di Luca Fumagalli
Le letteratura è costruita attorno a un fascio denso di relazioni, citazioni e rimandi. Così come tra le biografie di autori diversissimi tra loro per cultura o sensibilità possono trovarsi corrispondenze più o meno ampie, allo stesso modo nei romanzi è facile imbattersi in quelle che a tutta prima potrebbero essere solo coincidenze, ma che, andando più a fondo, si rivelano come sovrapposizioni significative e ben lontane dalla casualità. Molti esempi potrebbero essere fatti − si pensi al debito storico-culturale che ogni epoca nutre nei confronti delle precedenti − ma tutti i rapporti trovano la radice, il minimo comune denominatore nell’esperienza umana.
Questo è quello che è accaduto a tre grandi scrittori inglesi dell’ultimo secolo, lontani per formazione, ma accumunati da un medesimo problema: indagare con lo strumento della letteratura le origini e gli esiti ultimi del male metafisico che attraversa la storia. R. H. Benson, J. R. R.Tolkien e W. Golding − cattolici i primi due, agnostico di formazione anglicana il terzo − seppero tracciare con singolare efficacia nei loro lavori i tratti luciferini di un mondo preda dell’egoismo e del disordine. Nacquero così tre capolavori, tre famosi “Lord” che ancora oggi sono conosciuti e letti da un grande stuolo di appassionati. A Lord of the World(Il padrone del mondo) di Benson, pubblicato nel 1907, seguirono l’intramontabile classico di Tolkien, The Lord of the Rings (Il signore degli anelli) (1954-’55) e l’altrettanto fortunato, soprattutto in ambito anglosassone, Lord of the Flies (Il signore delle mosche) di Golding, dato alle stampe proprio nel 1954, lo stesso anno in cui uscì il primo volume della trilogia tolkeniana.
Il “signore” a cui si riferiscono tutti è tre i titoli è il diavolo. Se Benson e Golding optarono rispettivamente per una perifrasi di derivazione neo e vetero testamentaria − tra le tante citabili «Non parlerò più a lungo con voi, perché viene il principe del mondo» (Gv 14, 30-31) e «Andate e interrogate Baal-Zebub [letteralmente “il signore delle mosche”], dio di Ekròn» (2Re 1, 2) − Tolkien preferì riferirsi direttamente all’antagonista della sua opera, Sauron, una personificazione del male.
Proiettati verso i recessi dell’anima, attenti indagatori del cuore dell’uomo e delle contraddizioni che lo animano, i tre decisero di ambientare le loro narrazioni lontano dalla contemporaneità: prendere le distanze dal soggetto significava poterlo osservare più chiaramente, nel suo insieme, offrendo, nel medesimo tempo, un’analisi lucida quanto spietata.
Benson, per esempio, in Lord of the World parla di un universo distopico in cui l’ “umanitarismo”, una sorta di religione laica basata sul culto dell’uomo, soppianta il cristianesimo. Alla propaganda anticlericale fa seguito la violenza e la comparsa, nel doppiopetto del politico, dell’Anticristo, colui che tenterà di sferrare l’ultimo e fatale colpo alla Chiesa. Anche Golding si muove nella stessa direzione, ma il mondo futuro devastato dal conflitto atomico incide in piccola parte sulla trama che vede protagonisti alcuni giovani naufraghi, soli e senza adulti su un’isola deserta; i ragazzi, dopo aver tentato inutilmente di stabilire una rudimentale gerarchia di compiti e ruoli, cadono presto vittima degli istinti ferini inaugurando una spaventosa carneficina. The Lord of the Rings, il massimo esponente del genere “fantasy”, colloca la storia in un universo totalmente altro chiamato “Terra di mezzo”. Qui, dopo secoli di quiescenza, il signore oscuro si è risvegliato e brama con i suoi eserciti di riprendere l’anello del potere, l’unico oggetto che gli permetterebbe di sottomettere le genti libere dell’ovest.
A partire dalla presa di coscienza condivisa che il male, lungi dall’essere solo qualcosa di esterno, è parte dell’essere umano − anche un insospettabile come Golding parlava a questo proposito di “peccato originale” − ai tre autori si pose con urgenza la domanda se la malvagità fosse emendabile oppure se le tenebre fossero destinate a trionfare su una realtà inerme e corrotta. Ed è a questo punto che le risposte degli scrittori si differenziano notevolmente. Se in Lord of the World l’Anticristo riesce a conquistare la terra ma è schiacciato dalla seconda venuta del Figlio di Dio − che ha inizio nel momento in cui vengono uccisi gli ultimi cristiani − The Lord of the Rings fa del gesto generoso e disinteressato dei protagonisti l’antidoto per sconfiggere Sauron. Frodo, il portatore dell’anello, e con lui gli altri comprimari, riescono a trionfare nel momento in cui si scoprono capaci di superare limiti ed egoismi, di alzare lo sguardo oltre le maglie della tentazione per assaporare un orizzonte colmo di speranza (il tutto accompagnato da uno sguardo corale rintracciabile anche in Golding e Benson).
Nell’opera di Golding, al contrario, il male e la violenza hanno l’ultima parola. Significativa è la scena conclusiva del romanzo in cui i ragazzi, salvati da un gruppo di soldati, sono ricondotti in un mondo dilaniato dalla guerra, una versione adulta delle sanguinose caccie all’uomo che avvenivano sull’isola. Non esiste Grazia divina o possibilità di redenzione come in Benson e Tolkien; qui, soli con se stessi, i protagonisti vengono lacerati dalla “bestia” che è in loro e di cui non riescono a liberarsi: il “signore delle mosche”, tragicamente rappresentato da una testa di maiale conficcata su un palo, alla fine ottiene la vittoria.
Nonostante le differenze, tra Benson, Tolkien e Golding vi è una profonda analogia, del resto tipica di un certo filone della letteratura britannica novecentesca, costretta a fare i conti con i morti e gli orrori di due guerre mondiali. L’asserzione che il progresso, l’inesorabile avanzare del tempo, corrisponda a una regressione è parte integrante della poetica di tutti e tre gli scrittori. Non si parla solamente di sviluppo materiale e tecnologico, quanto di un’idea storiografica generale per cui, con il passare degli anni, l’umanità è destinata a scendere sempre più negli abissi dell’abiezione e della corruzione morale.
Al di là dei selvaggi moderni dipinti da Golding − che a questo tema dedicò il romanzo The Inheritors (Uomini nudi) − sorprende trovare il paradossale rapporto evoluzione-involuzione anche in lavori caratterizzati da una prospettiva ultimamente positiva come, appunto, Lord of the World e The Lord of the Rings. Nel primo caso il mondo, sempre più lontano dalla Chiesa, abbraccia l’apostasia, mentre nel libro di Tolkien, anche se il bene trionfa, l’epoca degli elfi, il popolo meno corrotto tra quelli che vivono nella Terra di mezzo, è ormai giunta al termine.
La risposta a questa apparente contraddizione si trova nella radice cattolica comune a entrambi gli autori. La Chiesa inglese, dai tempi di Elisabetta, era stata costretta a vivere nella clandestinità e la gerarchia ecclesiastica era stata rispristinata solo a metà del XIX secolo. Obbligati a vestire gli scomodi panni della minoranza perseguitata, i “papisti”, come venivano spregiativamente chiamati dai protestanti, maturarono una sensibilità peculiare rispetto a quella dei cattolici del continente, alieni da condizioni tanto dure. Convinti che la battaglia terrena fosse votata alla sconfitta, pur guardando con fiducia a Cristo anche diversi scrittori si adeguarono a questa vena di fatalismo tragico in temporibus. Non a caso Benson pubblicò numerosi romanzi storici dedicati alle persecuzioni anticattoliche e Tolkien lasciò tra le sue carte diverse annotazioni circa un possibile seguito di The Lord of the Rings in cui il male sarebbe ritornato per l’indolenza dell’uomo.
A prescindere dalle differenze che corrono tra essi, i tre “Lord” della letteratura inglese meritano dunque di essere letti e meditati perché mai come in questi testi l’anima dell’uomo sfibrata dal peccato ha trovato narratori all’altezza, ognuno capace con il proprio portato culturale di affrontare brillantemente un tema spesso dimenticato, eppure di capitale importanza. Per il lettore che avrà il coraggio di affacciarsi sul “cuore di tenebra” dell’umano descritto da R. H. Benson, J. R. R.Tolkien, e W. Golding le sorprese certamente non si faranno attendere.
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