di Giuseppe Bagnasco
Chiedersi
cosa è l’amore è come esigere una risposta che non può prescindere da chi la
pone. Quindi non ha valenza né sociologica, né etica e neppure letteraria
restando quindi improntata ad una personalissima percezione e pertanto non
definibile. Qualcuno ha detto che l’amore è per persone pronte a sopraffarsi
perché, come afferma Freud, alla
base di tutto c’è il desiderio sessuale, l’attrazione di possedere il corpo
altrui, anche in senso lato. Francesco
Alberoni in un suo aforisma “incontrarsi per dirsi addio” ne dà la conferma
dando all’addio la fine dell’attrazione e quindi dell’amore con conseguenze
devastanti per chi subisce l’abbandono, tale da portarlo all’infelicità. Salvatore Lo Bue definisce l’infelicità la
separazione tra sogno e realtà e Visione tra le ombre
rappresenta la “scarnificazione” dell’infelicità. Maria Favarò con questa raccolta di appena 33 poesie, che segue a
distanza di un anno Segmenti d’infinito (Thule – 2016 Palermo), mette in poesia
conflitti esistenziali che sfociano all’ultimo respiro in tormenti e passioni,
due giganti che generano impietosamente una sofferta inquietudine. La poetessa
delimita le sue liriche tra “Diva” dove si staglia una personalità dirompente
ed egocentrica e “Quiescenza” che denota una resa incondizionata alla vita con
l’emblematico ultimo verso della raccolta, che recita tace il cuore e nella mente cade
l’oblio.
In mezzo tutto un fuoco di tormento che
divora l’animo e dove l’anima
non si
quieta e in balia di sé stessa muore
(v. Inquietudine). E’ l’ennesima lotta dello spirito Amore con il corpo Eros
che evidenzia come tutta l’opera sia pervasa da un pessimismo imperante e ciò a
causa di “Amore” che allontanandosi dal corpo crea un vuoto difficile da
colmare. Ciò fa precipitare lo spirito in una spirale di perdizione,
indecifrabile e impalpabile e alla vita, rischiarata appena da un pallido sole,
non resta che una semioscura “Visione tra le ombre”. Eppure tra i restanti trentuno
titoli, tutti formati da una sola parola, ce n’è uno che lascia sperare e a cui
la poetessa forse si affida: Pandòra.
In quel vaso mitologico serpenti
senza nome (ma Lei sa chi sono o cosa rappresentano) strisciano liberi. Tutto è perso nelle
tenebre.
Ma se la Nostra ne sceglie il titolo, sa quindi che al fondo di esso resta
l’ultima dea: La Speranza. Quella speranza che in Big Bang immagina dare la
stura a un nuovo Inizio, dove la
vita si
reincarna o all’illusione
che almeno uno spiraglio possa aprirsi Sei
tornato/ languido amore/
tormento delle mie viscere (v. Spirale) e dove l’amore si fa materia come desiderio di vogliose labbra(v.
Bramosia). Ma è una voce isolata, un grido, un lampo di luce (v. Squarcio) che
si assopisce rifugiandosi nell’unico traguardo possibile, quello della
solitudine e raffigurandosi come un’isola tra le isole: L’isola del nulla.
Questa debolezza, causata secondo i genetisti, da una scarsa produzione di
serotonina (l’ormone che produce il languore), è dovuta al fatto che la
protagonista non riesce a liberarsi del passato, rimanendo imbrigliata nella
catena dei rimpianti.
Un graffito sul muro di un sala d’attesa
recitava: “Ci sono persone che entrano nella tua vita / ci si soffermano un
po’/ e poi se ne vanno / E tu / non sei più lo stesso”. Ecco un diversa
espressione dell’infelicità, ecco come una separazione non voluta si traduce in
tormento per chi la subisce e che appare tanto grande da farla percepire all’animo errante come
la caduta dentro una sorta di pozzo del silenzio senza che si intraveda il
fondo e senza un appiglio a cui aggrapparsi, salvo alla fine l’oblio. Un buio
tanto più fitto per una sconfitta così grande da fare intravedere l’ultimo passo teso alla morte
(v. Stradario) come una via d’uscita, come unica possibilità di mettere fine a
tutto. Certo qui non siamo all’evocazione delle mitologiche Medea abbandonata
da Giasone o Arianna abbandonata da Teseo o infine della suicida Didone
abbandonata dall’Enea virgiliano, ma del personaggio più consono della
manzoniana Ermengarda, un’anima lacerata ma che tra tormenti e rimpianti di lieti
trascorsi non riesce a liberarsi dall’eros che in lei ancora persiste con la
conseguente e vana aspirazione di “sempre un oblio di chiedere/ che le sia
negato..” Un eros ancora presente in ricordo di un amore che allora sapeva di
eternità. Ed è proprio questa sensazione di eternità che, dopo avere raggiunto
vette sublime, di colpo si eclissa perdendosi nel tempo ma che tuttavia produce
infinita inquietudine. Sensazioni appunto perché l’amore non è eterno in quanto
i sentimenti sono mutevoli. Al contrario lo sarebbe se fosse possibile
cristallizzarlo al momento dell’innamoramento quando il languore prende il
sopravvento sul ragionevole discernimento.
E allora resta solo una speranza, proprio quella rimasta nel vaso di
Pandòra e che la Favarò, nella trasposizione poetica, affida all’oblio tanto da
farle dire che per quanto gridi la sua disperazione, per quanto pianga lacrime
amare, non giungono voci
(v.Al di là del muro) e pertanto tutto cade nel nulla come un fiocco di neve (che)
non fa rumore
(v. Quiescenza). Finisce così, come avevamo iniziato queste note, con la
ricerca dell’oblio e con la rassegnazione che certo verrà, allorquando il
Tempo, il Grande Giustiziere, verrà a porre riparo ad un’anima inquieta, Lascio/ la vita nelle tue
mani/nell’attimo del suo fiorire
(v.Risurrezione).
Adesso, dopo avere esaminato le opere, il
corpo, l’Eros, possiamo gettare uno
sguardo allo spirito, l’Amore. Oggi
scrivere di amore, per giunta di tormento d’amore, in una società dove il
relativismo impera su tutto, che squarcia i sentimenti, traducendoli a
convenienze spesso economiche, è come gettare un sasso in uno stagno e guardare
le concentriche onde che si allontanano verso la riva fino a morirne. Maria
Favarò l’ha fatto e l’ha fatto per riscoprire e tradurre in poesia il
sentimento tra i più nobili dell’uomo, qual’è appunto l’amore. L’amore con
tutte le sue sfaccettature fatte di attrazione, seduzione, sogni, gioie,
estasi, delusioni, tormenti, ricerca d’oblio, prostrazioni e resurrezioni
dell’animo, con in ultimo la Speranza. Speranza che è anche nel titolo di un
saggio di Maria Patrizia Allotta, Nel buio aspettando l’alba. Speranza che non muore,
che qui firma la prefazione e che
sembra speculare, ma in maniera meno pessimista, alla presente raccolta della
Favarò.
E’
opinione conclamata che la poesia scaturisce vivida e spontanea quando la tristezza
evade dal nostro intimo e si fa voce. Non esiste un creare senza un dire,
afferma il Lo Bue, e, aggiungiamo noi, perfino nel Vangelo di Giovanni e dove,
al limite del paradosso, si legge “In principio fu il Verbo”. E quindi il verbo
poetico dell’Autrice, la poiesis nell’accezione greca, non è esso stesso
creazione?. La sua poesia, con il supporto delle tante metafore e dei tanti
elementi del creato presi a prestito per i suoi pensieri, vuoi che si
chiami luna, o mare o vento, offre figure spesso antropomorfe (..occhi della
notte…la grigia luna lusinga…il sole nero..) ma dove c’è solo un’unica voce che
si leva, che chiama, che grida, che chiede, per i tanti spiriti che albergano,
che confliggono, che evadono dalla sua anima, irrequieta sì, ma profondamente
umana. E’ la voce di una donna che ama, che soffre, che cerca un cammino, una luce, per quanto fioca, che le
indichi una strada. Un grido che si leva e che si pone, come afferma Arturo Donati, come richiesta di risposte, e dove la poesia, al pari
della musica, come afferma Aldo Mausner,
ha la facoltà di rendere visibile l’invisibile. E invisibile è il momento del
distacco del sogno dalla realtà e che si materializza e si avverte solo quando
ne costatiamo la mancanza che sfocia in dolore, quel dolore intimo e spesso
inconfessabile e conosciuto solo da chi lo prova. Da lì parte la ricerca della ricomposizione del sogno con il reale,
del corpo con lo spirito, per farli convivere sì da farne un tutt’uno. E’
questo il segreto che porta alla felicità e, per dirla come Epicuro, al “piacere” di goderla anche
se la vita a volte, come lamenta il Leopardi,
è spesso governata da una Natura matrigna. Ma è la vita e nessun’altra cosa la
può sostituire. Maria Favarò la canta, pur se la interpreta, in uno speciale
contesto personale, come una visione tra
le ombre, servendosi di un verso libero per pensieri liberi, liberi da ogni
condizionamento, facendone “scarnificata poesia del travaglio dell’esistenza”,
come attesta l’Editore Tommaso Romano
nella post-fazione, tanto da rendere la poetessa una vera e valente discepola
della “vecchia” ma pur sempre giovane e insostituibile Musa che attende ai
compiti dell’amore.
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