un segretario. Non rara era anche la presenza di un medico, pronto a intervenire in caso di necessità.
Tra gli eredi e i continuatori dell’opera di Allan Kardec figura Arthur Conan Doyle, narratore e saggista, celebre per aver creato il personaggio di Sherlock Holmes, l’investigatore emblema del positivismo ottocentesco. L’incontro con lo spiritismo fu per Conan Doyle l’occasione per liberarsi dalla depressione che lo aveva colpito nei primi anni del XX secolo a causa della morte, nel giro di pochi anni, della moglie, del fratello e di altri membri della famiglia. Ben presto, in aperto contrasto con il mondo accademico del tempo, dedicò al fenomeno un romanzo, Il paese delle nebbie, e un importante studio, The History of Spiritualism, scritto e pubblicato nel 1926; a esso seguirono altri opuscoli di minore importanza sul tema della psicologia, dell’esistenza delle fate e dei presunti poteri soprannaturali di Hudini, leggendario mago americano e amico personale dello scrittore.
Queste, in sintesi, le coordinate entro cui si muove la polemica contenuta nelle pagine de I necromanti. Secondo Benson lo spiritismo può compromettere l’integrità fisica e morale di coloro che vi si accostano imprudentemente. Il pericolo della follia non è solo uno spauracchio per allontanare ingenui curiosi, ma il dramma reale di chi ha osato stuzzicare il demonio: «Lady Laura rimase in silenzio. Non era soddisfatta. Di recente si era imbattuta in uno o due casi penosi. Una ragazza molto promettente, figlia di un gestore di un pub dei sobborghi, aveva sviluppato lo stesso tipo di poteri e tutto si era concluso con una scenata terribile in Baker Street. Ora era ricoverata in un manicomio. Anche una sua amica aveva iniziato di recente a tenere delle conferenze contro il cristianesimo usando parole molto inopportune».
D’altro canto anche il signor Vincent «era conscio che questo processo presentava dei rischi» e, esattamente come accade a Laurie, «aveva visto spesso venir meno il senso etico e indebolirsi i poteri della mente».
Il giovane Baxter vive infatti nell’inganno di trovare consolazione nelle pratiche spiritiche. Pensa ingenuamente di poter resuscitare Amy facendo affidamento unicamente sulle proprie facoltà. Non solo lo sforzo è destinato a fallire – la promessa sposa si incarna solo per momenti limitati, restituendo tutt’al più un simulacro della vita reale – ma compromette anche la salute del giovane e, soprattutto, l’integrità della sua anima. Laurie si nutre di un amore egoistico, si rifiuta di scorgere nella tragedia i segni della Provvidenza; reso cieco dalla disperazione, pretende di aver ragione della natura, non rendendosi conto di essersi infilato in una spirale autodistruttiva.
Fortunatamente per lui sulla via della perdizione si affaccia Maggie. Intenzionata a salvare l’anima dell’amato, aiuta Laurie con l’apporto indispensabile del signor Catcarth, l’unico che, da ex spiritista, prende sul serio i rischi dell’occultismo: «Oh, è davvero reale. […] È proprio questo il pericolo» .
Di contro padre Mahon, il parroco locale, tratta la fanciulla con sufficienza a causa di una buona dose di scetticismo e vigliaccheria: «Non ho quasi mai incontrato un prete che prenda sul serio queste cose. In teoria, sì, ovviamente; ma non praticamente. […] E nel peggiore dei casi resta sempre il fatto che i sacerdoti hanno un enorme potere, se solo se ne rendessero conto». Il sacerdote è incapace anche solo di pensare alla possibilità di un contatto diretto tra il diavolo e l’uomo. Quando Maggie lo consulta sui pericoli dello spiritismo, l’unica risposta che ottiene è un poco rassicurante «Non credere che in tutto ci sia il diavolo» .
La polemica contro certa superficialità cattolica innanzi a questioni tanto spinose continua quando, più avanti, il signor Vincent parla con Morton, l’avvocato presso cui lavora Laurie: «Mio caro amico, ovviamente i cattolici non ci credono. Nemmeno uno su mille. Vorrei che le prendessero sul serio. È proprio questo il punto. Ma ci ridono sopra, ci ridono sopra!» .
Anche l’anziana signora Baxter, arroccata nel suo formalismo anglicano, tratta l’intera faccenda con una preoccupante leggerezza. La fede per lei inizia e termina con i libri e le convenzioni sociali, tutto il resto è irrazionale, fantasia, un magma di superstizioni appartenenti al passato che nel mondo moderno non hanno più diritto di cittadinanza: «La religione era per questa signora quel che il giardinaggio era per Meggie, salvo ovviamente il fatto che era assai importante, mentre il giardinaggio non lo era. Spesso si meravigliava che Maggie sembrasse non comprendere: ovviamente andava a messa ogni mattino, cara ragazza; ma di certo la religione era più di questo; uno dovrebbe poter rimanere due o tre ore su di un libro nel salotto, davanti al fuoco, con una matita d’argento».
Maggie si trova dunque sola contro il male che ha preso possesso di Laurie, «due anime combattevano con un nemico dalla forza sconosciuta e dai poteri inimmaginabili». Alla ragazza, che sta soccombendo sotto i colpi del demonio, in un ultimo e disperato tentativo non resta che invocare il nome di Cristo, di colui che con il proprio sacrificio ha redento l’umanità e sconfitto la morte. Davanti alla gratuità di un amore così alto e generoso, Satana crolla miseramente.
La mattina seguente Maggie osserva Laurie. Stremata, contempla con gioia il suo innamorato, finalmente libero dalla possessione e ritornato pienamente in sé: «Allora la donna parlò. “É Pasqua Laurie”» .

venerdì 15 gennaio 2016

Giorgio Barberi Squarotti, "Le avventure dell'anima 1998-2013" (Ed. Thule)

di Rossella Cerniglia

L'ultimo libro di Giorgio Barberi Squarotti ha avuto una straordinaria esegesi nella prefazione accorta, puntuale, penetrante di Vanessa Ambrosecchio che ha saputo così bene coglierne l'essenza  al punto da far apparire scontato e superfluo ogni altro intervento interpretativo. 
Mi limiterò, pertanto, da semplice lettrice e ammiratrice dei suoi versi, a registrare qualche impressione, testimoniando così l'empito, sorto spontaneo in me, di fronte alla bellezza e all'alta cifra della sua poesia. 
   In essa, il mondo che ci è dato non è che un'avventura che si perpetua nella nostra anima, continuando l'opera divina della Creazione. Vita che da sé ricrea nuova vita, connotando tutte le peripezie e i trastulli dell'anima: scompiglio e gioco in cui le tessere mulinano nel vento per essere ricomposte in nuovo ordine, mutando la topografia dello spazio reale in spazio dell'anima, in geografie nuove in cui si collocano esseri e situazioni che attingono alla realtà e la superano con quell'ironia lieve che sottende la finzione, in un gioco che si apparenta al gioco dell'Eterno Creatore. In questa nuova vita, situazioni e paesaggi acquistano quella levità astratta che li eleva al rango di emblema e paradigma, e anche i personaggi e la fisionomia delle storie diventano, nell'ironia che le accompagna, in qualche modo allegorici, come se avessero a riferimento una significazione altra, rintracciabile tra le pieghe di uno scenario che allusivamente mostra e cela, e volutamente dice nascondendo: gioco che mirabilmente riproduce la presenzialità del reale e ne condensa la stessa gnoseologia. 
L'impressione è quella di addentrarci in un quadro o di procedere dentro a un palcoscenico che d'emblée si apra in una faglia della realtà, in un varco o nicchia riposta, permettendo al lettore di intrufolarsi nella realtà riplasmata per assistere, in presa diretta, alla finzione. Nel quadro -o palcoscenico- nel quale si è trasportati si disegnano i personaggi di un mondo immateriale, ma dal carattere spiccatamente iconico, che li fa rappresentativi di una realtà sempre ambigua ed inquietante.  Così, la ragazza nuda che ritorna in molti versi, rappresenta, nella sua icasticità ed emblematicità,   “la pienezza qui, in terra,/ della bellezza che è, in cielo, la Rosa/ che non muta.” e, in altro luogo di questo straordinario poema è detta “la più pura e intatta/magnificenza delle donne antiche/e future,” ed è visione paradisiaca, un annuncio che quasi schiude la visione dell'Oltre, e un innamoramento della vita, il filo che conduce e lega le molteplici trame dell'essere, visione-presenza che dà ristoro ad anima e senso: “Sulla spalla sentì, lieve, una mano:/ il soffio di una voce, una ragazza,/liscia la pelle nuda a ristorare/ il suo corpo brullo (...)“  Così è per la figura del vecchio, fragile e assorto, ai margini della stessa vita, agli antipodi dell'emblema di letizia e splendore che è la ragazza. L'uno contemplazione e ormai distacco dalla realtà, l'altra la vita stessa: gioiosità e pienezza dell'essere nel suo farsi. Così, è per altre figure, come quella del giovane che, talvolta, zoppica o mostra una ferita.
Messaggio tutto che, nella sua cifra più intima e alta, pare alludere e rimandare a un piano superiore di realtà come è, per esempio, negli ultimi versi di “Dicevano che era una strega”, dove “le stoviglie preziose, / le posate d'argento, il pane e il vino,”  disposte sulla tavola, fanno pensare ad una rievocazione del rito cristiano dell'eucaristia, e sul tovagliolo sta “il nome dell'ospite/ che (dicono) è sopra ogni altro nome.” Verso, ed enunciazione perifrastica, presenti anche  in “San Martino, estate”. Vi sono, poi, altri rimandi che testimoniano come l'assunto e la tessitura del libro trovino nei versi stessi una definizione e una misura programmatica: ad esempio, in “Autoritratto”: “non importa se sono solo immagini,/ se così io moltiplico il mio tempo/ e anche la vostra vita. (...)”; e nello stesso testo, alla fine: “troppa è la vita, e più ancora è l'arte/ che è di Dio nepote.”

domenica 10 gennaio 2016

Francesca Paci, "Dove muoiono i cristiani" (Ed. Mondadori)

I Cristiani perseguitati in un silenzio vergognoso
di Domenico Bonvegna

Ancora una volta il Papa, nel giorno del protomartire Santo Stefano è costretto a ricordare ai troppi distratti dal consumismo natalizio che i cristiani in tutto il mondo sono i più perseguitati. Lo ha fatto all'Angelus del 26 dicembre Papa Francesco in Piazza S. Pietro, ricordando i “tantissimi martiri di oggi”, i cristiani perseguitati, che sono “purtroppo tantissimi – che come santo Stefano subiscono persecuzioni in nome della fede, i nostri tanti martiri di oggi”. Ma “c’è un aspetto particolare, nell’odierno racconto degli Atti degli Apostoli, che avvicina santo Stefano al Signore. È il suo perdono prima di morire lapidato”. Così come hanno fatto gli oltre 1545 religiosi assassinati in odium fidae dai miliziani anarcocomunisti prima e durante la Guerra Civile spagnola.
Casualmente in questi giorni mi è capitato di leggere un libretto scritto da Francesca Paci, “Dove i cristiani muoiono”, edito da Mondadori. Il libro è datato, è stato scritto quattro anni fa, ma è sempre attuale, perché le storie che racconta la giornalista de “La Stampa”, si ripetono sempre, sono molto simili a quelle che i cristiani stanno affrontando in queste ore.“Avrei voluto raccontare mille storie”-scrive la Paci -, ma ho dovuto scegliere e ho privilegiato quelle che conoscevo per averne incontrato i protagonisti e verificato le difficoltà”. Il testo ben documentato racconta la persecuzione dei cristiani in Iraq, Egitto, in Palestina, in Indonesia, nell'Orissa, ma anche nella Corea del Nord, in Somalia, in Nigeria. Restano esclusi alcuni Paesi.
Naturalmente anche nel 2011, i cristiani soffrivano maggiormente in Medio Oriente, per esempio nell'Iraq, che aveva visto l'esercito americano affrontare la dittatura di Saddam Hussein e poi il difficile dopoguerra contro le varie milizie islamofondamentaliste che si contendono il Paese. Ancora non era iniziata la guerra in Siria, ma già si poteva paventare lo scontro. In tanti si sono scandalizzati, perché solo nel 2015 c'è stato oltre 1 milione di profughi e immigrati, che in tutti i modi hanno raggiunto il continente europeo.
Lo scandalo si dissolve se abbiamo tempo e voglia di leggere non solo il testo della Paci, ma anche tutti gli altri libri e articoli che lei ha citato nella nutrita bibliografia, alla fine del suo testo. Ci sono decine e decine di giornalisti, storici ed esperti di tutto il mondo che da tempo hanno affrontato la questione persecuzione e quindi la diaspora dei cristiani, soprattutto dal Medio Oriente. Basta leggere alcuni titoli: “Chiesa d'Oriente assediata”, “Rischiamo un secolo di martirio cristiano”, “Iraq, caccia al cristiano”, “L'ONU: vogliono distruggere tutta la comunità di fedeli”, “I cristiani e il Medio Oriente. La grande fuga”, “Baghdad, strage nelle case dei cristiani”, “Perché i cristiani vengono massacrati nei paesi islamici?”, e tanti altri, io ho citato soltanto alcuni titoli in italiano.
Francesca Paci inizia la sua esposizione con l'esperienza di Fatima, una ragazza di 28 anni, che era presente, il 31 ottobre 2010, nella chiesa di Nostra Signora della Salvezza a Baghdad, quando “i terroristi spalancano il portone sparando dappertutto, c'è un'esplosione all'altezza dell'abside, uno salta in piedi sull'altare, ringrazia Allah, abbatte il crocefisso. Sono a volte scoperto, giovanissimi, con un filo di barba appena accennato, indossano la divisa della polizia irachena e la cintura esplosiva. Mi butto a terra e cerco di capire da che parte strisciare per proteggermi. Padre Wasim, il confessore, prova a fermarli e un ragazzo gli spara alla pancia [...]C'è odore di sangue, mi cola addosso dalla panca sotto cui mi nascondo e si mescola al mio, i vetri delle lampade distrutte dalle bombe a mano mi hanno ferita alla testa e alle gambe […] I terroristi invocano Allahu Akbar, Allah è grande, e ripetono che andranno in paradiso mentre noi bruceremo all'inferno […] Sembrano invasati ma completamente sereni. Uccidono con freddezza, ne vedo uno che probabilmente non ha neppure quindici anni. Continua il racconto Fatima, in realtà uguale a tutti gli altri attentati, penso ai poveri giovani del Bataclan,“Ad un certo punto, al tramonto, si mettono a pregare, alcuni si inginocchiano verso la Mecca mentre gli altri fanno il giro dei corpi per controllare chi respira ancora e dargli il colpo di grazia. Mi fingo morta, devo stare immobile, trattenere il fiato,penso ai miei genitori, ai fratelli, alle sorelle, ai nipotini che mi aspettano a casa, se qualcuno qui si accorge che sono viva non li vedrò mai più”.
Quello di Fatima è un classico attentato terroristico barbaramente perpetrato da uomini che potrebbero far parte di una qualsiasi organizzazione terroristica islamica.
In Iraq prima usavano le auto esplosive, ora entrano dentro le chiese e prendono in ostaggio le persone per fare più morti.
I cristiani, secondo la think tank americana Pew, rappresentano il 70% delle vittime dell'odio religioso, “il Medio Oriente convive  con i genocidi dall'VIII secolo, spiegava Herman Vahramian, il grande intellettuale armeno, “secondo l'ipotesi di Vahramian, all'origine della diffusa rassegnazione allo stermino di massa percepibile nella regione ci sarebbe l'immaginario collettivo segnato dalle migliaia di torri di crani umani innalzate da Tamerlano sul suo vastissimo impero”.
La Paci oltre a raccontare esperienze di persone che hanno subito le persecuzioni, fa riferimento alle varie e complesse questioni aperte del Medio Oriente, come quella della guerra statunitense al terrorismo, dopo l'attentato dell'11 settembre. Il fondamentalismo islamico non si è fermato, anzi ha ripreso il suo folle progetto di conquista di quei Paesi, troppo corrotti e filooccidentali, che praticamente sono diventati sempre più deboli. In mezzo a questa guerra, i cristiani diventano il capro espiatorio, vengono stritolati, perché sono i più indifesi e abbandonati. “Ci saranno ancora dei cristiani in Medio Oriente nel terzo millennio?”, si chiedeva il diplomatico francese Jean Pierre Valognes nel voluminoso Vie et mort des chretiens d'Orient, pubblicato nel 1994. Una domanda che a distanza suona profetica. E pensare che i cristiani “erano lì prima dell'islam e hanno plasmato le società arabe, i chirurghi e i medici del califfo erano cristiani...”, ricorda l'islamologo padre Samir Khalil Samir.
Sembrava che con il crollo del Muro di Berlino, nel 1989, la Storia sarebbe finita, ci eravamo illusi che la sconfitta della peggiore delle ideologie potesse significare l’inizio di un nuovo mondo, mentre la globalizzazione e la democrazia liberale dovevano prevalere nel mondo, invece, secondo Valognes, la vicenda dei cristiani in Medio Oriente,“una delle battaglie più lunghe della Storia è in procinto di essere persa”.
Ma perché tutto questo pessimismo sui cristiani? Rispondo con le parole della giornalista de La Stampa, “L'audience globale, come spesso di fronte a massacri così vicini seppur così lontani, sta a guardare. Se da una parte la circolazione in tempo reale dell'informazione telematica rende impossibile chiudere gli occhi davanti allo smembramento di una civiltà che procede ormai a ritmi serrati, dall'altra produce una certa dose di assuefazione, un'abitudine alla notizia soprattutto se non facilmente catalogabile con un'etichetta ideologica”. Citando lo scrittore francese Renè Guitton, si afferma che il genocidio dei cristiani in Medio Oriente, viene seguito dall'opinione pubblica europea distrattamente. In realtà questo accade perché “il caso dei cristiani asserragliati al di là del Mediterraneo, [non rientrano] nelle categorie tradizionali destra-sinistra, poveri-ricchi, laici-religiosi. La caccia ai cristiani, insomma, indigna meno di altre ingiustizie”. Intanto sempre Guitton nota: “una doppia dimenticanza. In primo luogo, essendo maggioritario in Occidente, il cristianesimo sembra non poter aspirare allo status di minoranza in Oriente. D'altro canto si obietta che trasformare i cristiani orientali in protetti dell'Occidente potrebbe esporli a rischi ancor più seri”. Per concludere, il risultato di tutta questa faccenda, del resto lo ha sottolineato lo stesso Papa Francesco, è un“groviglio d'indifferenza e sensi di colpa che si dipana quando l'associazione Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS) diffonde la cifra shock di cinquanta milioni di cristiani perseguitati nel mondo, per poi riattorcigliarsi e perdersi nelle mille brutte storie del mondo grande e terribile”.

sabato 9 gennaio 2016

Rendiconti Critici / 1

Pubblichiamo recensioni e interventi critici sulla raccolta di poesie “Anima all’alba” edito da Thule di Maria Patrizia Allotta, raccolti in un quaderno della nuova serie dal titolo “Rendiconti Critici “ che ospiterà raccolte di articoli a autori o recensioni e saggi su singoli autori non necessariamente pubblicati da Thule. Riportiamo di seguito il recentissimo giudizio espresso dall’autorevolissimo critico letterario Giorgio Barberi Squarotti sul volume della poetessa palermitana: ”Raffinato e luminoso è il lirismo di  Maria Patrizia Allotta,che tende all’essenziale visione statica, alla sentenza commossa e sapiente delle vicende delle stagioni”. 

Angelo Scola, "Non dimentichiamoci di Dio" (Ed. Rizzoli)

L'attualità della difesa della libertà religiosa

di Domenico Bonvegna

Il tema delle persecuzioni religiose soprattutto nei confronti dei cristiani, richiama quello fondamentale della libertà religiosa, che deve diventare libertà realizzata, posta a capo della scala dei diritti fondamentali, senza questa libertà, tutta la scala è destinata a crollare. La libertà di fedi e di culture e politica non è minacciata solo nei Paesi dittatoriali o in quelli a maggioranza musulmana, ma anche nelle società democratiche, plurali. Pertanto la libertà religiosa e culturale si presenta come la più sensibile cartina di tornasole del grado di civiltà delle nostre società odierne.
L'attualità del tema è stato affrontato qualche anno fa dal cardinale Angelo Scola, in occasione di un discorso rivolto alla città di Milano per la festa di Sant'Ambrogio e in particolare anche per 1700 anni del cosiddetto “Editto di Milano”. Ne è nato un agile libretto pubblicato da Rizzoli nel 2013, col titolo: “Non dimentichiamoci di Dio”, sottotitolo: “Libertà di fedi, di culture e politica”. “La questione della libertà religiosa, - scrive il cardinale nella prefazione- intimamente connessa a quella della libertà di coscienza, si rivela oggi cruciale oltre che per lo sviluppo delle società occidentali, anche per l'evoluzione pacifica del loro rapporto con l'Asia, l'Africa e l'America Latina”.
Per il cardinale Scola il XVII centenario dell'Editto di Milano è un'occasione per riflettere in questo mondo tanto travagliato e complesso. Dopo la persecuzione dei cristiani da parte degli imperatori romani, arriva la svolta di Licino e Costantino. L'Editto di Milano del 313, in realtà, rappresenta una svolta epocale, perchè segna l'initium libertatis dell'uomo moderno,“l'alba della libertà religiosa”,“pur nei limiti oggettivi della mentalità del tempo”. Naturalmente perché questa libertà non apparisse un privilegio solo per i cristiani, fu riconosciuta a tutti indistintamente. Così che Eusebio da Cesarea poteva scrivere che, “tutti gli uomini furono quindi liberati dalle angherie dei tiranni e, sollevati dai mali del tempo...”.
Anche se l'Editto, per certi versi, rappresenta un “inizio mancato”, “gli avvenimenti che seguirono, infatti, aprirono una storia lunga e travagliata”, scrive il cardinale Scola. ”Nel rapporto tra Stato e Chiesa insorsero presto due tentazioni reciproche: per lo Stato quella di usare la Chiesa come instrumentum regni e per la Chiesa quella di utilizzare lo Stato come instrumentum salvationis.
Il cardinale nel libro ripercorre per sommi capi, il cammino travagliato della libertà religiosa, fino al Concilio Vaticano II, a San Giovanni Paolo II a papa Benedetto XVI.
Il testo si sofferma sui “nodi” della questione, facendo riferimento sia alle società occidentali che a quelle dove la libertà religiosa e culturale sono violate.
Interessanti le indicazioni storiche come quelle riguardanti il Medioevo, le tesi di  San Tommaso e poi la cosiddetta Riforma Protestante, che paradossalmente ha portato al soggiogamento della religione nei confronti del potere statale. Infatti per Scola, il Protestantesimo,“Lungi dal favorire una ripresa della 'libertà religiosa', conduce a un irrigidimento della commistione tra potere politico e potere religioso che sfocerà nelle guerre di religione”.
Prima della Dignitatis humanae, fa riferimento al Magistero di Pio VI, Gregorio XVI, Pio IX e Leone XIII. Questi Papi, seguendo la lettura del teologo spagnolo Del Pozo, anche se “si opposero al laicismo, alla proclamazione dell'autonomia dell'individuo e della società in relazione a Dio e alla sua Chiesa. Ma non negarono la libertà di cui deve godere l'uomo di fronte allo Stato per cercare la verità su Dio[...]”.
Pertanto con la dichiarazione conciliare, la Dignitatis humanae, si trasferisce il tema della libertà religiosa dalla nozione di verità a quella dei diritti della persona umana. Se l'errore non ha diritti, una persona ha dei diritti anche quando sbaglia. Chiaramente non si tratta di un diritto al cospetto di Dio; è un diritto rispetto ad altre persone, alla comunità e allo Stato”.
Il cardinale si sofferma sul magistero di San Giovanni Paolo II e Benedetto XVI, in particolare di quest'ultimo riporta le parole del 2005 in riguardo al discorso sulla corretta ermeneutica del Concilio Vaticano II, qui Papa Ratzinger tra l'altro scrive, la Chiesa, oltre a trovarsi in sintonia con l'insegnamento di Gesù stesso, si trova con quello dei“Martiri, con i martiri di tutti i tempi. La Chiesa antica, con naturalezza, ha pregato per gli imperatori e per i responsabili politici considerando questo un suo dovere (cfr. 1 Tm 2,2); ma, mentre pregava per gli imperatori, ha invece rifiutato di adorarli, e con ciò ha respinto chiaramente la religione di Stato. I martiri della Chiesa primitiva sono morti per la loro fede in quel Dio che si era rivelato in Gesù Cristo, e proprio così sono morti anche per la libertà di coscienza e per la libertà di professione della propria fede- una professione che da nessuno Stato può essere imposta [...]”.
Al 4° capitolo il cardinale si occupa della persecuzione violenta su base religiosa in diversi Paesi del mondo, affermando che “parlare oggi di libertà religiosa significa affrontare un'emergenza che va sempre più assumendo un carattere globale”. Monsignor Scola auspica che nei Paesi dove prevale la religione di Stato, dove ancora non si è scoperto il valore dell'aconfessionalità dello Stato, si cominci a promuovere e a incoraggiare il pluralismo religioso e l'apertura a tutte le espressioni religiose, cominciando con l'abrogare le leggi che puniscono anche penalmente la blasfemia”. Come in Pakistan, dove la povera Asia Bibi ancora marcisce in carcere duro.
Il cardinale nel suo studio, cita l'associazione Aiuto alla Chiesa che Soffre (ACS), che ogni anno stila un Rapporto sull'enorme quantità di violazione dei diritti umani e della libertà religiosa nel mondo. Inoltre il testo affronta altre questioni legate sempre alla libertà religiosa, come quelle del cosiddetto Stato laico e neutrale, di fronte alle opzioni religiose. In particolare monsignor Scola si riferisce al modello francese della laicitè, che spesso impone vincoli alla religione e nello stesso tempo fa aumentare i conflitti sia religiosi che sociali. Un altro nodo da affrontare è quello del giudizio morale sulle leggi che questi Stati applicano. Infine il cardinale auspica una sana laicità dello Stato, o “aconfessionalità” effettiva, “in cui lo Stato non faccia propria nessuna delle identità culturali, degli interessi, delle aspettative dei soggetti che abitano la società, ma invece apra e renda equamente praticabile a tutti i soggetti civili lo spazio pubblico del confronto e della deliberazione”. E qui Scola tende per la soluzione “anglosassone”, in particolare quella americana, dove le diverse identità entrano in comunicazione in una leale dialettica di riconoscimento e anche di competizione, regolata dal potere pubblico.


venerdì 8 gennaio 2016

Giulio Alfano, "Falangismo e Fascismo" (Ed. Solfanelli)

RAFFRONTO FRA DUE REGIMI
di Lino Di Stefano

   In un saggio di non grandi dimensioni, ma denso e significativo – ‘Falangismo e Fascismo’ (Solfanelli, Chieti, 2015) – lo studioso romano Giulio Alfano, cattedratico di Filosofia politica ed Etica politica presso la Facoltà di Filosofia alla Pontificia Università Lateranense – ci fa dono di una bella ricerca mettendo a confronto due note esperienze politiche del Novecento e vale a dire il regime impostosi in Italia nella prima metà del Novecento e quello affermatosi in Spagna più o meno nello stesso periodo, ma di più lunga durata.
   Il sistema iberico, prima dell’avvento di Francisco Franco, fu iniziato, com’è noto, da José Antonio Primo de Rivera come reazione alla vittoria del Fronte popolare nel 1936; a seguito dei gravi disordini, uno dei quali portò alla morte di un esponente del Fronte, per mano di un seguace della Falange, quest’ultima fu messa al bando e il suo capo fu fucilato. Da qui, lo scoppio della guerra civile che vide la vittoria del generale Franco.
   Il quale unificò, organicamente, in una sola formazione, il proprio movimento - la Falange ufficiale – ed altri gruppi minori mercé un programma ricalcante le posizioni più conservatrici del Fascismo di Mussolini e del Cattolicesimo più tradizionalista. In questa maniera, ‘El Movimiento Nacional, osserva Alfano, rimase “l’unico partito politico permesso in Spagna e anche l’unico canale di partecipazione alla vita pubblica di quel paese.
 A questo punto, mentre la Falange basava il proprio progetto sul Sindacalismo popolare, sull’autogestione, sulla nazionalizzazione delle banche, sullo Stato laico - che riconosceva l’importanza del Cattolicesimo - sull’anticomunismo nonché su alcuni rilievi al Corporativismo, il Fascismo italiano, dal suo canto, adottò tali princìpi solo durante il breve periodo della Repubblica sociale.
   L’Italia fascista, comunque, nel 1936, conquistò il suo Impero coloniale, ma l’entrata in guerra, nel ’40, di fianco alla Germania, vanificò, a seguito della sconfitta militare, tutte le conquiste tradotte in realtà, subendo, altresì, molti tagli territoriali; Franco, da parte sua, non facendosi sedurre dalla seconda guerra mondiale, restò al potere fino alla morte avvenuta nel 1975 anche perché appena uscito dalla cruenta guerra civile.
   Chiarisce, al riguardo, Giulio Alfano, d’accordo con altri storici, sottolineando, giustamente, a nostro giudizio, che, in sostanza, il Falangismo non fu altro che franchismo, nel senso, cioè, che esso, parole dell’Autore del libro, “non fu una vera dittatura bensì un regime autoritario e non già totalitario, come invece nel caso del Fascismo italiano. Da qui, la profonda differenza fra i due sistemi politici.
   Nell’ultima parte del suo lavoro, Giulio Alfano ricostruisce le laboriose e complicate vicende che sfociarono nel colpo di Stato del 25 luglio 1943, allorquando, cioè, il Re, terminata la seduta del Gran Consiglio, nominò Capo del Governo il Maresciallo Pietro Badoglio il quale agì pure, in senso contrario allo Statuto.
 Va, inoltre, ricordato che quest’ultimo, scrive lo studioso romano, “ancora nel 1944 (…) era formalmente in vigore e costituiva principio dell’ordinamento giuridico la dichiarazione secondo la quale ‘la Nazione italiana si realizza integralmente nello Stato Fascista’”, senza parlare di altre colossali violazioni messe in atto dal Re e dal suo Primo Ministro.
   Chi intende conoscere i retroscena politici del Fascismo e del Falangismo, non può prescindere dalla breve, ma succosa ricostruzione operata, con precisione, chiarezza e serenità dallo studioso Giulio Alfano.
  
  

   

lunedì 4 gennaio 2016

Giorgio Bàrberi Squarotti, "Le Avventure dell'anima" (Ed. Thule)

di Guglielmo Peralta

     
Le poesie che compongono questa silloge sono state scritte tra il 1998 e il 2013: in un arco di tempo di 15 anni, ma a distanza di 38 e di 53 anni dalla pubblicazione, nel 1960, del saggio "Astrazione e realtà". Ebbene, ritroviamo in questa raccolta quei poli opposti che costituiscono ancora oggi la visione del mondo di Giorgio Bàrberi Squarotti. Tuttavia, si tratta di un'opposizione solo apparente perché i poli suggeriscono la rotondità di una visione che non è solo concezione, interpretazione, astrazione, immagine del mondo ma anche un guardare, un "vedere accanto a sé e fuori di sé quello che è la verità sull'esistenza".[1] In sostanza, il pensiero non si priva della compagnia degli occhi, della loro oggettività, e la vista, a sua volta, si lascia "impressionare" dal pensiero assumendone l'impronta, il taglio, il tratto immaginifico, per cui la realtà appare trasfigurata. Ma ciò che unisce pensiero e sguardo è la letteratura, senza la quale "l'uomo sarebbe meno capace di 'vedere' e di capire sé stesso e il mondo".[2] E il mondo come astrazione e realtà è letteratura, e questa è vita che vuole comprendersi e comprendere; sempre pronta alla lotta, all'avventura, senza mai concedersi interamente al realismo o all'idealismo, all'attrazione o all'astrazione. Perché 'vivere' non è mangiare con gli occhi la realtà, la cui conoscenza non può prescindere dal sogno o immaginazione, e il sogno è questione d'anima, la quale pure deve "avventurarsi" arricchirsi dei nuovi accadimenti, di ciò che è a venire, senza chiudersi in sé o trincerarsi nel passato, ma stando invece al passo col presente e aperta al futuro. "Le avventure dell'anima" sono i percorsi  della vita reale, le sue peregrinazioni e i suoi incontri, il suo stare accanto alle cose, agli oggetti, agli eventi senza doverli assorbire, fagocitare e dissolvere dentro di sé, nella coscienza, anche perché, come ha argomentato Husserl nella sua opera "Idee per una fenomenologia pura", gli oggetti sono di diversa natura rispetto alla coscienza, alla quale, tuttavia, va riconosciuto il diritto di esistere come coscienza d'altro da sé, diritto che essa può esercitare con un atto d'«intenzionalità» che le consenta di prendere posto nel reale senza estromettere da questo la componente del sogno ma, anzi, convivendo con entrambe le realtà per una più completa e vera conoscenza.
      Leggere la realtà non è osservarla come in un fermo immagine, ma renderla dinamica attraverso le proprie esperienze vissute, investendola, arricchendola del tempo trascorso: dei ricordi, delle emozioni, dei sentimenti e delle "astrazioni" che essa stessa offre nel corso della vita. Significa ri-visitarla con la leggerezza che solo l'anima può darle adagiandovi o facendovi scorrere una serie d'immagini, di sogni anche grotteschi, straniati, fantastici, seducenti; mai però del tutto erotici, nonostante: "le due ragazze fradice di pioggia" che "si baciano e si spogliano"[3]; "la ragazza/ appoggiata alla statua dell'Inverno/ (...) bene aperta/ la camicia celeste"[4]; "e venne alacre un vento che la scosse/ tutta, i veli abbrunati le strappò/ di dosso, ed anche la fascia crudele/che le stringeva le mammelle"[5]; "Negli artigli/ delicati teneva la ragazza/ tutta nuda"[6]. In molti altri testi, specie in quelli datati 2013, ricorre l'immagine di fanciulle nude o discinte. Si tratta di "visioni" inserite in un universo poetico e perciò sublimate, trasfigurate, o ridimensionate, attenuate negli aspetti più voluttuosi da un gustoso umorismo e da un tocco leggero d'ironia. L'espressione "la ragazza nuda" è un motivo ricorrente nell'intera raccolta e può considerarsi un segno, un distintivo che può ricondurre al suo Autore (come avviene in presenza di un hápax legómenon che, al contrario, è forma linguistica che compare una sola volta nell'ambito di un testo e ne consente l'attribuzione della paternità). In Squarotti, quell'espressione, anche se non rara, è figura specifica, caratteristica del suo "vocabolario" onirico.
      La realtà, qui, sebbene colta nella sua quotidianità, cessa di essere i luoghi, le cose, i personaggi calati nel presente e nella loro corporeità perché su di essa si distende il velo dei ricordi e le immagini vi scorrono come in un film. E la realtà si fa pellicola attraverso il racconto poetico e tutto si trasfigura e rivive, malinconicamente, nei percorsi dell'anima. La "narrazione" è trasversale a tutta la silloge e procede per epifanie, le quali appartengono alla memoria, sono sue proiezioni, sue rappresentazioni non suscitate dalla memoria involontaria, dagli incontri occasionali con cui la realtà, a volte, ci sorprende, dal venirci incontro delle cose che, d'un tratto, a noi si manifestano rivelandoci nuovi aspetti della loro natura. E queste epifanie, a loro volta, epifanizzano la realtà presente, vi si mescolano e la alterano. Così, in un gioco di rispecchiamenti e sovrapposizioni, autori e personaggi della letteratura, amati da Squarotti, compaiono accanto a personaggi reali. In un testo, qui esemplare, Angelica rivive in Angelina, e Ariosto (non espressamente nominato nella poesia) dialoga col nostro Autore[7]. In un altro testo, personaggi della storia, della mitologia, della Bibbia e del tempo attuale sono compresenti, fanno parte di un medesimo copione su una nuova scena del mondo: "cambiano solo i nomi, non il tempo/ né il teatro e le parti dell'attore/ protagonista"[8]. Passato e presente, sembra dirci Squarotti, "convivono", coesistono in un tempo che è della memoria e della conoscenza ma, ancor prima, della storia universale o dell'anima del mondo, in cui Tutto si ripresenta e si rappresenta. Ed è l'eterno gioco delle parti nella commedia umana o della vita. In "Chi crede", ritorna Gesù, "nel bar di Monforte", nel personaggio "invecchiato, stanco", che, con malcelato fervore, annuncia l'arrivo dell' "amico pescatore in Tànaro", con chiaro riferimento a Pietro. E rivive la misericordiosa Veronica nella figura di Diana, che col suo gesto pietoso asciuga il volto madido di sudore e di lacrime del personaggio, alter ego di Cristo. Mettendo a confronto il passato col presente ci si accorge che i vari aspetti della vita, i suoi accadimenti si ripresentano in un fluire monotono e quasi ossessivo. E questo continuo ritorno, che induce a interrogarci sul senso del tempo, è un movimento necessario perché "continui il mondo". E ciò lascia "stupefatto il Creatore" che, perplesso e disorientato, non può che prendere atto della routine in cui il mondo si eterna: un'eternità, questa, che genera in Lui quel sentimento di stupore che è, al tempo stesso, timore e felicità[9]. Una necessità, a volte, è ritornare con la memoria al passato, alla spensierata fanciullezza per ritrovare il "gioco che solleva il peso/della vita": quella leggerezza che dà il senso e "la speranza/ dell'eterno fluire"; ma il dolce fiume dei ricordi, che scorre placidamente e in cui affluiscono suoni, rumori, musiche, colori e immagini, ritira le sue acque, e le apparizioni che, d'un tratto, si dissolvono "non sono altro/ che ombre della favola scritta dove/ non c'è più da troppo tempo nessuno". E con questo amaro e malinconico risveglio finisce l'incanto dei sensi e il ritorno alla realtà è un sollievo, "il bacio/ vero della rinata vita"[10].
    La memoria immaginaria lega insieme i testi di questa silloge, i quali seguono la caratteristica della poesia/racconto, tipica della poetica pavesiana. Squarotti, come Pavese, concepisce le immagini concretamente, congiunte con l'oggetto, perché solo così esse possono dare rilievo, spessore semantico e identità a fatti e personaggi e non apparire semplicemente come elementi di superficialità e di abbellimento del racconto o della rappresentazione. Ma qui, le immagini sono soprattutto i ricordi, senza i quali la raccolta sarebbe popolata solo da una folla anonima di personaggi e da un insieme di eventi, di cose, di stati d'animo privi di tensione, di pàthos e di quello stile che si raggiunge solo con la conquista dell'immagine poetica da parte della parola quando questa, piuttosto che descrivere un'oggettività mutevole o effimera, si elèva a rappresentare le verità dell'anima, alle quali Squarotti dà qui il nome di "avventure", ma che tanto somigliano alle rêveries, le quali non sono una fuga dalla realtà, ma servono al nostro Poeta per raccontarla, per meglio rappresentarla, per approfondire la conoscenza del proprio essere. A differenza di Proust, che riduce alla soggettività la realtà oggettiva, Squarotti non si lascia catturare dalla soggettività, e, pur non disdegnando l' "astrazione", non cessa di rivolgere lo sguardo alla realtà. Non sempre, però, si riesce a scrivere quello che si vede e si sente. La realtà, spesso, sfugge alle nostre percezioni e allora bisogna ricorrere all'immaginazione per invĕnīre, per trovare ciò che si cela oltre l'apparenza. Ma bisogna inventare "la Parola infinita" per conquistare l'altra immagine e farne il luogo prediletto della scrittura, "dove/ non esiste nessun dove, contro ogni/ ragione e senso"[11] e dove solo è possibile intra-vedere "la luce sfolgorante" della verità che resta, tuttavia, incomprensibile.  
      Come in Pavese, ritroviamo in questa poesia narrativa, accanto a uno stretto autobiografismo espresso dai verbi in prima persona, un più ampio raccontarsi attraverso storie narrate anche in seconda e terza persona e nelle quali si configura la più vasta "biografia" di un'anima. E non mancano testi nei quali sono intercalati versi dialogati, come in "Lavorare stanca". Qui, nelle sezioni: "La terra e la morte" e "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi", c'è un uso insistito della seconda persona: un «tu» che caratterizza e accompagna i due gruppi di poesie che di queste sezioni fanno parte. Anche Squarotti si rivolge a un «tu», il quale, però, ha una connotazione personale che è assente nell'invocazione pavesiana, pure essendo, questa, riferibile alle due donne amate: Bianca Garufi e Constance Dowling raffigurate, l'una, nella prima sezione, con una simbologia di elementi che costituiscono la grande isotopia semantica[12] della terra e della morte, in cui ricorrono i semi: "terra, mare, sassi, campagna, frutto, cielo, luna, collina, canneti, vigna, piante, acqua, cantina, camera buia, roccia, erba, frutto di scoglio, morte, buio, silenzio, dolore, pietra, terra dura"; l'altra, nella seconda sezione, con una isotopia della vita e della morte, i cui semi, molti dei quali ricorrenti lungo la catena sintagmatica dei testi, sono: "alba, luce, occhi, fiato, vento, vita, risveglio, brezza, tepore, respiro, mattino, sangue, carne, capelli, sguardi, terra, piante, riso, acque, zolla, sole, virgulto, cielo, nube, silenzio, morte, sera, insonne, sorda, rimorso, vizio assurdo, vana parola, grido taciuto, nulla, viso morto, labbro chiuso, gorgo". Nella silloge di Bàrberi Squarotti, dietro quel «tu», spesso sottinteso, non sempre c'è un interlocutore, ma vi è una forma impersonale espressa con questo pronome. Un esempio lo troviamo in "Il mulino del Tanaro"[13]. Altre volte il «tu» è una forma di "rispecchiamento", una proiezione dell' io lirico del nostro Poeta o un alter ego con cui egli cerca di superare la sfera della soggettività. E in questa alterità la poetica dell'immaginazione o dell' "astrazione" trova il suo legame e la sua più concreta corrispondenza con la realtà.

[1] G. B. Squarotti, dall'intervista rilasciata a Paolo Di Paolo, in occasione della presentazione del suo saggio, Addio alla poesia del cuore, e pubblicata sul web a cura della Redazione Virtuale di Italia Libri Milano, 11 gennaio 2003
[2] Ibidem
[3] La fuga in Egitto, pag.11
[4] Davanti alla statua dell'Inverno, pag. 13
[5] La sopravvissuta, pag.17
[6] L'aquila, pag.21
[7] Angelina o Angelica, pag. 28        
[8] I nomi, pagg. 26, 27
[9] L'eternità del mondo, pag. 40, 41
[10] Come era il canale, pagg. 47, 48
[11] Da Gemma, pag. 61
[12] Il concetto di isotopia è di A. J. Greimas e s'intende la ricorrenza in un testo dato di semi, o categorie semiche, che gli assicurano omogeneità.
[13] Il mulino del Tanaro, pagg.67, 68

R. H. Benson, J. R. R.Tolkien, W. Golding: i tre “Lord” della letteratura inglese

di Luca Fumagalli

Le letteratura è costruita attorno a un fascio denso di relazioni, citazioni e rimandi. Così come tra le biografie di autori diversissimi tra loro per cultura o sensibilità possono trovarsi corrispondenze più o meno ampie, allo stesso modo nei romanzi è facile imbattersi in quelle che a tutta prima potrebbero essere solo coincidenze, ma che, andando più a fondo, si rivelano come sovrapposizioni significative e ben lontane dalla casualità. Molti esempi potrebbero essere fatti − si pensi al debito storico-culturale che ogni epoca nutre nei confronti delle precedenti − ma tutti i rapporti trovano la radice, il minimo comune denominatore nell’esperienza umana.
Questo è quello che è accaduto a tre grandi scrittori inglesi dell’ultimo secolo, lontani per formazione, ma accumunati da un medesimo problema: indagare con lo strumento della letteratura le origini e gli esiti ultimi del male metafisico che attraversa la storia. R. H. Benson, J. R. R.Tolkien e W. Golding − cattolici i primi due, agnostico di formazione anglicana il terzo − seppero tracciare con singolare efficacia nei loro lavori i tratti luciferini di un mondo preda dell’egoismo e del disordine. Nacquero così tre capolavori, tre famosi “Lord” che ancora oggi sono conosciuti e letti da un grande stuolo di appassionati. A Lord of the World(Il padrone del mondo) di Benson, pubblicato nel 1907, seguirono l’intramontabile classico di Tolkien, The Lord of the Rings (Il signore degli anelli) (1954-’55) e l’altrettanto fortunato, soprattutto in ambito anglosassone, Lord of the Flies (Il signore delle mosche) di Golding, dato alle stampe proprio nel 1954, lo stesso anno in cui uscì il primo volume della trilogia tolkeniana.
Il “signore” a cui si riferiscono tutti è tre i titoli è il diavolo. Se Benson e Golding optarono rispettivamente per una perifrasi di derivazione neo e vetero testamentaria − tra le tante citabili «Non parlerò più a lungo con voi, perché viene il principe del mondo» (Gv 14, 30-31) e «Andate e interrogate Baal-Zebub [letteralmente “il signore delle mosche”], dio di Ekròn» (2Re 1, 2) − Tolkien preferì riferirsi direttamente all’antagonista della sua opera, Sauron, una personificazione del male.
Proiettati verso i recessi dell’anima, attenti indagatori del cuore dell’uomo e delle contraddizioni che lo animano, i tre decisero di ambientare le loro narrazioni lontano dalla contemporaneità: prendere le distanze dal soggetto significava poterlo osservare più chiaramente, nel suo insieme, offrendo, nel medesimo tempo, un’analisi lucida quanto spietata.
Benson, per esempio, in Lord of the World parla di un universo distopico in cui l’ “umanitarismo”, una sorta di religione laica basata sul culto dell’uomo, soppianta il cristianesimo. Alla propaganda anticlericale fa seguito la violenza e la comparsa, nel doppiopetto del politico, dell’Anticristo, colui che tenterà di sferrare l’ultimo e fatale colpo alla Chiesa. Anche Golding si muove nella stessa direzione, ma il mondo futuro devastato dal conflitto atomico incide in piccola parte sulla trama che vede protagonisti alcuni giovani naufraghi, soli e senza adulti su un’isola deserta; i ragazzi, dopo aver tentato inutilmente di stabilire una rudimentale gerarchia di compiti e ruoli, cadono presto vittima degli istinti ferini inaugurando una spaventosa carneficina. The Lord of the Rings, il massimo esponente del genere “fantasy”, colloca la storia in un universo totalmente altro chiamato “Terra di mezzo”. Qui, dopo secoli di quiescenza, il signore oscuro si è risvegliato e brama con i suoi eserciti di riprendere l’anello del potere, l’unico oggetto che gli permetterebbe di sottomettere le genti libere dell’ovest.
A partire dalla presa di coscienza condivisa che il male, lungi dall’essere solo qualcosa di esterno, è parte dell’essere umano − anche un insospettabile come Golding parlava a questo proposito di “peccato originale” − ai tre autori si pose con urgenza la domanda se la malvagità fosse emendabile oppure se le tenebre fossero destinate a trionfare su una realtà inerme e corrotta. Ed è a questo punto che le risposte degli scrittori si differenziano notevolmente. Se in Lord of the World l’Anticristo riesce a conquistare la terra ma è schiacciato dalla seconda venuta del Figlio di Dio − che ha inizio nel momento in cui vengono uccisi gli ultimi cristiani − The Lord of the Rings fa del gesto generoso e disinteressato dei protagonisti l’antidoto per sconfiggere Sauron. Frodo, il portatore dell’anello, e con lui gli altri comprimari, riescono a trionfare nel momento in cui si scoprono capaci di superare limiti ed egoismi, di alzare lo sguardo oltre le maglie della tentazione per assaporare un orizzonte colmo di speranza (il tutto accompagnato da uno sguardo corale rintracciabile anche in Golding e Benson).
Nell’opera di Golding, al contrario, il male e la violenza hanno l’ultima parola. Significativa è la scena conclusiva del romanzo in cui i ragazzi, salvati da un gruppo di soldati, sono ricondotti in un mondo dilaniato dalla guerra, una versione adulta delle sanguinose caccie all’uomo che avvenivano sull’isola. Non esiste Grazia divina o possibilità di redenzione come in Benson e Tolkien; qui, soli con se stessi, i protagonisti vengono lacerati dalla “bestia” che è in loro e di cui non riescono a liberarsi: il “signore delle mosche”, tragicamente rappresentato da una testa di maiale conficcata su un palo, alla fine ottiene la vittoria.
Nonostante le differenze, tra Benson, Tolkien e Golding vi è una profonda analogia, del resto tipica di un certo filone della letteratura britannica novecentesca, costretta a fare i conti con i morti e gli orrori di due guerre mondiali. L’asserzione che il progresso, l’inesorabile avanzare del tempo, corrisponda a una regressione è parte integrante della poetica di tutti e tre gli scrittori. Non si parla solamente di sviluppo materiale e tecnologico, quanto di un’idea storiografica generale per cui, con il passare degli anni, l’umanità è destinata a scendere sempre più negli abissi dell’abiezione e della corruzione morale.
Al di là dei selvaggi moderni dipinti da Golding − che a questo tema dedicò il romanzo The Inheritors (Uomini nudi) − sorprende trovare il paradossale rapporto evoluzione-involuzione anche in lavori caratterizzati da una prospettiva ultimamente positiva come, appunto, Lord of the World e The Lord of the Rings. Nel primo caso il mondo, sempre più lontano dalla Chiesa, abbraccia l’apostasia, mentre nel libro di Tolkien, anche se il bene trionfa, l’epoca degli elfi, il popolo meno corrotto tra quelli che vivono nella Terra di mezzo, è ormai giunta al termine.
La risposta a questa apparente contraddizione si trova nella radice cattolica comune a entrambi gli autori. La Chiesa inglese, dai tempi di Elisabetta, era stata costretta a vivere nella clandestinità e la gerarchia ecclesiastica era stata rispristinata solo a metà del XIX secolo. Obbligati a vestire gli scomodi panni della minoranza perseguitata, i “papisti”, come venivano spregiativamente chiamati dai protestanti, maturarono una sensibilità peculiare rispetto a quella dei cattolici del continente, alieni da condizioni tanto dure. Convinti che la battaglia terrena fosse votata alla sconfitta, pur guardando con fiducia a Cristo anche diversi scrittori si adeguarono a questa vena di fatalismo tragico in temporibus. Non a caso Benson pubblicò numerosi romanzi storici dedicati alle persecuzioni anticattoliche e Tolkien lasciò tra le sue carte diverse annotazioni circa un possibile seguito di The Lord of the Rings in cui il male sarebbe ritornato per l’indolenza dell’uomo.
A prescindere dalle differenze che corrono tra essi, i tre “Lord” della letteratura inglese meritano dunque di essere letti e meditati perché mai come in questi testi l’anima dell’uomo sfibrata dal peccato ha trovato narratori all’altezza, ognuno capace con il proprio portato culturale di affrontare brillantemente un tema spesso dimenticato, eppure di capitale importanza. Per il lettore che avrà il coraggio di affacciarsi sul “cuore di tenebra” dell’umano descritto da R. H. Benson, J. R. R.Tolkien, e W. Golding le sorprese certamente non si faranno attendere.