lunedì 20 novembre 2017

Maria Favarò, "Visione tra le ombre" (Ed. Thule)

di Giuseppe Bagnasco

Chiedersi cosa è l’amore è come esigere una risposta che non può prescindere da chi la pone. Quindi non ha valenza né sociologica, né etica e neppure letteraria restando quindi improntata ad una personalissima percezione e pertanto non definibile. Qualcuno ha detto che l’amore è per persone pronte a sopraffarsi perché, come afferma Freud, alla base di tutto c’è il desiderio sessuale, l’attrazione di possedere il corpo altrui, anche in senso lato. Francesco Alberoni in un suo aforisma “incontrarsi per dirsi addio” ne dà la conferma dando all’addio la fine dell’attrazione e quindi dell’amore con conseguenze devastanti per chi subisce l’abbandono, tale da portarlo all’infelicità.  Salvatore Lo Bue definisce l’infelicità la separazione tra sogno e realtà e Visione tra le ombre rappresenta la “scarnificazione” dell’infelicità. Maria Favarò con questa raccolta di appena 33 poesie, che segue a distanza di un anno Segmenti d’infinito (Thule – 2016 Palermo), mette in poesia conflitti esistenziali che sfociano all’ultimo respiro in tormenti e passioni, due giganti che generano impietosamente una sofferta inquietudine. La poetessa delimita le sue liriche tra “Diva” dove si staglia una personalità dirompente ed egocentrica e “Quiescenza” che denota una resa incondizionata alla vita con l’emblematico ultimo verso della raccolta, che recita tace il cuore e nella mente cade l’oblio.
   In mezzo tutto un fuoco di tormento che divora l’animo e dove l’anima non si quieta e in balia di sé stessa muore (v. Inquietudine). E’ l’ennesima lotta dello spirito Amore con il corpo Eros che evidenzia come tutta l’opera sia pervasa da un pessimismo imperante e ciò a causa di “Amore” che allontanandosi dal corpo crea un vuoto difficile da colmare. Ciò fa precipitare lo spirito in una spirale di perdizione, indecifrabile e impalpabile e alla vita, rischiarata appena da un pallido sole, non resta che una semioscura “Visione tra le ombre”. Eppure tra i restanti trentuno titoli, tutti formati da una sola parola, ce n’è uno che lascia sperare e a cui la poetessa forse si affida: Pandòra. In quel vaso mitologico serpenti senza nome (ma Lei sa chi sono o cosa rappresentano) strisciano liberi. Tutto è perso nelle tenebre. Ma se la Nostra ne sceglie il titolo, sa quindi che al fondo di esso resta l’ultima dea: La Speranza. Quella speranza che in Big Bang immagina dare la stura a un nuovo Inizio, dove la vita si reincarna o all’illusione che almeno uno spiraglio possa aprirsi Sei tornato/ languido amore/ tormento delle mie viscere (v. Spirale) e dove l’amore  si fa materia come desiderio di vogliose labbra(v. Bramosia). Ma è una voce isolata, un grido, un lampo di luce (v. Squarcio) che si assopisce rifugiandosi nell’unico traguardo possibile, quello della solitudine e raffigurandosi come un’isola tra le isole: L’isola del nulla. Questa debolezza, causata secondo i genetisti, da una scarsa produzione di serotonina (l’ormone che produce il languore), è dovuta al fatto che la protagonista non riesce a liberarsi del passato, rimanendo imbrigliata nella catena dei rimpianti.
   Un graffito sul muro di un sala d’attesa recitava: “Ci sono persone che entrano nella tua vita / ci si soffermano un po’/ e poi se ne vanno / E tu / non sei più lo stesso”. Ecco un diversa espressione dell’infelicità, ecco come una separazione non voluta si traduce in tormento per chi la subisce e che appare tanto grande da farla percepire all’animo errante come la caduta dentro una sorta di pozzo del silenzio senza che si intraveda il fondo e senza un appiglio a cui aggrapparsi, salvo alla fine l’oblio. Un buio tanto più fitto per una sconfitta così grande da fare intravedere l’ultimo passo teso alla morte (v. Stradario) come una via d’uscita, come unica possibilità di mettere fine a tutto. Certo qui non siamo all’evocazione delle mitologiche Medea abbandonata da Giasone o Arianna abbandonata da Teseo o infine della suicida Didone abbandonata dall’Enea virgiliano, ma del personaggio più consono della manzoniana Ermengarda, un’anima lacerata ma che tra tormenti e rimpianti di lieti trascorsi non riesce a liberarsi dall’eros che in lei ancora persiste con la conseguente e vana aspirazione di “sempre un oblio di chiedere/ che le sia negato..” Un eros ancora presente in ricordo di un amore che allora sapeva di eternità. Ed è proprio questa sensazione di eternità che, dopo avere raggiunto vette sublime, di colpo si eclissa perdendosi nel tempo ma che tuttavia produce infinita inquietudine. Sensazioni appunto perché l’amore non è eterno in quanto i sentimenti sono mutevoli. Al contrario lo sarebbe se fosse possibile cristallizzarlo al momento dell’innamoramento quando il languore prende il sopravvento sul ragionevole discernimento.  E allora resta solo una speranza, proprio quella rimasta nel vaso di Pandòra e che la Favarò, nella trasposizione poetica, affida all’oblio tanto da farle dire che per quanto gridi la sua disperazione, per quanto pianga lacrime amare, non giungono voci (v.Al di là del muro) e pertanto tutto cade nel nulla come un fiocco di neve (che) non fa rumore (v. Quiescenza). Finisce così, come avevamo iniziato queste note, con la ricerca dell’oblio e con la rassegnazione che certo verrà, allorquando il Tempo, il Grande Giustiziere, verrà a porre riparo ad un’anima inquieta, Lascio/ la vita nelle tue mani/nell’attimo del suo fiorire (v.Risurrezione).
   Adesso, dopo avere esaminato le opere, il corpo, l’Eros, possiamo gettare uno sguardo allo spirito, l’Amore. Oggi scrivere di amore, per giunta di tormento d’amore, in una società dove il relativismo impera su tutto, che squarcia i sentimenti, traducendoli a convenienze spesso economiche, è come gettare un sasso in uno stagno e guardare le concentriche onde che si allontanano verso la riva fino a morirne. Maria Favarò l’ha fatto e l’ha fatto per riscoprire e tradurre in poesia il sentimento tra i più nobili dell’uomo, qual’è appunto l’amore. L’amore con tutte le sue sfaccettature fatte di attrazione, seduzione, sogni, gioie, estasi, delusioni, tormenti, ricerca d’oblio, prostrazioni e resurrezioni dell’animo, con in ultimo la Speranza. Speranza che è anche nel titolo di un saggio di Maria Patrizia Allotta, Nel buio aspettando l’alba. Speranza che non muore,  che qui firma la prefazione  e  che sembra speculare, ma in maniera meno pessimista, alla presente raccolta della Favarò.
    E’ opinione conclamata che la poesia scaturisce vivida e spontanea quando la tristezza evade dal nostro intimo e si fa voce. Non esiste un creare senza un dire, afferma il Lo Bue, e, aggiungiamo noi, perfino nel Vangelo di Giovanni e dove, al limite del paradosso, si legge “In principio fu il Verbo”. E quindi il verbo poetico dell’Autrice, la poiesis nell’accezione greca, non è esso stesso creazione?. La sua poesia, con il supporto delle tante metafore  e dei tanti  elementi del creato presi a prestito per i suoi pensieri, vuoi che si chiami luna, o mare o vento, offre figure spesso antropomorfe (..occhi della notte…la grigia luna lusinga…il sole nero..) ma dove c’è solo un’unica voce che si leva, che chiama, che grida, che chiede, per i tanti spiriti che albergano, che confliggono, che evadono dalla sua anima, irrequieta sì, ma profondamente umana. E’ la voce di una donna che ama, che soffre, che cerca  un cammino, una luce, per quanto fioca, che le indichi una strada. Un grido che si leva e che si pone,  come afferma Arturo Donati, come richiesta di risposte, e dove la poesia, al pari della musica, come afferma Aldo Mausner, ha la facoltà di rendere visibile l’invisibile. E invisibile è il momento del distacco del sogno dalla realtà e che si materializza e si avverte solo quando ne costatiamo la mancanza che sfocia in dolore, quel dolore intimo e spesso inconfessabile e conosciuto solo da chi lo prova. Da lì parte la ricerca  della ricomposizione del sogno con il reale, del corpo con lo spirito, per farli convivere sì da farne un tutt’uno. E’ questo il segreto che porta alla felicità e, per dirla come Epicuro, al “piacere” di goderla anche se la vita a volte, come lamenta il Leopardi, è spesso governata da una Natura matrigna. Ma è la vita e nessun’altra cosa la può sostituire. Maria Favarò la canta, pur se la interpreta, in uno speciale contesto personale, come una visione tra le ombre, servendosi di un verso libero per pensieri liberi, liberi da ogni condizionamento, facendone “scarnificata poesia del travaglio dell’esistenza”, come attesta l’Editore Tommaso Romano nella post-fazione, tanto da rendere la poetessa una vera e valente discepola della “vecchia” ma pur sempre giovane e insostituibile Musa che attende ai compiti dell’amore.  


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