di Guglielmo Peralta
Leggere la realtà non è osservarla come in un fermo immagine, ma
renderla dinamica attraverso le proprie esperienze vissute, investendola, arricchendola
del tempo trascorso: dei ricordi, delle emozioni, dei sentimenti e delle "astrazioni"
che essa stessa offre nel corso della vita. Significa ri-visitarla con la
leggerezza che solo l'anima può darle adagiandovi o facendovi scorrere una
serie d'immagini, di sogni anche grotteschi, straniati, fantastici, seducenti;
mai però del tutto erotici, nonostante: "le due ragazze fradice di pioggia" che "si baciano e si spogliano"[3];
"la ragazza/ appoggiata alla statua dell'Inverno/
(...) bene aperta/ la camicia celeste"[4];
"e venne alacre un vento che la scosse/ tutta,
i veli abbrunati le strappò/ di dosso, ed anche la fascia crudele/che le
stringeva le mammelle"[5];
"Negli artigli/ delicati teneva la
ragazza/ tutta nuda"[6].
In molti
altri testi, specie in quelli datati 2013, ricorre l'immagine di fanciulle nude
o discinte. Si tratta di "visioni" inserite in un universo poetico e
perciò sublimate, trasfigurate, o ridimensionate, attenuate negli aspetti più
voluttuosi da un gustoso umorismo e da un tocco leggero d'ironia. L'espressione
"la ragazza nuda" è un
motivo ricorrente nell'intera raccolta e può considerarsi un
segno, un distintivo che può ricondurre al suo Autore (come avviene in presenza
di un hápax legómenon che, al
contrario, è forma linguistica che compare una sola volta nell'ambito di un
testo e ne consente l'attribuzione della paternità). In Squarotti, quell'espressione,
anche se non rara, è figura specifica,
caratteristica del suo "vocabolario" onirico.
La realtà, qui, sebbene colta nella sua
quotidianità, cessa di essere i luoghi, le cose, i personaggi calati nel
presente e nella loro corporeità perché su di essa si distende il velo dei
ricordi e le immagini vi scorrono come in un film. E la realtà si fa pellicola
attraverso il racconto poetico e tutto si trasfigura e rivive, malinconicamente,
nei percorsi dell'anima. La "narrazione" è trasversale a tutta la
silloge e procede per epifanie, le quali appartengono alla memoria, sono sue
proiezioni, sue rappresentazioni non suscitate dalla memoria involontaria, dagli
incontri occasionali con cui la realtà, a volte, ci sorprende, dal venirci
incontro delle cose che, d'un tratto, a noi si manifestano rivelandoci nuovi
aspetti della loro natura. E queste epifanie, a loro volta, epifanizzano la realtà
presente, vi si mescolano e la alterano. Così, in un gioco di rispecchiamenti e
sovrapposizioni, autori e personaggi della letteratura, amati da Squarotti,
compaiono accanto a personaggi reali. In un testo, qui esemplare, Angelica
rivive in Angelina, e Ariosto (non espressamente nominato nella poesia) dialoga
col nostro Autore[7].
In un altro testo, personaggi della storia, della mitologia, della Bibbia e del
tempo attuale sono compresenti, fanno parte di un medesimo copione su una nuova
scena del mondo: "cambiano solo i
nomi, non il tempo/ né il teatro e le parti dell'attore/ protagonista"[8].
Passato e presente, sembra dirci Squarotti, "convivono", coesistono
in un tempo che è della memoria e della conoscenza ma, ancor prima, della
storia universale o dell'anima del mondo, in cui Tutto si ripresenta e si
rappresenta. Ed è l'eterno gioco delle parti nella commedia umana o della vita.
In "Chi crede", ritorna Gesù, "nel bar di Monforte", nel personaggio "invecchiato, stanco", che, con
malcelato fervore, annuncia l'arrivo dell' "amico pescatore in Tànaro", con chiaro riferimento a Pietro. E
rivive la misericordiosa Veronica nella figura di Diana, che col suo gesto pietoso
asciuga il volto madido di sudore e di lacrime del personaggio, alter ego di Cristo. Mettendo a
confronto il passato col presente ci si accorge che i vari aspetti della vita,
i suoi accadimenti si ripresentano in un fluire monotono e quasi ossessivo. E
questo continuo ritorno, che induce a interrogarci sul senso del tempo, è un
movimento necessario perché "continui
il mondo". E ciò lascia "stupefatto
il Creatore" che, perplesso e disorientato, non può che prendere atto della
routine in cui il mondo si eterna:
un'eternità, questa, che genera in Lui quel sentimento di stupore che è, al
tempo stesso, timore e felicità[9].
Una necessità, a volte, è ritornare con la memoria al passato, alla spensierata
fanciullezza per ritrovare il "gioco
che solleva il peso/della vita": quella leggerezza che dà il senso e
"la speranza/ dell'eterno fluire";
ma il dolce fiume dei ricordi, che scorre placidamente e in cui affluiscono
suoni, rumori, musiche, colori e immagini, ritira le sue acque, e le
apparizioni che, d'un tratto, si dissolvono "non sono altro/ che ombre della favola scritta dove/ non c'è più da troppo tempo nessuno". E con questo amaro
e malinconico risveglio finisce l'incanto dei sensi e il ritorno alla realtà è un
sollievo, "il bacio/ vero della
rinata vita"[10].
La memoria immaginaria lega insieme i testi
di questa silloge, i quali seguono la caratteristica della poesia/racconto, tipica
della poetica pavesiana. Squarotti, come Pavese, concepisce le immagini concretamente, congiunte con l'oggetto, perché
solo così esse possono dare rilievo, spessore semantico e identità a fatti e
personaggi e non apparire semplicemente come elementi di superficialità e di abbellimento
del racconto o della rappresentazione. Ma qui, le immagini sono soprattutto i
ricordi, senza i quali la raccolta sarebbe popolata solo da una folla anonima
di personaggi e da un insieme di eventi, di cose, di stati d'animo privi di
tensione, di pàthos e di quello stile che si raggiunge solo con la conquista
dell'immagine poetica da parte della parola quando questa, piuttosto che
descrivere un'oggettività mutevole o effimera, si elèva a rappresentare le verità dell'anima, alle quali Squarotti
dà qui il nome di "avventure", ma che tanto somigliano alle rêveries, le quali non sono una fuga dalla
realtà, ma servono al nostro Poeta per raccontarla, per meglio rappresentarla,
per approfondire la conoscenza del proprio essere. A differenza di Proust, che
riduce alla soggettività la realtà oggettiva, Squarotti non si lascia catturare
dalla soggettività, e, pur non disdegnando l' "astrazione", non cessa
di rivolgere lo sguardo alla realtà. Non sempre, però, si riesce a scrivere
quello che si vede e si sente. La realtà, spesso, sfugge alle nostre percezioni
e allora bisogna ricorrere all'immaginazione per invĕnīre, per trovare ciò
che si cela oltre l'apparenza. Ma bisogna inventare "la Parola infinita"
per conquistare l'altra immagine e farne il luogo prediletto della scrittura,
"dove/ non esiste nessun dove, contro ogni/ ragione e senso"[11] e dove solo è possibile intra-vedere "la luce
sfolgorante" della verità che resta, tuttavia, incomprensibile.
Come in Pavese, ritroviamo
in questa poesia narrativa, accanto a uno stretto autobiografismo espresso dai
verbi in prima persona, un più ampio raccontarsi attraverso storie narrate
anche in seconda e terza persona e nelle quali si configura la più vasta
"biografia" di un'anima. E non mancano testi nei quali sono
intercalati versi dialogati, come in "Lavorare stanca". Qui, nelle
sezioni: "La terra e la morte" e "Verrà la morte e avrà i tuoi
occhi", c'è un uso insistito della seconda persona: un «tu» che
caratterizza e accompagna i due gruppi di poesie che di queste sezioni fanno
parte. Anche Squarotti si rivolge a un «tu», il quale, però, ha una
connotazione personale che è assente nell'invocazione pavesiana, pure essendo,
questa, riferibile alle due donne amate: Bianca Garufi e Constance Dowling
raffigurate, l'una, nella prima sezione, con una simbologia di elementi che
costituiscono la grande isotopia semantica[12] della terra e della morte, in cui ricorrono i semi: "terra,
mare, sassi, campagna, frutto, cielo, luna, collina, canneti, vigna, piante,
acqua, cantina, camera buia, roccia, erba, frutto di scoglio, morte, buio,
silenzio, dolore, pietra, terra dura"; l'altra, nella seconda sezione, con
una isotopia della vita e della morte, i cui semi, molti dei quali ricorrenti
lungo la catena sintagmatica dei testi, sono: "alba, luce, occhi, fiato,
vento, vita, risveglio, brezza, tepore, respiro, mattino, sangue, carne,
capelli, sguardi, terra, piante, riso, acque, zolla, sole, virgulto, cielo, nube,
silenzio, morte, sera, insonne, sorda, rimorso, vizio assurdo, vana parola,
grido taciuto, nulla, viso morto, labbro chiuso, gorgo". Nella silloge di
Bàrberi Squarotti, dietro quel «tu», spesso sottinteso, non sempre c'è un
interlocutore, ma vi è una forma impersonale espressa con questo
pronome. Un esempio lo troviamo in "Il mulino del Tanaro"[13]. Altre volte il «tu» è una forma di
"rispecchiamento", una proiezione dell' io lirico del nostro Poeta o
un alter ego con cui egli cerca di superare la sfera della soggettività. E in
questa alterità la poetica dell'immaginazione o dell' "astrazione"
trova il suo legame e la sua più concreta corrispondenza con la realtà.
[1] G. B.
Squarotti, dall'intervista rilasciata a Paolo Di Paolo, in occasione della
presentazione del suo saggio, Addio alla poesia del cuore, e pubblicata sul web
a cura della Redazione
Virtuale di
Italia Libri Milano, 11 gennaio 2003
[2] Ibidem
[3] La fuga in Egitto, pag.11
[4] Davanti alla statua dell'Inverno, pag. 13
[5] La sopravvissuta, pag.17
[6] L'aquila, pag.21
[7]
Angelina o Angelica, pag. 28
[8] I nomi, pagg. 26, 27
[9] L'eternità del mondo, pag. 40, 41
[10] Come era il canale, pagg. 47, 48
[11] Da Gemma, pag. 61
[12] Il concetto di isotopia è di A. J. Greimas e s'intende
la ricorrenza in un testo dato di semi, o categorie semiche, che gli assicurano
omogeneità.
[13] Il mulino del Tanaro, pagg.67, 68
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