mercoledì 29 novembre 2017

La rivoluzione del silenzio per frantumare la dittatura del rumore

di Domenico Bonvegna

L'uomo moderno non conosce il silenzio, anzi spesso ha paura del silenzio. Eppure l'uomo, anche chi non è cristiano, ha estremamente bisogno del silenzio. Soltanto che in questo mondo postmoderno rumoroso e confuso è difficile, non è facile trovare spazi di silenzio, talvolta neanche nella Chiesa. Che dire delle tante, troppe, celebrazioni svolte nella confusione e nel rumore all'interno dei templi di Dio? Allora bene venga uno strumento per riscoprire il silenzio, un ottimo libro: “La forza del silenzio”, dal sottotitolo significativo: “Contro la dittatura del rumore”, si tratta dell'ultimo libro del Cardinale Robert Sarah, scritto insieme a Nicolas Diat, giornalista e scrittore, con una prefazione d'eccezione del Papa emerito Benedetto XVI. Il saggio è stato pubblicato nei mesi scorsi dalla casa editrice Cantagalli.
Nel retro della copertina si scrive: “In un'epoca sempre più rumorosa, in cui tecnica e consumismo irrompono nella nostra vita, è senza dubbio una follia voler scrivere un libro dedicato al silenzio. Eppure, il mondo fa tanto di quel rumore che la ricerca di qualche goccia di silenzio diviene ancora necessaria”.
Il testo si avvale anche della collaborazione di Dom Dysmas De Lassus, Priore del “Grande Chartreuse” e Ministro generale dell'ordine dei certosini, fondato da San Bruno nel 1084.
Il libro di monsignor Sarah è un inno al silenzio, leggendolo ci permette di fare un cammino di alta spiritualità, anche se siamo seduti davanti alla nostra scrivania, ci fa vivere, qualche ora di vita silenziosa, come in un eremo dei frati certosini. “La forza del silenzio” rappresenta un ottimo alimento spirituale per chi intende disintossicarsi della vita moderna che difficilmente lascia spazio al silenzio. Nella prefazione il Papa emerito scrive:“Dobbiamo essere grati a Papa Francesco di avere posto un tale maestro dello spirito alla testa della Congregazione che è responsabile della celebrazione della Liturgia nella Chiesa[...] Pertanto, “Con il cardinale Sarah, un maestro del silenzio e della preghiera interiore, la Liturgia è in buone mani”.
Il libro del Prefetto della Congregazione per il Culto Divino e la disciplina dei sacramenti, è nato all'interno della Grande Certosa, nelle Alpi francesi, insieme al Priore Generale Dom Dysmas. In questo mondo pieno di spiritualità, tra il canto gregoriano certosino, dove le anime si abbandonano a Dio e per Dio, nasce il gioiello che ci ha donato il cardinale africano. E' incantevole la descrizione che fa del luogo Nicolas Diat nell'introduzione:“Alla fine dei vespri, i monaci intonano il Salve Regina solenne […] Fuori, era scesa la notte e le fioche luci del monastero finivano di fermare il tempo. Il silenzio era rotto soltanto dallo scivolare lento della neve che cadeva dai tetti. La nebbia sembrava risalire dal fondo della stretta valle e gli scuri fianchi della montagna avevano un che di straordinariamente dignitoso e triste”. Il giornalista, immerso nel “cuore di questa geografia mistica”, ricorda una frase del fondatore dei certosini, San Bruno: “Qui, per la fatica del combattimento, Dio dona ai suoi atleti la ricompensa desiderata, cioè la pace che il mondo ignora, e la gioia nello Spirito Santo”.
Il saggio è composto di soli cinque capitoli, ma tutti abbastanza corposi. Nel 1° si riflette su “Il silenzio contro il rumore del mondo”. Importante coltivare il silenzio per essere davvero con Dio.“Nessun profeta ha mai incontrato Dio senza ritirarsi nella solitudine e il silenzio”. Attenzione il cardinale, non parla “unicamente di una solitudine o di uno spostamento geografico, ma di uno stato interiore. Non è sufficiente tacere. Bisogna diventare silenzio”. Peraltro per il cardinale per trovare Dio è indispensabile il silenzio.“E' necessario uscire dal tumulto interiore per trovare Dio. Nonostante l'agitazione, il commercio, il facile piacere, Dio rimane silenziosamente presente”.
Tuttavia questo silenzio si può trovare dentro noi stessi, nel nostro cuore. Monsignor Sarah, fa un'affermazione di grande spessore:“Non ho timore di affermare che i falsi sacerdoti della modernità, che dichiarano una specie di guerra al silenzio, hanno perduto la battaglia. Poiché possiamo restare silenziosi  in mezzo alla più grande confusione, all'agitazione più abietta, in mezzo al chiasso e allo stridore di queste macchine infernali che spingono al funzionalismo e all'attivismo e che ci allontanano da ogni dimensione trascendente e da ogni forma di vita interiore”.
Ma come possiamo definire il silenzio? Un'assenza della parola, del rumore, del suono?
Per il cardinale, “il silenzio non è un'assenza. Al contrario, è la manifestazione di una presenza, più intensa di qualsiasi altra presenza”. E poi secondo Sarah, “Le vere domande della vita si pongono nel silenzio”. A questo proposito sono significative le parole pronunciate da Benedetto XVI, per l'ottavo centenario della nascita di Papa Celestino V:“viviamo in una società in cui ogni spazio, ogni momento sembra debba essere 'riempito' da iniziative, da attività, da suoni; spesso non c'è il tempo neppure per ascoltare e per dialogare. Cari fratelli e sorelle! Non abbiamo paura di fare silenzio fuori e dentro di noi, se vogliamo essere capaci non solo di percepire la voce di dio, ma anche la voce di chi ci sta accanto, la voce degli altri”.
Per comprendere la preziosità del silenzio il cardinale Sarah ci invita a riflettere sull'episodio evangelico della visita di Gesù a Marta e Maria. C'è un apparente contrasto tra le due donne, una troppo attiva e l'altra passiva. Così avviene nella nostra vita religiosa.“In realtà – afferma monsignor Sarah – Gesù sembra indicare i contorni di una pedagogia spirituale: noi dobbiamo sempre vigilare per essere Maria prima di diventare Marta. Altrimenti, rischiamo di impantanarci in un attivismo e un'agitazione le cui conseguenze sgradevoli affiorano chiaramente nel brano evangelico: il panico, la paura di dover lavorare da soli, l'atteggiamento dissipato, l'irritazione di Marta nei confronti di sua sorella, la sensazione che Dio ci lasci soli senza intervenire in modo efficace”.
Pertanto è fondamentale che ogni attività deve essere preceduta da un'intensa vita di preghiera, di contemplazione, di ricerca e di ascolto della volontà di Dio. E nella lettera apostolica Novo Millennio Ineunte, Giovanni Paolo II ci ricorda che “il nostro tempo di continuo movimento che giunge spesso fino all'agitazione, col facile rischio del fare per fare. Dobbiamo resistere a questa tentazione, cercando di essere prima che di fare”.
L'uomo non può incontrare Dio in verità che nel silenzio e nella solitudine, interiore ed esteriore. Più potere possediamo “e più dobbiamo progredire nell'umiltà e coltivare con cura la dimensione sacra della nostra vita interiore cercando di vedere il volto di Dio nella preghiera, nell'orazione, nella contemplazione e nell'ascesi”. E a questo proposito il cardinale ammonisce i propri confratelli che talvolta presi dal proprio potere, dai bisogni materiali, dal desiderio di prestigio, di promozioni, rischiano di nuocere a se stessi e al gregge a loro affidato.”Corriamo tutti di essere monopolizzati dagli affari e dalle preoccupazioni del mondo se trascuriamo la vita interiore, la preghiera, l'orazione, lo stare ogni giorno faccia a faccia con Dio, l'ascesi necessaria a ogni contemplativo e a ogni persona che vuole vedere l'Eterno e vivere con Lui”.
Nella vita quotidiana, sia profana che religiosa, il silenzio esteriore è necessario. Thomas Merton, scrive che “il silenzio è necessario per denunciare e riparare la distruzione e i danni provocati dal 'peccato' del rumore”. Nel mondo moderno regna la litigiosità, le offese, le critiche o semplicemente le chiacchiere. Talvolta a questo mondo di confusione e di depravazione, si associano anche i cattolici, “che penetrano nella Babele delle voci, in certa misura si costringono all'esilio dalla città di Dio. La Messa diventa un baccano confuso; la preghiera, un rumore esteriore o interiore – la ripetizione frettolosa e meccanica del rosario”.
Merton ci consiglia di non rassegnarsi a vivere in questa società“sovraccarica di attività e affogata nel rumore delle macchine, della pubblicità, della radio e della televisione che chiacchierano senza sosta”. Cosa possono fare i cristiani? “Coloro che amano Dio devono cercare di preservare o di creare l'atmosfera in cui potranno trovarlo.I cristiani dovrebbero avere delle famiglie calme, perchè il loro corpo così come la loro casa è un tempio di Dio”. Inoltre secondo Merton, occorre, “abituare i nostri bambini a non urlare troppo. I bambini sono per natura silenziosi, se li si lascia in pace, poiché se li si stuzzica fin dalla culla diventeranno cittadini di uno stato in cui tutti urlano”. Ed io che insegno alla primaria ne so qualcosa.
“Il silenzio della vita quotidiana è una condizione indispensabile per vivere con gli altri. Senza la capacità del silenzio, l'uomo non è capace di ascoltare coloro che stanno vicino, non è capace di amarli e di comprenderli”.
Il cardinale Sarah è convinto che viviamo in una dittatura del rumore. “Quante persone sono obbligate a lavorare in una agitazione che li angoscia e le disumanizza? Le città sono diventate fornaci ardenti in cui neanche la notte è risparmiata dalle aggressioni sonore. Senza rumore, l'uomo postmoderno cade in un'inquietudine sorda e lancinante. E' abituato a un rumore di fondo permanente, che lo rende malato e lo rassicura”. Il rumore ormai per l'uomo d'oggi è diventato come una droga. “Assomigliando ad una festa, il rumore è un vortice che impedisce di guardarsi dentro”. Pertanto, “l'agitazione diventa un tranquillante, un sedativo, una siringa di morfina, una specie di sogno, di onirismo senza consistenza”. Ma attenzione per il cardinale, “questo rumore è una medicina pericolosa ed illusoria, una menzogna diabolica che permette all'uomo di scappare senza confrontarsi con il proprio vuoto interiore. Il risveglio non può che essere brutale”.
A volte abbiamo la sensazione che “il silenzio sia diventato un'oasi irraggiungibile”. “Che diventerà il nostro mondo se rinuncia a cercare spazi di silenzio?”Ecco perchè oggi dobbiamo entrare in una forma di resistenza su tutti i fronti della nostra società. Anche nella musica occorre fare pulizia, bisogna scegliere,“la grande musica”, non quella “volgare”. Perchè senza “buon gusto si suona nel brusio, in mezzo alle urla e al baccano, un'agitazione diabolica ed estenuante”. Questo tipo di musica, che vediamo e ascoltiamo spesso nei vari happening giovanili,“rende l'uomo sordo, lo rende ebbro di vuoto, di confusione e di disperazione”. Naturalmente qui non si possono trovare la purezza, l'eleganza, l'elevazione dello spirito e dell'anima, quando ascoltiamo in silenzio Mozart, Beethoven o un canto gregoriano.
E anche qui, il cardinale usando parole forti, può dire:“Con un'arroganza funesta, la modernità esalta l'uomo ubriaco d'immagini e di slogan rumorosi e uccide l'uomo interiore”.
E in merito al parlare a sproposito, il cardinale si rifà a San Giacomo che paragona la lingua al timone di una nave. “E' un piccolo pezzo di legno che permette, però, di dirigere tutta l'imbarcazione. L'uomo che tiene a freno la sua lingua controlla la sua vita, come il marinaio controlla la nave. Al contrario, l'uomo che parla troppo è una barca impazzita”. Infatti secondo Sarah,il chiacchierone è lontano da Dio e da qualsiasi attività. Tutta la sua vita scorre sulle sue labbra e scorre via in fiotti di parole che trascinano con sé i frutti sempre più poveri del suo pensiero e della sua anima”.
Il cardinale continua nella sua esposizione coraggiosa e soprattutto controcorrente: “Oggi sono la parola facile e l'immagine volgare a dominare molte esistenze. Ho la sensazione che l'uomo moderno non sappia più fermare la fiumana ininterrotta di parole retoriche, falsamente morali, e il bisogno bulimico di icone adulterate. Il silenzio delle labbra  sembra impossibile agli uomini dell'Occidente […] Gli schermi luminosi hanno bisogno di un nutrimento pantagruelico per distrarre l'umanità e distruggere le coscienze. Il fatto di tacere sembra indice di debolezza, d'ignoranza o di mancanza di volontà. Nel regime moderno, l'uomo silenzioso diviene colui che non è capace di difendersi. E' un sub-uomo. A contrario, l'uomo che si proclama forte è un essere fatto di parole. Schiaccia e affoga l'altro con i suoi fiumi di parole”.
Monsignor Sarah non risparmia forti critiche ai sacerdoti, infedeli alle promesse della loro ordinazione. Che non smettono mai di parlare per far conoscere e imporre la loro visione personale che ripetono spesso le stesse banalità. Sacerdoti che “continuano a parlare e ai media piace ascoltarli per diffondere le loro stupidaggini se si dichiarano a favore delle nuove ideologie post-umane, nel campo della sessualità, della famiglia e del matrimonio”.
E citando Jean Guitton, ripete che in questo momento c'è un grande turbamento nel mondo e nella Chiesa, “all'interno del cattolicesimo sembra talvolta predominare un pensiero di tipo non-cattolico, e può avvenire che questo pensiero non cattolico all'interno del cattolicesimo diventi domani il più forte”.

Dobbiamo fermarci certamente ritorneremo a riflettere sul prezioso strumento offertoci dal grande cardinale Robert Sarah.

lunedì 27 novembre 2017

Gino Pantaleone, "Servi disobbedienti" (Ed. Flaccovio)

Pubblichiamo la presentazione del libro di Biagio Balistreri

In una breve recensione del precedente libro di Gino Pantaleone, "Il Gigante controvento", documentatissima biografia di Michele Pantaleone, uomo che ha dedicato interamente la propria vita all'analisi storica e antropologica del fenomeno mafioso, avevo riportato le seguenti affermazioni:
«Un libro che ha tutte le caratteristiche del libro storico, ma non è scritto da uno storico. Nel senso che è un libro ricco di iconografia e di documentazione, nel quale ogni affermazione è rigorosamente corroborata da documenti, fotografie e citazioni; tuttavia l'Autore non è uno storico di professione, è uno scrittore e poeta, e questo si avverte nella forte passione civile e personale che traspare da ogni pagina […]. Ne è risultato, quindi, un libro storico che si legge tutto d'un fiato, con forte partecipazione del lettore. Una prosa al tempo stesso precisa e svelta, che spinge ad andare avanti. Un libro appassionato e quindi appassionante.»
Queste caratteristiche di viva partecipazione diretta mi sembrano ancora più accentuate in questo nuovo saggio di Gino Pantaleone, "Servi disobbedienti", nel quale, sempre con grande ricchezza di documentazione, l'Autore descrive i percorsi paralleli di due grandi intellettuali siciliani, Leonardo Sciascia e Michele Pantaleone, che per primi, a partire dall'inizio degli anni sessanta del secolo scorso, con chiarezza esemplare e quindi con coraggio, l'uno nella sua produzione principalmente letteraria, l'altro nella sua produzione saggistica, esplicitarono senza infingimenti le caratteristiche del fenomeno mafioso, e parallelamente, nel tempo, con accenti diversi ma con simile determinazione, stigmatizzarono anche il pericolo rappresentato dalla crescita della retorica dell'antimafia e dal suo utilizzo per finalità personali.
Il titolo, Servi disobbedienti, è una citazione da una splendida e difficile canzone di Fabizio De Andrè, Smisurata preghiera, dedicata a "chi viaggia in direzione ostinata e contraria", come appunto Pantaleone e Sciascia hanno fatto, "per consegnare alla morte una goccia di splendore / di umanità di verità".
Il libro, come ho detto, ha la struttura di un saggio storico, ma ancor più che nella precedente opera il saggista, profondamente toccato dagli accadimenti che narra e documenta, compie spesso delle improvvise e vivaci irruzioni in prima persona nel testo, denunciando così la forte passione civile che lo ha animato e che sempre lo anima nel suo lavoro.
Esemplifichiamo queste affermazioni.
Riferendosi a personaggi ben noti e molto discussi, l'Autore scrive:
«… uno degli uomini che ha avuto queste caratteristiche peculiari, balzato alle cronache della storia della prima metà del '900, non frutto della fantasia di qualche autore ma esistito vera­mente, è il boss della mafia siciliana Calogero Vizzini di Villalba a cui, i più, hanno anteposto il don per distinguerlo dagli altri perché "uomo di rispetto".»
Ma dinanzi a questo particolare, Gino Pantaleone sembra non resistere ed interviene direttamente con una domanda stizzita:
«Mi sono da sempre chiesto: se lui fu di "rispetto" gli altri che uo­mini sono stati?»
Più avanti, l'Autore cita questa descrizione che di Giuseppe Genco Russo fornì il compianto giornalista Peppe Fava:
«Questa è la provincia di Genco Russo. Ponete mente all'uomo: quasi un contadino, triste, senza erudizione, senza forza lega­le, è stato più potente lui che lo Stato su un territorio di diecimila chilometri quadrati. […] sinistro e opimo. I personaggi invulnerabili, corazzati da cento amicizie, da mille alibi. […] reggeva il baldacchino per la festa del santo patrono.»
Ancora una volta, l'Autore interviene quasi violentemente in prima persona, osservando:
«Sarà una mia avversione innata, sarà che a quel tempo la si pen­sava diversamente, ma la descrizione di quest'individuo da par­te di Fava mi crea soltanto disgusto.»
Ma dove gli interventi diretti di Gino Pantaleone diventano ancora più vibranti, è nella parte riguardante la collusione fra gli americani e la mafia in occasione dello sbarco in Sicilia durante la seconda guerra mondiale, la storia del famoso e discusso elenco di personaggi mafiosi da insignire da parte degli americani dell'incarico di sindaco dei diversi paesi dell'isola. Scrive infatti Pantaleone:
«Ancora più sporca fu l'o­perazione successiva - descritta perfettamente da Emanuele Macaluso - che utilizzò, durante l'avanzata, i poteri costituiti che in quel momento davano stabilità in Sicilia. Uomini che avrebbe­ro potuto garantire l'ordine, li definisce Macaluso, antifascisti, di sicuro non certo statalisti, ma futuri separatisti che ambivano a costituire la quarantanovesima stella degli Stati Uniti. Gli ameri­cani ci hanno lasciato un lurido futuro… la mafia al potere!»
E aggiunge qualche pagina più avanti:
«La verità fu che, di sicuro, la mafia servì al Governo militare, e questo fece sì che la mafia in Sicilia si potesse riorganizzare con il crisma della legalità e della ufficialità mettendosi al passo e alla stessa altezza del potere. Ecco cosa ci hanno lasciato in ere­dità i nostri liberatori dal fascismo!»
Il tono acceso e appassionato di Gino Pantaleone, in particolare nelle sue incursioni in prima persona, fanno di questo libro ancora di più un'opera civile e segnatamente un'opera politica, nel senso più alto di questi due termini. Il lettore avverte e comprende come gli argomenti trattati siano eventi che toccano nel profondo la nostra pelle e la nostra carne, entrando nella nostra storia e nella nostra stessa vita.
Ho voluto soffermarmi su queste citazioni per sottolineare lo spirito con il quale il libro è stato scritto e con il quale credo dobbiamo accingerci a leggerlo, e volontariamente queste citazioni non riguardano strettamente i due personaggi protagonisti dell'opera.
Quando poi, ed è il corpo del libro, il nostro Autore racconta - con dovizia di particolari e spesso con arguzia - queste due vite che egli definisce parallele, i ritratti che ne scaturiscono sono estremamente chiari: due combattenti che non si sono mai risparmiati nell'esporsi e che hanno pagato questo impegno con il silenzio intorno a loro e con l'isolamento sospettoso, ma al contempo due persone, ancorché amiche, molto differenti fra loro.
Malgrado la prudenza che una vita come la sua, condotta senza esclusione di colpi, anche feroci, l'aveva necessariamente costretto ad adottare, Michele Pantaleone era persona aperta, pronta all'incontro, di profonda e vasta cultura, capace di manifestare forti simpatie ed entusiasmi. Parlare con lui, e non soltanto di mafia, ma in generale di cultura e di civiltà, era un vero godimento dell'intelletto.
Leonardo Sciascia era uomo di intelligenza sottile ed acuta come tutta la sua vasta opera ha dimostrato, ma era anche persona molto guardinga, oserei dire sospettosa, con una elaborazione intellettuale complessa che lo portava ad esprimere comunque opinioni che manifestassero un distacco, una distinzione rispetto a quelle degli altri. Tendeva a porre una certa distanza nei confronti dell'interlocutore, una distanza che poteva anche sottintendere la diffidenza.
Due uomini diversi, dunque, che la passione civile ha condotto a seguire percorsi paralleli che li hanno portati, l'uno, Pantaleone, a descrivere senza veli e con rigore le caratteristiche del fenomeno mafioso, e a combattere a viso aperto battaglie di denunzia e giudiziarie protratte per tutta la vita, naturalmente correndo anche molti rischi a livello personale; l'altro, Sciascia, a elaborare narrazioni letterarie che svelavano la realtà e che soprattutto erano capaci di preconizzare le successive trasformazioni e scorgere profeticamente il futuro. Non dimentichiamo che fu proprio Sciascia ad indicare il criterio privilegiato di indagine che si rissume nell'espressione "follow the money", criterio che tanto seguito pratico avrebbe avuto.
Ambedue con la precisa consapevolezza che un nemico di tal fatta è sempre e comunque intorno a noi. Questa sensazione di accerchiamento emerge chiaramente nell'articolato racconto di Gino Pantaleone, che lo vive con profondo disagio e un po' di malcelata rabbia.
A quest'ultimo proposito, è significativo un aneddoto narrato dal nostro Autore nel libro. Un aneddoto riguardante direttamente lui stesso, e che quindi rappresenta un'altra notevole incursione personale nel testo.
«Recentemente, partecipando ad una presentazione di un libro sulla storia della mafia, in un luogo prestigioso palermitano, nel­la mia innocenza storica, mi è capitato di incontrare un politico, conosciuto come personaggio autorevole, il quale, nel volergli comunicare l'uscita della mia novità editoriale sulla biografia dello scrittore di Villaba, con un sorrisino beffardo mi disse:
"Quando parlavi con Michele Pantaleone non sapevi se stavi parlando con uno scrittore antimafia o con un mafioso."
... come a volermi fare una battuta. A guardarlo ho provato per lui ribrezzo. Dall'espressione della mia faccia, però, penso lui l'abbia capito.
Nella stessa sede, prima del politico, avevo incontrato uno stori­co molto quotato a cui, sempre nella mia innocenza, annun­ciai di questa biografia di Michele Pantaleone. Questi, girandosi la testa e guardandomi in faccia molto severo e quasi indispetti­to, mi disse:
"prima voglio vedere cosa lei ha scritto di lui!"
Al termine dell'evento, dopo che gli autorevoli relatori ebbero detto ognuno la loro sul libro protagonista del pomeriggio, capii che quel luogo, che sino ad allora era stato per me il santuario della cultura, quello era proprio il luogo dove si annidavano i peggiori nemici dello scrittore di Mafia e politica.»
Appare quindi chiaro come il saggio Servi disobbedienti suoni anche come un forte avvertimento per il lettore: l'avvertimento che almeno in Sicilia - ma non soltanto, come le cronache recenti ci hanno ampiamente dimostrato - non si sa mai davvero chi sia il nostro interlocutore.
Per questa ragione Gino Pantaleone, quasi in chiusura del suo saggio, riassume l'insegnamento dei suoi due protagonisti in un messaggio squisitamente "politico", che indica la strada che deve essere percorsa, al contempo riunendo in un unico contesto i principali fenomeni distorsivi del vivere civile che da molto tempo affliggono l'Italia:
«Dobbiamo curare la formazione di una nuova cultura e di una coscienza antimafiosa seria che dovrà essere anche anticorruttiva e antitagentista.»

Myriam De Luca, "Via Paganini, 7" (Ed. Spazio Cultura)

di Guglielmo Peralta

Sii sempre il meglio di ciò che sei. / Cerca di scoprire il disegno / che sei chiamato ad essere, / poi mettiti a realizzarlo nella vita.
     
Questi versi con cui si chiude la poesia di Martin Luther King, riportata da Myriam De Luca nel penultimo capitolo del suo romanzo (pagg.173-174), sono indicativi del cammino che la protagonista Viviana è "chiamata" a intraprendere per realizzare quella vita autentica che il dolore, vissuto in prima persona, tende a soffocare facendosi, al tempo stesso, grido di disperazione e voce esortativa, che "chiama" dal fondo della coscienza. Il progetto di vita nuova, che i versi scolpiscono in un modo categorico e apoftegmatico che ricorda il gnōthi sautón: la massima iscritta nel Tempio di Apollo a Delfi, è il centro attorno a cui ruota la narrazione, perché questo progetto occupa il cuore e la mente di Viviana e la sollecita alla ricerca del sé interiore e del senso del proprio essere nel mondo attraverso la com-prensione del dolore, del male di vivere a lei causato dall'indifferenza e dalla mancanza d'amore dei suoi genitori, della madre, soprattutto. E sarà proprio l'amore, nel suo stato di completezza, a compensare l'assenza del medesimo nobile sentimento; a infiammarla, a maturarla, a salvarla: un sentimento fortemente desiderato, nato e cresciuto come un bambino, come un figlio, e avvertito e praticato  a 360° con passione e abnegazione.  Ma la via, che guida i passi di Viviana verso il riconoscimento e la pienezza del proprio essere, è il dolore intimo, personale, ed è, soprattutto, la sofferenza degli altri ("Non mi ero mai defilata dalla sofferenza altrui"). Sono le persone che ella incontra nel suo cammino di trasformazione e di rinascita che le consentono di aprirsi all'amore, di accogliere questo sentimento rivelatore della sua anima, del suo spirito caritativo. Ed è un dare e un ricevere: un arricchimento intersoggettivo, generato dalla condivisione del dolore e frutto dello scambio reciproco e disinteressato degli affetti. È in quel penultimo capitolo, intitolato Macchia e Villa Ferraris, che accade l'agnizione: la rivelazione, la coscienza del disegno che Viviana è chiamata a realizzare, per essere, per vivere una vita autentica. E nel nome e nel suo diminutivo categorico è segnato il suo destino! Vivere, per lei, diventa una missione, è prodigarsi per gli altri, per i bisognosi d'aiuto, per ridare l'entusiasmo e la voglia di vivere ai suoi "giovani antichi", per lenire la solitudine di Matteo: il suo dirimpettaio, anziano e paralitico al quale dona il cane Macchia,  quando gli muore Anita, la vecchia cagna, sua unica compagnia e conforto. È qui, in queste pagine, che l'amore trionfa e il romanzo ha il salto di qualità, perché la scrittura, che nel suo corso e tra le righe ha trattenuto la vena più fluente e più intensa di significati, ora esplode e ci commuove con la ricchezza dei sentimenti. La tensione, che inizia col rapporto conflittuale tra Viviana e i genitori; che cresce con la "fuga" della ragazza, la quale abbandona la famiglia e Niko, il suo ragazzo, per ritrovare sé stessa; che è scolpita nel dramma del dolore e raggiunge il culmine con lo svelamento della verità, ossia, della causa del disamore e dell'ostilità della madre verso la figlia, si scioglie nel pathos catturando il lettore, il quale aderisce e si sente partecipe di tanta com-passione. Qui, il dolore, con i suoi risvolti negativi, si ricompone e si trasforma nel raggio di luce di quell'amore, che in sé racchiude l'ampio spettro dei sentimenti positivi: solidarietà, rispetto, altruismo, abnegazione, riconoscenza, amicizia, pietà, passione, cura, fiducia, fede in Dio e negli uomini. E a questo climax ascendente, che occupa anche l'ultimo capitolo, Dalla terra al cielo, si aggiungono, a dargli maggiore intensità, la comprensione e il perdono della madre da parte di Viviana, la quale realizza così quel disegno che la impegnerà per tutta la vita dando a quest'ultima senso e valore ("Dedicai tutta la mia vita al mio progetto d'amore").

      È, questo, un romanzo di tras-formazione perché la maturazione di Viviana, la conquista della parte migliore di sé, il raggiungimento di "un equilibrio e un appagamento interiore autonomo" sono il frutto della trasmutazione del dolore nella virtù della carità, ossia, dell'amore, che unisce gli uomini con Dio e tra loro. S'intuisce, fin dal primo capitolo, che la salvezza è una strada praticabile, perché in Viviana c'è, sì, sofferenza e inquietudine, ma anche determinazione a superarle e la sua voglia di vivere non viene mai meno. Ella non lascia "marcire" dentro di sé il dolore, il quale, anche se mina i suoi sogni e mostra l'inganno della vita che le appare tragica e infelice, tuttavia, si fa occasione e sprone per il cambiamento, per la realizzazione di "qualcosa di utile e costruttivo". E così sul dolore crescono la promessa e la speranza di una vita vera, autentica. La fuga di Viviana è il desiderio di un luogo lontano dalla quotidianità, dalla "normalità", dall'effimero, dalle false relazioni e apparenze, ma non è mai isolamento, distacco dalla realtà: ella non rompe col suo passato prossimo, perché è su questo passato che costruisce il presente, una migliore condizione di vita, che è esito della sua ricerca interiore, di questo "cammino", del quale la "fuga" è metafora e "luogo" ideale da cui ricominciare. Altri luoghi, che la sorreggono, che le danno compagnia e conforto nei momenti più bui, sono i paesaggi naturali: il mare e la spiaggia, soprattutto, e quella "linea d'orizzonte che divide il mare dal cielo" e la sollecita alla meditazione, ad andare lontano dentro di sé e com-prendere che "Dio è dentro di noi senza alcun confine". Nella contemplazione della bellezza Dio si manifesta, e anche le piccole cose, apparentemente insignificanti, si fanno accondiscendenti e familiari e acquistano valore se lo sguardo incantato e purificato vi si posa e le coglie nella loro epifania. Così, la scrittura si arricchisce di nuove voci, che parlano nel magico silenzio, in cui solo può avvenire il contatto. E il lettore, attento, è chiamato all'ascolto. E gli viene incontro il linguaggio, che, con la sua semplicità, scava nel profondo facendolo partecipe di verità, di aspetti della vita, che non gli sono estranei e non possono lasciarlo indifferente. Perché vita del mondo, degli altri, di tutti. 

giovedì 23 novembre 2017

Amor perduto. L’Inferno di Dante per contemporanei

di Luisella Saro

Il libro giusto al momento giusto. Direi questo, innanzitutto, dell’ultima opera di Antonio Socci, Amor perduto. L’Inferno di Dante per contemporanei (Piemme). Scelta coraggiosa, la sua: un capitolo introduttivo per fornire la chiave di lettura (perduta, spiegherò dopo brevemente perché) e poi 34 capitoli, uno per canto, in cui le terzine dell’Inferno dantesco diventano prosa.
Sacrilegio, dirà qualcuno. Dirà, anzi, ha già detto. In effetti è questione dibattuta, se sia corretto, se abbia un senso trasformare la poesia in prosa. Annose questioni, pure, le corrette modalità di traduzione da una lingua all’altra, o dal volgare all’italiano corrente. Ognuno dice la sua, e non se ne viene a capo. Nelle traduzioni e nelle parafrasi, ovvio, si perde un sacco; se poi si ha a che fare con una impalcatura rigorosa come la Commedia e le sue terzine dantesche, il rischio in effetti è enorme. Però, c’è un però. La Disney, anni fa, ha pubblicato una collana di classici in fumetto (Odissea, Divina Commedia, Orlando Furioso, Gerusalemme liberata, Promessi Sposi… per citarne solo alcuni), nata come parodia, ma che si proponeva di offrire «una chiave divertente per rileggere, riscoprire o, perché no, avvicinare per la prima volta i principali scrittori di tutti i tempi».
Senza scomodare altri, credo che, fosse ancora vivo Umberto Eco, autore del Superuomo di massa e di Apocalittici o integrati, non avrebbe problemi a difendere quella scelta editoriale. Per qualcuno, quei fumetti sono stati il primo passo, curioso e avvincente, per accostarsi all’opera nella sua integralità. Ma torniamo a noi.
Arrivati a pagina 225 del libro di Socci, quando la visione dell’Inferno dantesco è stata colta nella sua completezza, accostarsi alle terzine nel volgare del Trecento sarà impresa meno ostica. Ma il pregio dell’opera non è solo questo.
Da leggere e rileggere il primo capitolo che, come dicevo, fornisce la chiave di lettura dell’opera, che nel tempo è andata perduta. L’Inferno dantesco oggi piace per la presenza delle sue stravaganti figure mitologiche, per gli scenari di fuoco, per il gergo talvolta scurrile, perché, del viaggio, Dante racconta ciò che vede e ciò che sente, ed è il peggio del peggio. Roba da fare accapponare la pelle. E poi lo dicono le statistiche: piace più l’Inferno del Purgatorio e del Paradiso, considerati troppo complessi. L’Inferno attizza di più. E scusate il gioco di parole.
L’Inferno, però, è spesso raccontato, nelle aule e fuori, come resa dei conti, come la vendetta dell’esule che se la prende con i suoi “nemici”. Oggi – Benigni docet – viene letto sempre più in chiave allegorica, spesso edulcorato. Sapete il gioco «facciamo che io ero…?» Tutto finto, insomma. Una bella storia.
Invece no. In Amor perduto, Socci ricorda che la Commedia si può comprendere solo calandosi nella cultura, nella mentalità da cui è sgorgata, il Cristianesimo. Recuperando dunque il senso del peccato, del giudizio e della misericordia di Dio, della libertà dell’uomo, e soprattutto del viaggio, che è percorso di conversione.
Non voglio anticipare troppo, ma troverete, in questo libro, pagine splendide che aiutano a capire il senso della traversata dell’Inferno, o ad andare a fondo del legame tra Dante e Virgilio e tra Dante e Beatrice («come è possibile», si legge a pagina 9, «che un incontro apparentemente fortuito tra due fanciulli nella Firenze del Duecento in un giorno determinato possa contenere in sé il modello della salvazione universale, senza per questo perdere nulla della sua concreta storicità?»)
Ma, scrive l’autore, «l’Inferno dantesco è certamente un pugno nello stomaco per l’attuale mentalità politically correct. I peccati e i peccatori che vi si trovano sono sottoposti a una condanna che oggi l’ideologia dominante rifiuta e addirittura trasforma nel suo contrario». In un’epoca, dunque, in cui bene e male per noi pari son, e nascono come funghi alibi e attenuanti, tanto che si tende a credere che un tapis roulant ci porterà in automatico tra le braccia di Dio (ad indiarci, direbbe Dante), è bene che qualcuno ci ricordi che non è così: l’Inferno esiste (e se non credete a Dante pensate alle Scritture, ai Padri della Chiesa, ai mistici, alle esperienze di pre-morte…) ed è, scrive Socci, «la garanzia che siamo davvero liberi e che siamo davvero amati infinitamente perché i nostri atti, ogni nostro atto, ogni nostra scelta, decisione o pensiero, ha un valore infinito agli occhi del Padre: infatti ogni nostra scelta decide il nostro destino eterno».
Anche il riconoscimento dei peccati, certo, e il pentimento, e la confessione delle colpe, e il proposito di non commetterle più, e la consapevolezza di essere stati amati e soccorsi nella nostra selva oscura, e salvati. Tutto. Perché la misericordia divina non fa a meno della nostra libertà e del nostro sì.
Mi accordo che sto procedendo un po’ a zig-zag, ma è quello che ho sperimentato per tutta la lettura: salti del pensiero tra terra e Cielo, tra l’orrore dell’Inferno e il desiderio di Paradiso, tra il pantano della colpa e il proposito di espiarla. In questo pellegrinaggio, anche mio, dentro e fuori l’opera di Dante, dentro e fuori il testo di Socci, mentre ripenso all’ultimo verso dell’Inferno: «E quindi uscimmo a riveder le stelle», guardo la copertina di Socci, con quelle mani tese, e rileggo il titolo. Cos’è, in fondo, l’Inferno (di Dante e nostro, e di tutti gli uomini di tutti i tempi) se non questo: dire deliberatamente no e, dunque, perdere per sempre l’Amore che bussa alla nostra porta senza stancarsi mai?

da: www.libertaepersona.org

Gli anni oscuri della Sindone. Un libro di Ada Grossi. È un romanzo (sapiente,) ma non lo sembra proprio…

di Marco Tosatti

Cari amici e nemici di Stilum Curiae, oggi il vostro anfitrione ha deciso di prendersi un giorno di vacanza dalle usuali vicende in cui siamo immersi e rivolgere lo sguardo indietro, nel tempo, al sacco di Costantinopoli del 1204. Complice di questa boccata d’aria è un bel romanzo di Ada Grossi, una medievalista, che ha voluto mettere al servizio di una fiction letteraria le sue conoscenze professionali: è laureata in Architettura, è dottore di ricerca in Diplomatica, è ricercatrice di storia medievale, paleografia e storia della Sindone, ed è autrice di alcune monografie, tra cui un saggio di storia urbana milanese, di alcune edizioni di fonti documentarie medievali milanesi e lodigiane e di numerosi articoli scientifici d’ambito paleografico e di storia lombarda, oltre che relativi alle vicende della Sindone all’epoca di San Carlo Borromeo. Insomma, una persona seria.
“149 anni. Gli occhi che guardarono la Sindone”, (pagine disparse, Meravigli, 228 pagine € 15.00) è il titolo del romanzo. E i cento quarantanove anni sono quelli degli anni oscuri: cioè il lungo periodo che separa l’ultima data certa del lino, venerato a Costantinopoli, e scomparso nel sacco del 1204, con la sua riapparizione a Lirey, in Francia, come proprietà di Geoffroy de Charny nel 1353. E, di conseguenza, l’inizio della sua storia documentata come Sindone, reliquia fra le reliquie, il telo che molto probabilmente – certamente per alcuni – ha avvolto il corpo di Cristo.
Il romanzo si apre proprio a Costantinopoli, durante il saccheggio crociato, quando Giovanni, un giovane veneziano, salva dalla violenza di un francese Sofia, una giovane bizantina. Prendono la sacca di cuoio dell’energumeno gallico, e fuggono. Da quel momento ha inizio una travolgente cascata di avvenimenti, la cui chiave centrale è l’incontro con un gruppo di Templari, diretti in Europa. Le avventure – perché veramente di avventure si tratta – di Giovanni e Sofia, si intrecciano a quelle della Sindone, in scenari sempre diversi. Aleppo, Milano, Hama, Homs, Venezia, la Francia.
Ma in questa storia centrale, quella del misterioso viaggio da Costantinopoli a Lirey, si intrecciano storie e spunti e misteri diversi, in un caleidoscopio di situazioni e personaggi in cui l’abilità dell’autrice è tale che è veramente difficile distinguere quello che è frutto della sua più che ventennale esperienza professionale, e quello che appartiene alla sua fantasia letteraria. Con personaggi realmente esistiti e altri ovviamente immaginari, e il ruolo giocato da un monaco, e da Milano, e da una misteriosa pergamena, un carmen figuratum in lode della Santa Croce, una cui versione, scoperta dall’autrice nell’Archivio di Stato e attribuita ad un preposito della basilica di Sant’Ambrogio, morto prima del 1205 (quindi subito dopo il sacco), arricchiscono un panorama ricco di avvenimenti e suggestioni.
Chi è appassionato, come chi scrive, di Sindone, Medio Oriente, Aleppo e storia può trovare un vero piacere nelle pagine del romanzo. Che, ovviamente, vi consigliamo di leggere.

da: www.marcotosatti.com

mercoledì 22 novembre 2017

Emanuele Insinna, "Petrafennula" (Ed. Thule)

di Sandra V. Guddo

Nel mondo impazzito e fortemente inquinato, e non parlo soltanto di inquinamento atmosferico, nel quale siamo costretti a vivere c’è una specie che è a rischio di estinzione: la figura del Poeta!
 Una specie senza la quale il mondo sarebbe travolto ed ingoiato nel buco nero del nulla. Il poeta è colui che crede ancora nella forza del Sogno, pur restando saldamente ancorato alla realtà e si prodiga, lottando con le armi dell’Arte, percorrendo le vie dello stupore, per la compiutezza della soaltà, come direbbe il poeta filosofo, Guglielmo Peralta. Un neologismo da lui coniato per indicare la fusione della realtà con la sua parte migliore, cioè con la dimensione del sogno. Ma già William Shakespeare, qualche secolo fa, nel dramma “ La Tempesta” aveva affermato che “ siamo fatti della stessa materia di cui sono fatti i sogni e nello spazio d’un sogno è racchiusa la nostra breve vita”.
Ed io aggiungo che la nostra esistenza, senza sogni, rimarrebbe sterile come un albero senza frutti!
Ovviamente, mi riferisco a quei pochi poeti degni di tale nome, come Emanuele Insinna, che nonostante la bruttura, la sporcizia e la violenza gratuita che caratterizzano il nostro mondo, ha saputo mantenere il contatto con la Bellezza del Creato, che ritroviamo integra nei suoi versi. Ha saputo ascoltare la voce del divino che è in ciascuno di noi per non dimenticare che siamo capaci di sentimenti ed emozioni positivi e non soltanto di istinti brutali.
Ma quali sono i sogni del nostro poeta? Tenterò di rispondere a tale domanda più avanti.
 Ora occorre restare vigili perché c’è un’altra specie che è a rischio di estinzione e senza la quale non c’è alcuna possibilità di sopravvivenza per il genere umano. Questa specie è un piccolo operoso insetto: l’Ape, come scrive lo stesso Insinna in una lirica che chiude questa silloge (si tratta di una ninna nanna dedicata al piccolo Emanuele) “ api nica nica suca u meli ‘na lu ciuri “.
Senza l’azione operosa dell’ape che impollina fiori e piante, la vita sulla Terra scomparirebbe in poco tempo. Le api, come affermano concordi gli scienziati, sono gli indicatori biologici dello stato di salute del nostro pianeta. Lo stesso discorso vale per il Poeta: finché ci saranno poeti ed api abbiamo ancora un filo di speranza.
Scusate se ho voluto insistere su questo parallelismo tra ape e poeta Insinna perché Egli, non so quanto consapevolmente, ha reso omaggio alle api più di chiunque altro, creando sculture tridimensionali in cera, prodotta dalle api. Egli è stato ed è uno scultore ceroplasta. Ha anche scritto un saggio nel 2014 su “ Cera, ceroplasti e cirari” ottenendo diversi riconoscimenti e premi.
E come se non bastasse la Petrafennula, che guarda caso, è il titolo della silloge poetica che questa sera presentiamo: “ Petrafennula dura e duci è a puisia”, è un dolce tipico siciliano, di origine araba, a base di miele. Miele d’api! Così con questo libro E. Insinna riesce a creare un ponte di empatia con i suoi lettori, un legame, un colloquiare intimo e familiare che tocca la mente, il cuore e lo stomaco di chi lo legge.
A ben guardare questa ape Insinna ha scelto di esprimersi nell’antica lingua dei nostri padri: il siciliano e lo fa richiamando come suo modello di riferimento il grande Ignazio Buttitta, poeta di piazza per eccellenza. Questo è il sogno del nostro autore! Impedire che la lingua dei nostri padri si perda nei rivoli di ristretti ambiti dialettali o peggio che venga del tutto obliata dalle nuove generazioni.  Ricordando e facendo tesoro della grande lezione di Ignazio Buttitta così efficacemente espressa in “ Lamento per il Sud “, l’Autore ne riporta alcuni fondamentali versi nella sua nota introduttiva, quasi come monito: “ Un populu/ diventa poviru e servu/ quannu ci arrobbanu a lingua/ addutata di patri/: è persu pi sempri.”
 Insieme alla lingua siciliana si perderebbero anche le più significative tradizioni del nostro immenso patrimonio culturale. Canti e cunti che arrivano dalla tradizione orale, i truvaturi di santi, e tutto ciò che è legato alla nostra etnostoria. Per questa fondamentale operazione culturale Insinna sceglie non il siciliano aulico, arroccato, immobile nel tempo, ingessato in forme espressive cadute in disuso ma un siciliano verace che, come ogni altra lingua, si è evoluto nel corso dei secoli, si è modificato lasciandosi contaminare dal parlato della gente per strada e nelle piazze, dall’uso quotidiano.
Se volessi adoperare una metafora per rappresentare l’evolversi naturale di una lingua, utilizzerei quella di un treno in corsa che attraversa città e villaggi, in lungo e in largo, percorrendo in ogni direzione la sua terra. Un treno affollato dove tanti viaggiatori si incrociano, si incontrano e si scontrano. Alcuni scendono dal treno mentre altri salgono con il loro bagaglio di novità. Sono le parole: fonemi e grafemi ancora poco conosciuti che vanno a sostituire quelli caduti in disuso, soppiantati dalle mode o semplicemente sostituiti da etimi coniati in ambiti specifici. Sono i cosiddetti linguaggi settoriali propri della scienza, della tecnologia, della medicina; altri provengono dal villaggio globale nel quale siamo immersi, altri ancora dal nuovo modo di esprimersi in rete. A volte si fatica ad esprimersi interamente in siciliano ma ciò non vuol dire che la nostra lingua debba essere archiviata. Di ciò è fermamente convinto Emanuele Insinna  che utilizza un siciliano comprensibile a tutti perché il poeta di piazza ha il dovere di essere vicino alla gente di Sicilia. Terra che egli ama profondamente in modo autentico, senza retorica, senza inutile enfasi, senza forzature e per la quale, impegnandosi in prima persona, è pronto a battersi per contribuire al suo risanamento di valori.
Lo si capisce subito dal dipinto in copertina, il cui autore Leonardo Albanese, anche lui siciliano doc, riporta immagini che sintetizzano la migliore sicilianità, la sua storia e le sue tradizioni: sullo sfondo i paladini, eroi dell’epopea siciliana, in primo piano la pretafennula, avvolta nella sua bella carta colorata e, in basso, un vassoio colmo di fichidindia.
Dal mio punto di vista nessun altro simbolo come questo frutto rappresenta la sicilianità; pungente e doloroso all’esterno, dolce e succoso all’interno. E’ l’ossimoro perfetto per raccontare in versi come fa Insinna tutto il Bene e tutto il Male di cui è capace Il siciliano che eccelle in entrambi i casi come l’Innominato dei Promessi Sposi. Nella sue 70 liriche egli canta la sua terra “ dura e duci  è la Puisia” come la Sicilia. A tal proposito vorrei ricordare una dichiarazione dello stesso Insinna a chiarimento di quanto finora abbiamo esposto:
“La poesia è allo stesso tempo la radice e il fiore di tutti gli altri sistemi di pensiero. È ciò da cui tutto scaturisce e tutto adorna; ciò che, se inaridisce nega frutto e seme e priva il mondo sterile del nutrimento, impedendo ai germogli dell’albero della vita, di fiorire”.
Una poesia spontanea, sincera che emoziona sia che tratti temi civili in cui affiora tutto il suo dolore e il suo sdegno per i delitti eccellenti e per le stragi impunite, sia che indugi sulla rappresentazione quasi pittorica dei paesaggi incantevoli della Sicilia, sia che si elevi a toni altamente spirituali come nella poesia dedicata a Giovanni Paolo II, dove emerge l’appello ai potenti del mondo ad abbattere i muri che separano i popoli e si affermi la volontà di pace. Sia che si soffermi con dolcezza a poetare sui suoi sentimenti ed affetti familiari più intimi. In tal modo Emanuele Insinna si rivela, come sostiene Tommaso Romano, nella prefazione al volumetto “ autentico lirico identitario (…) poeta civile di straordinaria pregnanza, dotato di sicura forza morale, capace con i suoi versi di farci partecipi di un pathos tanto intenso, quanto capace di motivare riflessioni e ulteriorità responsabilizzanti, verso quello statuto umanistico che resta la più significativa consegna e il volano che è proprio dell’intellettuale che si interroga, percorrendo le vie maestre per una risorgenza integrale della comunità, attanagliata com’è da offerte e proposte minimalistiche che la snaturano verso un livellamento che rischia di essere obiettivamente senza uscite.
Ma c’è una poesia, consentitemi almeno di citarne una, che mi ha colpito più di ogni altra, dedicata alla donna: Fimmina (pag. 103 ) che rivela tutta la sua attenzione, la considerazione, l’amore e il rispetto vero, non di facciata, verso la donna, scintilla sempre accesa, vera fonte di vita. Ed in tempi di violenza fisica e psicologica, di stupri e di femminicidi non è poco!

Per cui personalmente sento di dovere ringraziare l’uomo e il poeta Emanuele Insinna.

martedì 21 novembre 2017

Maria Concetta Ucciardi, "Il crepuscolo dell'alba" (Ed. Thule)

di Giuseppe Bagnasco

Pubblicare una raccolta di poesie che non parlino di argomenti massificati dalla retorica ma che offrono come in uno scrigno ovattato parole e sentimenti, è certo un aprire il proprio cuore, un denudarsi quasi senza pudore, neanche un velo, tale da  esentare il lettore da ambigue interpretazioni. E’ questo che ci offre Il crepuscolo dell’alba di Maria Concetta Ucciardi. Un crepuscolo che si offre allo sguardo nel momento in cui il cielo non è più notte ma non è nemmeno giorno apparendo quindi come quell’attimo di sospensione che si intravede quando ancora il sole non è ancora sorto e che si annuncia con“ l’Aurora dalle dita rosate”, come in un epiteto, la descriveva Omero. Un’aurora che apre lo scenario al sole che finalmente offre la vita ad un altro giorno e che la poetessa in un suo verso sublima:“Al sorgere del sole/ alzo le braccia al cielo per ringraziarlo”(v. Un amaro giorno). Ma più che l’aurora, è l’alba, il primo chiarore, che interessa l’anima della poetessa perché l’alba è già luce “abbagliante” (v. Sogno e Speranza) “ foriera di pace, luce della salvezza, che illumina la vita” (v. Liberi) insieme ad attimi di speranza, “un canto che il vento sparge per l’universo” (v. Alba foriera). Pertanto una luce che illumina tutto, fiori, colori, e che dona brio e si fa “giullare nelle piazze” e questo fino a che l’astro celeste non si piega all’incedere dell’imbrunire. E’ questa l’ora in cui i colori sfumano, le ombre avvolgono i contorni e la malinconia si fa strada. E’ questo il momento dei ricordi, dei rimpianti, di ciò che poteva essere e che non fu e allora, afferma la Nostra, è meglio lasciarsi cullare dal fruscio delle onde o dalla voce del vento che raggiunge il cuore, sebbene questi non risultino bastevoli a colmare il vuoto che s’avverte: “ nulla può colmare l’attesa / mentre la solitudine abbranca il cuore” (v.L’attesa). Una poesia vera e struggente questa di Maria Concetta Ucciardi che non teme di nascondere i suoi più riposti sentimenti, che non offre nessuna remora nel parlarci di un sogno rubato dal destino o di un perduto amore che dal cuore riecheggia come una “ voce dal sen sfuggita” di metastasiana memoria. Ma è una malinconia a tempo poiché l’alba tornerà a portare nuova luce, a risvegliare quell’energia capace di scuotere “ quel filo sottile che lega l’animo al corpo”  (v.Zampilli) e disinnescare così quella dissociazione apportatrice di infelicità. Una infelicità figlia del tempo perché “con il senno dell’età avanzano le incertezze della vita” (v. Dall’infanzia alla maturità) ma che mette di conserto in luce, la maturità cosciente di un’anima che sa guardare avanti e che riesce, anche se con velata malinconia, a distillare i ricordi del passato senza creare sconvolgimenti alla realtà. Il poetare della Ucciardi non è di stampo crepuscolare e nemmeno connotato da pessimismo ma frutto di riflessione, un offrire volitivamente al lettore  uno spaccato dell’animo tanto da fargli esplorare quel profondo che in “altro” appare invisibile. Alla fine, per tornare al titolo, ciò che fa perno nella sua poetica è la speranza che diventa certezza, quando il crepuscolo dell’alba, lo ripetiamo, annuncerà lo splendore del sole, che è vita, che è luce, che è tutto ciò che occorre perché l’animo percorra quella speciale via ove sia possibile riservare un posto anche alla musica. Musica che, afferma la poetessa, si fa poesia quando “come una nenia /la sera/ mi trascina/ su di un’isola lontana/… a scoprire il mistero/ per portare allegria a tutta la gente” , o come  “rapita dall’armoniosa natura/ dalle onde si lascia baciare” (v. Canzone del mare) o infine come in un sogno ad occhi aperti dove “ il richiamo del mare/ mi spinge a volare/ ed io…unifico al vento la voce del cuore” (v. Il mare all’imbrunire). Una perfetta osmosi con la Natura ma non immune dal sottrarre l’Autrice dal sottolineare come in vicendevoli situazioni va a specchiarsi il mutevole destino. Questo sì invisibile, ma che la poetessa in alcune liriche li materializza nei fenomeni dolenti o funerei delle condizioni di un senzatetto o di un migrante o delle vite falciate proditoriamente nella disumana e odiosa strage di Nizza. Questo vedere e mettere in parole queste sensazioni, questo sentire e fare emergere dal cuore desideri e speranze, tutto è riposto in quell’alba apportatrice di pace e amore e che in fondo, nella sua molteplice complessità, veste la poetica di Maria Concetta Ucciardi. In definitiva Il crepuscolo dell’alba vuol essere quindi quello scrigno dove si intravede quell’attesa del sempre nuovo giorno foriero di risposte e rivolte, attraverso liriche e parole, solo a chi è in grado di comprenderle e  saper vedere nel crepuscolo dell’alba quella speranza che la poetessa ripone possa essere percepita anche come Alba dell’Umanità.

lunedì 20 novembre 2017

Maria Favarò, "Visione tra le ombre" (Ed. Thule)

di Giuseppe Bagnasco

Chiedersi cosa è l’amore è come esigere una risposta che non può prescindere da chi la pone. Quindi non ha valenza né sociologica, né etica e neppure letteraria restando quindi improntata ad una personalissima percezione e pertanto non definibile. Qualcuno ha detto che l’amore è per persone pronte a sopraffarsi perché, come afferma Freud, alla base di tutto c’è il desiderio sessuale, l’attrazione di possedere il corpo altrui, anche in senso lato. Francesco Alberoni in un suo aforisma “incontrarsi per dirsi addio” ne dà la conferma dando all’addio la fine dell’attrazione e quindi dell’amore con conseguenze devastanti per chi subisce l’abbandono, tale da portarlo all’infelicità.  Salvatore Lo Bue definisce l’infelicità la separazione tra sogno e realtà e Visione tra le ombre rappresenta la “scarnificazione” dell’infelicità. Maria Favarò con questa raccolta di appena 33 poesie, che segue a distanza di un anno Segmenti d’infinito (Thule – 2016 Palermo), mette in poesia conflitti esistenziali che sfociano all’ultimo respiro in tormenti e passioni, due giganti che generano impietosamente una sofferta inquietudine. La poetessa delimita le sue liriche tra “Diva” dove si staglia una personalità dirompente ed egocentrica e “Quiescenza” che denota una resa incondizionata alla vita con l’emblematico ultimo verso della raccolta, che recita tace il cuore e nella mente cade l’oblio.
   In mezzo tutto un fuoco di tormento che divora l’animo e dove l’anima non si quieta e in balia di sé stessa muore (v. Inquietudine). E’ l’ennesima lotta dello spirito Amore con il corpo Eros che evidenzia come tutta l’opera sia pervasa da un pessimismo imperante e ciò a causa di “Amore” che allontanandosi dal corpo crea un vuoto difficile da colmare. Ciò fa precipitare lo spirito in una spirale di perdizione, indecifrabile e impalpabile e alla vita, rischiarata appena da un pallido sole, non resta che una semioscura “Visione tra le ombre”. Eppure tra i restanti trentuno titoli, tutti formati da una sola parola, ce n’è uno che lascia sperare e a cui la poetessa forse si affida: Pandòra. In quel vaso mitologico serpenti senza nome (ma Lei sa chi sono o cosa rappresentano) strisciano liberi. Tutto è perso nelle tenebre. Ma se la Nostra ne sceglie il titolo, sa quindi che al fondo di esso resta l’ultima dea: La Speranza. Quella speranza che in Big Bang immagina dare la stura a un nuovo Inizio, dove la vita si reincarna o all’illusione che almeno uno spiraglio possa aprirsi Sei tornato/ languido amore/ tormento delle mie viscere (v. Spirale) e dove l’amore  si fa materia come desiderio di vogliose labbra(v. Bramosia). Ma è una voce isolata, un grido, un lampo di luce (v. Squarcio) che si assopisce rifugiandosi nell’unico traguardo possibile, quello della solitudine e raffigurandosi come un’isola tra le isole: L’isola del nulla. Questa debolezza, causata secondo i genetisti, da una scarsa produzione di serotonina (l’ormone che produce il languore), è dovuta al fatto che la protagonista non riesce a liberarsi del passato, rimanendo imbrigliata nella catena dei rimpianti.
   Un graffito sul muro di un sala d’attesa recitava: “Ci sono persone che entrano nella tua vita / ci si soffermano un po’/ e poi se ne vanno / E tu / non sei più lo stesso”. Ecco un diversa espressione dell’infelicità, ecco come una separazione non voluta si traduce in tormento per chi la subisce e che appare tanto grande da farla percepire all’animo errante come la caduta dentro una sorta di pozzo del silenzio senza che si intraveda il fondo e senza un appiglio a cui aggrapparsi, salvo alla fine l’oblio. Un buio tanto più fitto per una sconfitta così grande da fare intravedere l’ultimo passo teso alla morte (v. Stradario) come una via d’uscita, come unica possibilità di mettere fine a tutto. Certo qui non siamo all’evocazione delle mitologiche Medea abbandonata da Giasone o Arianna abbandonata da Teseo o infine della suicida Didone abbandonata dall’Enea virgiliano, ma del personaggio più consono della manzoniana Ermengarda, un’anima lacerata ma che tra tormenti e rimpianti di lieti trascorsi non riesce a liberarsi dall’eros che in lei ancora persiste con la conseguente e vana aspirazione di “sempre un oblio di chiedere/ che le sia negato..” Un eros ancora presente in ricordo di un amore che allora sapeva di eternità. Ed è proprio questa sensazione di eternità che, dopo avere raggiunto vette sublime, di colpo si eclissa perdendosi nel tempo ma che tuttavia produce infinita inquietudine. Sensazioni appunto perché l’amore non è eterno in quanto i sentimenti sono mutevoli. Al contrario lo sarebbe se fosse possibile cristallizzarlo al momento dell’innamoramento quando il languore prende il sopravvento sul ragionevole discernimento.  E allora resta solo una speranza, proprio quella rimasta nel vaso di Pandòra e che la Favarò, nella trasposizione poetica, affida all’oblio tanto da farle dire che per quanto gridi la sua disperazione, per quanto pianga lacrime amare, non giungono voci (v.Al di là del muro) e pertanto tutto cade nel nulla come un fiocco di neve (che) non fa rumore (v. Quiescenza). Finisce così, come avevamo iniziato queste note, con la ricerca dell’oblio e con la rassegnazione che certo verrà, allorquando il Tempo, il Grande Giustiziere, verrà a porre riparo ad un’anima inquieta, Lascio/ la vita nelle tue mani/nell’attimo del suo fiorire (v.Risurrezione).
   Adesso, dopo avere esaminato le opere, il corpo, l’Eros, possiamo gettare uno sguardo allo spirito, l’Amore. Oggi scrivere di amore, per giunta di tormento d’amore, in una società dove il relativismo impera su tutto, che squarcia i sentimenti, traducendoli a convenienze spesso economiche, è come gettare un sasso in uno stagno e guardare le concentriche onde che si allontanano verso la riva fino a morirne. Maria Favarò l’ha fatto e l’ha fatto per riscoprire e tradurre in poesia il sentimento tra i più nobili dell’uomo, qual’è appunto l’amore. L’amore con tutte le sue sfaccettature fatte di attrazione, seduzione, sogni, gioie, estasi, delusioni, tormenti, ricerca d’oblio, prostrazioni e resurrezioni dell’animo, con in ultimo la Speranza. Speranza che è anche nel titolo di un saggio di Maria Patrizia Allotta, Nel buio aspettando l’alba. Speranza che non muore,  che qui firma la prefazione  e  che sembra speculare, ma in maniera meno pessimista, alla presente raccolta della Favarò.
    E’ opinione conclamata che la poesia scaturisce vivida e spontanea quando la tristezza evade dal nostro intimo e si fa voce. Non esiste un creare senza un dire, afferma il Lo Bue, e, aggiungiamo noi, perfino nel Vangelo di Giovanni e dove, al limite del paradosso, si legge “In principio fu il Verbo”. E quindi il verbo poetico dell’Autrice, la poiesis nell’accezione greca, non è esso stesso creazione?. La sua poesia, con il supporto delle tante metafore  e dei tanti  elementi del creato presi a prestito per i suoi pensieri, vuoi che si chiami luna, o mare o vento, offre figure spesso antropomorfe (..occhi della notte…la grigia luna lusinga…il sole nero..) ma dove c’è solo un’unica voce che si leva, che chiama, che grida, che chiede, per i tanti spiriti che albergano, che confliggono, che evadono dalla sua anima, irrequieta sì, ma profondamente umana. E’ la voce di una donna che ama, che soffre, che cerca  un cammino, una luce, per quanto fioca, che le indichi una strada. Un grido che si leva e che si pone,  come afferma Arturo Donati, come richiesta di risposte, e dove la poesia, al pari della musica, come afferma Aldo Mausner, ha la facoltà di rendere visibile l’invisibile. E invisibile è il momento del distacco del sogno dalla realtà e che si materializza e si avverte solo quando ne costatiamo la mancanza che sfocia in dolore, quel dolore intimo e spesso inconfessabile e conosciuto solo da chi lo prova. Da lì parte la ricerca  della ricomposizione del sogno con il reale, del corpo con lo spirito, per farli convivere sì da farne un tutt’uno. E’ questo il segreto che porta alla felicità e, per dirla come Epicuro, al “piacere” di goderla anche se la vita a volte, come lamenta il Leopardi, è spesso governata da una Natura matrigna. Ma è la vita e nessun’altra cosa la può sostituire. Maria Favarò la canta, pur se la interpreta, in uno speciale contesto personale, come una visione tra le ombre, servendosi di un verso libero per pensieri liberi, liberi da ogni condizionamento, facendone “scarnificata poesia del travaglio dell’esistenza”, come attesta l’Editore Tommaso Romano nella post-fazione, tanto da rendere la poetessa una vera e valente discepola della “vecchia” ma pur sempre giovane e insostituibile Musa che attende ai compiti dell’amore.  


venerdì 10 novembre 2017

Toniella Lamartina Giacalone, "Le briciole della storia"

di Maria Patrizia Allotta

“Le briciole non provocano rumore e vengono disperse facilmente da un fiato di vento e dalla ramazza del tempo. È gran fortuna se talune di esse riescono a conseguire il privilegio di una pur breve sopravvivenza tornando a rotare nel sistema solare nel quale e per il quale ebbero la loro parte e la loro luce”.
   Così si legge nel libro di Toniella Lamartina Giacalone intitolato Le briciole della storia.
   La logica filosofica dell’Autrice - che sembrerebbe allieva tanto di Anassimandro di Mileto quanto di Eraclito - è convincente, infatti, le briciole appartenenti a qualsiasi ente sono taciturne, riservate, mobili, minuscole. Spesso non reggono al ritmo del tempo, a volte si disperdono, in taluni casi svaniscono per sempre, in altri, invece, ritornano - magari in un momento successivo - per far parte nuovamente di quell’Universo grazie, probabilmente, a quel movimento incessante, a quella indicile forza, a quell’infinito vigore che anima eternamente il mondo.
   Il sinolo di materia e forma della briciola, dunque, potrebbe diviene, trasformarsi, cambiare, ma certamente la sua essenza rimane intatta nel tempo se determinata da quella legge assoluta governata dal logós.
    E sicuramente dal logós sono governate le schegge di quei ricordi, le scaglie di quella memoria, le squame di quella reminiscenza che - se pur trascurate, obliate e omesse - riaffiorano improvvisamente nella mente di chi le ha vissute intimamente per essere poi altrettanto intimamente rievocate o magari donate al prossimo semplicemente per il gusto di esserci.   
   E di ápeiron, di pneuma vitale, appunto di logós, sono le briciole di Toniella, ritrovate - non per caso ma per destino - in quello studio “pieno di ricordi e vita” del suo amato Manlio, dove in uno “scrigno”, recupera alcuni essenziali frammenti memoriali capaci non solo di ricostruire le sue vicende personali fatte di gioie e affanni, ma anche di rigenerare la storia comunitaria fatta ora di felicità ora di dolore, ora di odio ora di amore, ora di vita ora di morte, in una visione totalizzante fortemente suggestiva.   
    Non granuli preziosi, né perle rare, neppure pepite insolite, allora, quelle che troviamo nel libro della Lamartina Giacalone, ma umilissimi pezzetti, minuzzoli, semi - presentati al lettore attraverso un linguaggio chiaro, scorrevole, quasi confidenziale e per questo infinitamente vero - che riconducono alla magia delle tessere di un mosaico, le quali prese singolarmente potrebbero risultare insignificanti ma unite insieme, nella meraviglia del tappeto musivo, risultano indispensabili, necessarie, fondanti per le manifestazioni transeunti. 
     Un mosaico di storie, si diceva, raccontate - in un’anomala stazione ricavata, tra la fantasia e la disperazione, nei meandri di un ospedale palermitano - da malati dimessi ma rispettosi, trascurati e ignoranti eppure saggi e virtuosi, stanchi tuttavia ancora vivi, che insieme riescono a intessere un intreccio insolito di soggettività e oggettività, concretezza e fantasia, realtà e mito, secondo quel modello letterario altamente intellettuale tanto caro al Boccaccio secondo il quale “cortesia par che consista negli atti civili, cioè nel viver insieme liberamente e lietamente, e fare onore a tutti secondo la possibilità”.
   E in effetti, le novelle raccontate liberamente secondo le possibilità di ciascun infermo-narratore, non solo fanno “cortesia” perché propongono un ideale di vita fondato sulla nobiltà e sulla dignità dei modi e dello spirito e su una onestà che è signorile decoro, compostezza e misura intima, ma rappresentano, anche, lo spettacolo vario e multiforme della storia umana che in quanto tale si unisce a quella visione mitica e mistica certamente eterna.   
   Nelle pagine scritte da Toniella Lamartina Giacalone, infatti, pur essendo sottese, le analisi culturali, morali e teologiche e pur non apparendo evidenti le trattazioni sociologiche e psicologiche di fatto, in realtà, l’atteggiamento è quello di chi osserva lo scibile con lucida intelligenza e insieme con intima complicità soffermandosi con maggiore interesse sui modi dell’umano agire, sullo spettacolo sempre nuovo e avvincente della vita, sul destino che si ripete, sulle tradizioni e sul mito, insomma, su quelle briciole della storia raccontate sia attraverso un tono commosso, sia attraverso un tono ironico, tanto attraverso un tono nostalgico, quanto un tono maliziosamente divertito.    
    E certamente ciò che resta al centro dell’esperienza vitale della lettura di questo libro è l’amore incondizionato: quello narrato più o meno consapevolmente dai protagonisti delle novelle, l’amore del “popolo vestito di bianco” nei confronti dei malati, l’amore dei parenti e degli amici a favore dei sofferenti, l’amore coniugale e filiale che spinge l’Autrice a pubblicare il testo in memoria dell’insostituibile Manlio e dell’impareggiabile padre Mariano, valido uomo di cultura, l’amore nei confronti dei più bisognosi tanto da offrire la metà dei ricavi della vendita del testo in parte per l’acquisto di attrezzature per il teatro dell’Istituto Penale Minore “Malaspina” di Palermo ed in parte per l’Unione Italiana Lotta alla distrofia Muscolare sez. di Palermo-Onlus e, infine, l’amore che Toniella dona ai suoi lettori i quali magicamente si ritrovano - tra miti e leggende - in compagnia di muse e ninfe in un onirico mondo greco calato in una realtà tutta autoctona e di autentica dimensione umana.