lunedì 30 novembre 2015

Orazio Ferrara, "Viva ’o Rre. Dalla conquista del Sud alla guerra per bande" (Capone Editore)

di Rocco Biondi

Libro piacevole, che si legge rapidamente quasi tutto d’un fiato.
Il Re di cui si parla è Francesco II, ultimo re del Regno delle Due Sicilie.
 E’ un libro che si schiera, a detta dello stesso autore, dalla parte filo-borbonica, pur rispettando scrupolosamente la verità storica, anche per la naturale inclinazione dell’autore a schierarsi sempre dalla parte dei vinti e dei perdenti. I Borbonici vengono considerati dalla storiografia ufficiale “negazione del diritto delle genti”, vigliacchi che scappano davanti a pochi eroici garibaldini, autori di tutti i mali che affliggono il Meridione. La verità è altra.
 Il libro, che nel suo nucleo centrale raccoglie i capitoli di un libro edito nel 1997, conserva l’impianto originario di agile pamphlet. I piemontesi, e inizialmente per loro Garibaldi, sono stati degli invasori che hanno annesso i territori appartenenti al Regno delle Due Sicilie. Vengono ora aggiunti, in questa edizione, due articoli di Pietro Chevalier, pubblicati da “La Civiltà Cattolica” nel giugno 1902, in cui si svelano “gli squallidi e meschini retroscena di come fu fatta l’Unità d’Italia e dei personaggi che si piccarono di farla, personaggi spesso da operetta e qualche volta anche un po’ cialtroni”. Chevalier era un diplomatico e patriota italiano, uomo di fiducia di Cavour che lo mandò a Napoli come diplomatico presso la corte dei Borbone negli anni decisivi 1859-1860.
 Orazio Ferrara, che negli anni Settanta appartiene al gruppo di giovani della destra estrema ed ha come punti di riferimento gli studi di Carlo Alianello e Silvio Vitale, maturò una forte identità meridionale. E queste radici squisitamente intellettuali, politiche o ideologiche, erano corroborate dall’avere la madre siciliana e il padre napoletano. Nato a Pantelleria, è vissuto per molti anni a Sarno in provincia di Salerno in Campania.
 Il libro si apre con il capitolo intitolato “Il Sud liberato”, dove le parole libertà e giustizia sono scritte sulla punta delle baionette dei soldati piemontesi, che pretendono che tutta l’Italia diventi Piemonte. Il Sud viene “liberato dalla tirannia dei Borbone” con il saccheggio e la rapina. Il capitale monetario del regno napoletano rapinato ammontava a più del doppio degli altri Stati italiani messi insieme. E si procede anche allo smantellamento sistematico dei cantieri navali napoletani, delle fiorenti industrie, dell’artigianato, del commercio, dell’agricoltura. Il Sud viene ridotto alla fame. Ma non basta, viene disintegrato completamente con la leva obbligatoria, il carico fiscale pesante, la burocrazia farraginosa e oppressiva, la mortificazione delle proprie tradizioni.
 E il Sud si ribella con il brigantaggio. Il Ferrara però usa il termine brigante solo nel senso negativo voluto dai piemontesi invasori, noi invece lo usiamo solo ed esclusivamente nell’accezione positiva di patrioti che difendono la loro terra e la loro patria. Dopo la sconfitta del brigantaggio, ai meridionali non resta che l’emigrazione, che dura fino ai giorni nostri.
 Nel 1860 la battaglia di Calatafimi, in Sicilia, non doveva assolutamente essere vinta dai soldati borbonici contro quelli di Garibaldi, secondo quanto era già stato stabilito da occulti poteri sovranazionali (leggi massoneria inglese e italiana). A questo fine molti comandanti e generali napoletani, a cominciare da Francesco Landi, erano stati comprati. I semplici soldati napoletani invece non riuscirono a nascondere la loro rabbiosa amarezza di chi si è visto tradito. Molti di loro crearono e accrebbero le bande brigantesche che per un decennio diedero filo da torcere all’esercito italiano, mandato per oltre la metà a reprimerle.
 I capi delle bande infatti (Pizzichicchio, Cicquagna, Pirichillo, Coppa, Pilone, Romano, Chiavone, Crocco, ecc.) provengono quasi tutti dai quadri del disciolto esercito borbonico. Nelle bande brigantesche vi è una rigida disciplina pari a quella militare. Le razzie, i saccheggi, le uccisioni e i sequestri rispondono alle tragiche e ineludibili necessità della guerriglia e dell’autofinanziamento. Il segreto del successo dei briganti per così lungo tempo sta nella perfetta conoscenza del terreno, nella straordinaria mobilità e nella copertura avuta dalle popolazioni locali; ma anche nella fede: accanto alla bianca bandiera gigliata sventolano anche i colorati stendardi dei santi protettori e di bellissime Madonne.
 I piemontesi ebbero ragione dei briganti usando l’inganno e le fucilazioni sommarie, senza processo e difesa. La vulgata nazionale insegnata per decenni nelle scuole fa acqua da tutte le parti. Una folta schiera di studiosi sta rivisitando la nostra storia patria, senza temere gli anatemi di revisionismo, lanciati dalle mummificate vestali di una vulgata storica nazionale, “ormai buona solo per i gonzi”.
 Dal Ferrara una sopravvalutazione viene fatta dandogli una valenza troppo positiva, secondo noi, della figura del legittimista catalano Rafael Tristany, che tra l’altro fece uccidere il capobanda sorano Luigi Alonzi, detto Chiavone.
 Merito del libro del Ferrara è l’aver messo in luce fatti briganteschi poco noti. A cominciare dall’operato del brigante sarnese Orazio Cioffi, che «si mostrava generoso con i deboli, gentile con le donne, pietoso con i poveri; e in grazia di questo contava numerose simpatie in campagna e in città».
 Altri fatti che escono dal cono d’ombra, nella quale sono stati relegati dalla storia ufficiale, sono quelli legati alla banda Ribera. Operarono, con altri uomini, nella siciliana isola di Pantelleria, che allora era controllata al centro dai reparti sabaudi, e per il resto era nelle mani dei filo-borbonici. Per reprimere questa situazione fu mandato nell’isola un colonnello a capo di un reggimento di fanteria. Per il tradimento di una spia locale i ribelli furono intercettati in una vasta e profonda caverna. Dei quattro fratelli Ribera tre furono condannati dai piemontesi all’impiccagione: Giuseppe, Agostino e Pietro; mentre Giovanni riuscirà ad espatriare nelle Americhe. Ancora oggi quella Grotta dei Briganti, a ricordo del sogno infranto dei legittimisti panteschi, viene visitata da tanti turisti.
 Altro capobanda del quale si parla diffusamente nel libro è Antonio Cozzolino, detto Pilone. Nacque a Torre Annunziata (Napoli), ma sin da piccolo tornò con la famiglia a Boscotrecase da dove provenivano. Nell’esercito napoletano aveva raggiunto il grado di sergente maggiore. Con la sua banda, che riesce a contare una quarantina di unità, riporta diverse vittorie contro i piemontesi, anche spettacolari, ma per sopravvivere esegue anche estorsioni e sequestri. Non è sanguinario, né assassino a sangue freddo. Inafferrabile, il 14 ottobre 1870 viene colpito a morte con varie pugnalate alle spalle perché tradito. Ma egli, conclude il suo libro il Ferrara, «non è affatto morto, continua a cavalcare all’infinito per le strade della nostra terra, cui è sentinella il Vesuvio, e nel cuore di chi non ha dimenticato. Sempre.»



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