di Maria Patrizia Allotta
Non
tutto è perduto, fortunatamente. Ancora qualcosa si salva tra le
rovine letterarie che caratterizzano i nostri giorni.
Infatti, tra
l’inchiostro barbaro e le incolte carte, in mezzo alle selvagge
pagine e ai banali fogli, insieme ai libri che evidenziano la
pochezza e la volgarità di certi tardi pseudi-scrittori che con
arroganza si autoprofessano innovatori e con boria si autoproclamano
creatori di nuovi stratagemmi stilistici, troviamo ancora pochi
Autori che quasi stoicamente resistono all’abbaglio delle false
mode letterarie, alla furbizia degli infingimenti, alle novità
esageratamente eclatanti del linguaggio, per salvaguardare quel
sinolo di forma e sostanza che solo la nostra tradizione letteraria
può vantare.
Ed è tra i
coraggiosi paladini della cultura senza tempo, tra i guerrieri del
sapere arcaico, tra i prodi del patrimonio autoctono che troviamo due
figli della Sicilia, ovvero, Elvira Sciurba e Giovanni Taibi, i quali
con le loro opere rispettivamente intitolate La
silente colpa del peccato
e Lame
di buio dal passato
illuminano i sentieri della buona lettura.
Due narrazioni, che
non hanno in comune semplicemente l’essere stati scritti quasi
contemporaneamente da due siciliani doc, ma anche la capacità
descrittiva dell’ambientazione tipicamente mediterranea che
inevitabilmente riconduce alle radici e alle origini dei due Autori,
la sofferenza individuale dei protagonisti che si allarga poi in
direzione universale, e ancora, l’incomunicabilità tra i
personaggi, l’indifferenza fatale e l’incomprensione predestinata
che si evidenzia tra loro, e infine, l’affanno persistente, il
dubbio lacerante, il dolore perpetuo e la morte considerata
quest’ultima non come naturale possibilità ma come liberante
necessità dell’essere.
Certamente, non si
preoccupano i Nostri di fissare in modo chiaro ed evidente le
coordinate spazio-temporali. Per il loro disegno non serve. Le azioni
descritte, infatti, si svolgono in un tempo dilatato, quasi a volere
dimostrare ai propri lettori che la colpa
del peccato
- che troppo spesso svilisce l’esistenza umana - e le lame
di buio -
che sovente deprezzano la stessa vita - non hanno età, non conoscono
epoche precise, né stagioni particolari, neppure momenti prescritti.
Persistono senza fine, invece, nel teatro dell’eternità, quasi
come archè
incondizionato,
principio irrazionale, inizio assurdo, primordio sconfinato che prima
abbraccia e poi stringe fino a soffocare.
E
l’arena delle azioni dettate dalle colpe
e
dalle lame,
dal peccato
e dal passato
è, appunto, l’intero universo che ora si concretizza
minuziosamente e consapevolmente nell’opera ampia, articolata,
enfatica, della Sciurba la quale s’ispira all’alto magistero del
Tasso che della concatenazione strutturale architettata ne fece un
gioco autentico privo di ogni registro comico o volgare, ora si
delinea globalmente e inconsciamente nel lavoro passionale,
essenziale, asciutto, armonioso del Taibi, il quale servendosi della
brevità e dell’intensità dell’intreccio raggiunge un perfetto
equilibrio.
Non
c’è dubbio: entrambe le opere riconducono alle problematiche
pirandelliane. Infatti, tanto i personaggi sostanzialmente popolani e
umili della Sciurba, quanto i personaggi borghesi e colti di Taibi si
muovono in una dimensione ora patetica ora dimessa, afflitta e
deposta, quasi malinconica, a volte esageratamente violenta, priva di
certezze e senza messaggi apparentemente positivi da trasmettere, ma
perché presi da quei conflitti interiori che sfociano poi in
indicibili drammi, causati, paradossalmente, da quell’intimità
profanata che lo stesso nucleo familiare dona, generando nel tempo,
un’irreparabile incomunicabilità.
E
chiaramente i Nostri non descrivono la crisi dei rapporti umani, o la
rottura in seno alla famiglia, oppure la caduta di ogni ideale
semplicemente per rappresentare una società in pieno disfacimento
che ha perso ogni riferimento cardinale, magari sperando
nell’identificazione del lettore con gli stessi personaggi da Loro
raccontati, al contrario, secondo chi adesso scrive, l’intendimento
è quello di evitare la diretta assimilazione e, comunque, ogni forma
di riflessa complicità, costringerlo semmai il pubblico a riflettere
e ripensare criticamente circa i veri significati dell’esistenza
andando oltre i luoghi comuni, gli stereotipi e i pregiudizi, le
false opinioni e gli inutili moralismi fini a se stessi.
Ecco, allora che il
pregio delle due narrazioni sopramenzionate, è dato proprio da quel
prezioso rapporto organico tra fantasia, invenzione e riflessione
intellettuale, la quale riflessione, ha come ipotetico obiettivo la
possibile fuga dalla crisi esistenziale che appare ora sotto forma di
snaturamento della personalità ora sotto forma d’incapacità
comunicativa ed espressiva, ora come violenza e aggressione ora come
irrimediabile caduta di quelle certezze affettive che, invece,
necessitano ad ogni singolo, per essere se stesso e avere rapporti
continui ed equilibrati con gli altri.
Ma
non è tutto. Se nell’opera intitolata La
silente colpa del peccato
evidente è il richiamo forse inconsapevole alla teoria del dolore e
della felicità di Schopenhauer, nell’opera Lame
di buio dal passato
chiara e costruttiva è l’istanza filosofica che riconduce
inevitabilmente al punto zero di Kierkegaard e al nichilismo di
Nietzsche.
Alla maniera del
filosofo nato a Danzica sembrerebbe, infatti, che per la Sciurba la
vita è dolore per essenza.
Nelle sue
descrizioni lente tutto soffre. I suoi stessi personaggi, al di là
del “breve sogno” e delle inutili “illusione”, risultano
soggetti tormentati e angosciati che esistono a patto di sopportarsi
gli uni con gli altri. Il pendolo della loro vita oscilla fra il
“desiderio” e la “noia” e perfino l’amore “che si
impadronisce delle forze e dei pensieri dell’umanità più giovane”
è inganno voluto da Cupido “signore degli dèi e degli uomini”.
Fra
colpe
e
peccati
l’amore, dunque, così come pure afferma Schopenhauer altro non è
se non “due infelicità che si incontrano, due infelicità che si
scambiano e una terza infelicità che si prepara (…), infatti,
l’unico amore di cui si può tessere l’elogio non è quello
generativo dall’eros,
ma
quello disinteressato della
pietà”. E
nel testo della scrittrice palermitana nessuna pietà s’intravede,
nessuna misericordia, nessuna via di liberazione, e Celeste di nome e
di fatto, vera protagonista dello scritto, è frutto di quell’amore
che genera solo vergogna, traviamento, tragedia.
Scrive la Sciurba:
“(…) sarebbe bastato un normale comportamento amorevole e
altruistico, l’uno nei confronti dell’altro per vivere nella
normalità della vita. Ognuno invece era stato artefice della rovina
dell’unica vita che il cielo dona, sprecandola nel dolore e
nell’infelicità generati ogni giorno dalla loro inspiegabile
voglia di far male agli altri in nome dell’affermazione del proprio
io, un io inutile e diabolico”.
E
più avanti “La vita è proprio come un anello: parti dall’origine,
giri, giri e poi ritorni sempre al punto di partenza. E lì troverai
ciò da cui sei partito e ciò che hai lasciato. Ma se parti dalle
macerie è probabile che troverai ceneri. (…) per questo quel
pianto non era un pianto liberatorio: era il pianto della
disperazione, del dolore, dei rimorsi e della paura.”
Infine: “Quanto
avevano sofferto tutti quanti! E quanto male si erano reciprocamente
causati! E poi perché? Per nulla. Solo per rancore l’uno contro
l’altro, vittime inconsapevoli di un aberrante sistema sociale.”
Bastano queste
citazioni, per fare intendere come nell’opera della Sciurba “la
volontà di vivere” non segue nessuna apparente logica, né
ragione, neppure saggezza, piuttosto la stessa “volontà” è un
destino fatale che determina nell’esistenza di ciascun uomo un
perenne tendere senza una meta ultima. E poi, in fondo, la morte,
senza avere certamente conosciuto la felicità, la quale altro non è
se non privazione del dolore.
E’
così per Donna Maria e Vito Colajanni, per Ciccio e Donna Matilde,
per Don Totò, Cecilia, e la già menzionata Celeste per i quali il
livore, il rancore e l’avversione sono più determinati della
remissione, del perdono e della grazia, mentre il silenzio, le colpe
e i ricordi sono più forti del grido della gioia, della passione e
dell’amore stesso.
E
questa gioia, questa passione e questo stesso amore, in modo ancora
più drammatico, vengono negate anche ai pochi ma significativi
personaggi ideati da Taibi, in quest’opera dal titolo estremamente
emblematico, dove è possibile, tra l’altro, rintracciare rare ma
sicure tracce e intonazioni autobiografiche, forse inconsciamente
dettate.
In Lame
di buio dal passato
la “volontà di vivere” è ancora più oscura, il dolore più
acuto e la morte più incombente. Il passato è veramente silente e
le colpe rappresentano affilatissime lame.
L’autore, infatti,
raccontando le vicissitudini amorose di Salvatore - diversamente
dalla Sciurba che parte da una disamina di stampo sociale per
arrivare all’individuale - indaga direttamente sull’interiorità
dell’esserCi
e sulle sue possibilità,
proprio alla maniera di Heidegger e Kierkegaard.
La
riflessione dello scrittore di Baucina non riguarda, dunque, l’uomo
in generale ma piuttosto “l’esistenza del singolo", dando al
termine esistere il giusto significato di existere,
ovvero la possibilità per ogni uomo di uscire fuori dall’infinità,
per prendere coscienza della propria condizione finita, che è sempre
posta all’estremità tra essere e non essere.
E
in effetti sia il protagonista che i personaggi dell’opera di Taibi
si trovano - in relazione alla propria condizione esistenziale -
davanti a illimitate possibilità che necessitano, tuttavia, una sola
scelta: da qui la loro instabilità affettiva, l’indecisione tra le
alternative eventuali, il dubbio, il forse, la paralisi e, quindi,
l’angoscia, la disperazione. Ancora una volta siamo in presenza di
un dramma.
Ed
è probabilmente la formazione umanistico-filosofica dell’Autore,
professore di materie letterarie, a spingerLo a fare tesoro
dell’insegnamento kierkegaardiano, secondo il quale: “Chi esce
dalla scuola della possibilità ha imparato, meglio di quanto un
bambino non abbia imparato il suo abbecedario, che dalla vita non ha
assolutamente il diritto di pretendere nulla e che il terrore, la
distruzione e la perdizione, abitano uscio ad uscio con ogni uomo”.
E questo il Nostro lo sa perfettamente - forse perché sperimentato
sulla sua stessa pelle – facendo, per questo, del suo ultimo lavoro
letterario un singolare racconto dove le alternative sono
inconciliabili e le soluzioni definitive impossibili.
In
virtù di quanto detto, tuttavia, è giusto precisare che - alla
maniera di Nietzsche - non siamo in presenza di un “nichilismo
passivo” ma di un “nichilismo attivo”.
La
volontà del Taibi, infatti, sembrerebbe quella di non evidenziare
semplicemente (come già detto) la crisi dei valori, la decadenza, la
negatività, la solitudine e l’angoscia dell’uomo dettata dalle
sue possibilità e dalle eventuali inconciliabilità, ma quella di
condividere fino in fondo la logica perversa del nichilismo fino a
scoprirne se all’esaurimento di questo diabolico procedimento non
si spalanchino all’uomo spazi per una nuova progettualità
esistenziale.
In
tal senso, il medico Salvatore - che pure crede nella morale
collettiva e nei più alti ideali tradizionali - preso dal suo “mal
d’amore” che coincide perfettamente col suo “mal di vivere”,
non appare ai lettori un nostalgico, né tanto meno un malinconico,
neppure un inutile sentimentale fermo al punto 0, ma un eroe, un
coraggioso combattente, un oltreuomo
capace
di affidarsi alle proprie forze per tacitamente generare nuovi
sentieri e progettare insoliti orizzonti.
Non
soltanto dolore e morte, allora nell’opera di Taibi, ma anche
speranza e vita, così come similmente nell’opera della Sciurba.
L’eterna lotta
freudiana tra Éros
e Thánatos
è, infatti, presente sia nell’analitico chiaroscuro di
passione-desolazione, odio-amore, realtà-sogno proposto nelle
articolate e minuziose 462 pagine racchiuse sotto il titolo di La
silente colpa del peccato,
edito da Europa edizioni, sia nel contrasto sinteticamente organico e
introspettivo presentato nelle 118 pagine ben strutturate, edite da
Sergio Cingolani, di Lame
di buio dal passato,
dove anche i preziosi aforismi che introducono ogni capitolo
abilmente rappresentano la continua lotta fra le “pulsioni di vita”
e le “pulsioni di morte”.
Ed è proprio in
funzione delle pulsioni di vita, che tra l’altro includono quelle
dell’autoconservazione, del sesso, del piacere e della bellezza,
che entusiasticamente spingono ancora una volta Elvira e Giovanni a
donare piccoli frammenti lucenti rintracciabili… tra le rovine
letterarie…. che caratterizzano i nostri giorni.
Fortunatamente, non
tutto è perduto, almeno in ambito creativo e letterario.
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