di Guglielmo Peralta
In Antenore,
il poemetto che apre questa raccolta di versi, Mito ed Eros mantengono questo
etimo originario nell'orizzonte di una visione poetico-filosofica, la quale fa
rivivere «l'ideale perenne, nostalgico, di un passato che ci appartenne e che
ritorna sempre nuovo»[2]. Questo "ideale"
è il tempo della giovinezza e della bellezza, cui si correla il sentimento
della Sehnsucht, tanto avvertito e
celebrato dai romantici tedeschi: la "malattia del doloroso bramare",
lo struggimento e il desiderio del "ritorno" al luogo dell'origine, a
«una terra lontana, immaginaria ed eternamente cara alla memoria»[3]. Il passato, la nostra età
"felice" ci appare così sbiadiata, velata, che dubitiamo di averla
veramente vissuta, e definiamo quest'età "mitica", leggendaria, al
pari del mito, il quale è una rappresentazione
fantastica con cui si cerca di spiegare perfino la nascita del mondo e degli
dei mediante la costruzione di cosmogonie e teogonie. La memoria ci restituisce
solo ombre, «i fantasmi che un tempo bruciarono l'anima, le sirene che
incantarono i nostri sensi, i miti cui si ancorava il nostro destino per non
sfaldarsi e non precipitare»[4]. Siamo figure, personaggi
proiettati come su uno schermo e osserviamo scorrere, meravigliati e increduli,
lacerti di vita vissuta. Ed è la commozione, è, soprattutto, la nostalgia a
restituire alle ombre la nostra identità, a "ricordarci" che quella
visione è un'esperienza vissuta, della quale desideriamo di riappropriarci con
la coscienza dolorosa di non potere soddisfare un tale desiderio. Antenore è il racconto di questo
"dolore", da intendere nell'accezione indicata da Heidegger, e cioè come
il significato originario del termine Sucht.
Così, per Heidegger, "La nostalgia (Sehnsucht)
è il dolore della vicinanza del lontano"[5], nel senso che essa fa del
passato remoto un tempo duraturo,
inverando quel punto centrale del pensiero bergsoniano relativo al tempo inesteso,
non divisibile e non misurabile, registrato dalla singola coscienza come durata. La nostalgia, come la memoria involontaria
in Proust, ha il potere di metterci in
contatto col "tempo perduto", la cui «eco dura nell'anima»[6]. Eros, allora, si
"unisce" con Nostalgia, la quale è l'altra sua faccia. Perché il
"dolore" è anche l'amore, il desiderio del passato di cui abbiamo
goduto e che in interiore si fa
eterno presente.
C'è, a mio avviso, un parallelismo tra
questo Antenore cernigliano e
l'Antenore omerico. Entrambi lega l'Eros: l'amore, che, per l'uno, è tensione
infinita verso la giovinezza e la bellezza; per l'altro, desiderio di riconquistare
la patria "perduta" a causa dell'accusa di tradimento: per avere
consegnato a Ulisse e Diomede il Palladio, talismano dell'invincibilità dei
Troiani. Tradimento e accusa difficili da sostenere, se si considera che l'amore
per la sua terra mosse Antenore a implorare i suoi concittadini, affinché
restituissero Elena a Menelao per scongiurare la guerra con gli Achei.
Il poemetto della Cerniglia è un
distillato di contemplazione, com-passione e malinconia: una
"miscela" di sentimenti filtrati e compenetrati dall'amore, il quale ne
fa una sostanza unica, d'incontaminata purezza, anche quando ad esso si
accompagna la voluttà: il piacere, il godimento fisico oltre a quello
spirituale. Qui, l'Eros è la passione di Antenore per Palemone e altri giovani
amanti; un amore che la memoria e la nostalgia rinnovano e vivificano; che il
canto celebra, innalza, trasforma e rende sublime e universale, perché
assimilato, intimamente legato e connaturato alla giovinezza e alla bellezza, elevate,
quasi, a sinonimi dell'amore, nelle quali si dissolve ogni differenza tra i
sessi. La delicatezza dei versi ricorda la poesia saffica e i lirici latini che
ad essa s'ispirarono. Ma il pathos,
la meditazione spirituale e filosofica, l'esaltazione dei sensi, l'appagamento
e la stanchezza, l'appressamento della morte, la divinizzazione del giovane
Palemone sono elementi che richiamano il romanzo epistolare "Memorie di
Adriano" della Yourcenar, il cui fulcro è la passione dell'imperatore
Adriano per il giovanissimo amante Antinoo.
Antenore, ormai vecchio, ricorda «la vita
gioiosa», cosciente del lento declinare dei desideri e del dolore del «rimembrare»
associato alla «nostalgia del bello sempre più lontano». Egli lamenta l'oblio,
al quale sarà destinato per l'assenza di qualcuno che lo «conobbe» e che non
potrà essere testimone della sua «felice e breve (...) dolce stagione». Egli
ignora, ovviamente, il canto che la nostra Rossella Cerniglia ha qui riservato
a lui e alla sua «fulgida bellezza».
Al "mito" dell'età felice, che
è il tema centrale del poemetto "Antenore", segue il mito di Teseo:
il racconto della sua nascita, del viaggio verso Atene e delle sue imprese. È
una sorta di biografia in versi e in sette quadri, dove, accanto alla figura
centrale dell'eroe ateniese, troviamo Egeo, Etra, Medea, il Minotauro, Arianna e altri
personaggi minori. Di solito, al nome di Teseo associamo subito il labirinto e
il Minotauro; Arianna, il suo filo e il suo abbandono nell'isola di Naxos; la
nave e la mancata sostituzione delle vele nere con le bianche; la disperazione
di Egeo e il suo suicidio, ignorando i natali dell'eroe e gli altri episodi
della sua vita. La Cerniglia recupera, sapientemente, quella parte del mito,
che, solitamente, non rientra nella narrazione o vi resta ai margini. Sono quei
fatti e personaggi che precedono la nascita di Teseo, ai quali la poetessa dà
particolare rilievo e che rende con versi rapidi ed efficaci. Apprendiamo così della
dubbia paternità del nostro eroe, concepito da Egeo, o dal dio Poseidone, con
la giovane Etra, una notte, a Trezene, «in un'orgia di cibo e ubriacatura». E
ancora, del «deposito paterno:
sandali e spada», nascosti da Egeo sotto una roccia, prima che Etra partorisse
Teseo, il quale, una volta cresciuto e su indicazione della madre, li recupera per
consegnarli al sovrano di Atene, del quale, nel frattempo, ha appreso dalla
madre di essere il figlio. Ai sandali e alla spada è affidata, invece, la
funzione di svelare a Egeo l'identità di Teseo, suo «remoto e caro dissepolto
figliuolo». E l'agnizione è qui espressa mediante la prolessi, in cui l'evento
è anticipato. Segue la figura di Medea, divenuta sposa di Egeo dopo che era
fuggita da Corinto. E anche qui, il ritratto della «perfida» donna è reso con grande
espressività, scolpito con parole di stringata efficacia che producono un
effetto iconografico ed "esplosivo". Un verso, in particolare, ci addentra
«nei tenebrosi recessi dell'anima» di questa Medea, dove sono concentrati e
racchiusi il suo carattere e la sua psicologia, che da questo verso balzano
agli occhi di chi legge. Tutta la narrazione procede per immagini, obbedendo,
restando fedele all'etimo del mito, al suo antico significato - di cui si è già
detto - che lo definisce "parola", "annunzio", "realtà",
"la cosa stessa". E qui, il mito è parola scolpita che, «con tutte le
implicazioni simboliche che esso contiene», lascia intravedere una verità. Per
Max Müller, il mito è una «malattia del linguaggio», il quale, incapace di
afferrare una verità, la condensa e l'adombra in una favola, in una storia. Il
mito, allora, è custode della verità, ed è il luogo più adatto e più rispondente alla sua natura misteriosa,
eterea, "favolosa", se-ducente. Ciò che esso "esprime", ciò
che racconta di questa verità è, al tempo stesso, il suo nascondimento e
svelamento. Ma, in quanto "racconto", il mito è il linguaggio stesso
e, dunque, è nella parola che abita la verità. E la parola, alias mythos, è "annunzio" di questa
verità, la quale, secondo la lezione di Heidegger, che le attribuisce l'antico
significato del termine greco alétheia,
è il "non-essere nascosto dell'ente", nel senso che questo ente, cioè
la "cosa", una realtà data si "manifesta" provenendo da un
fondo di oscurità. La verità, dunque, lascia apparire "qualcosa" di
sé ritraendosi e nascondendosi nell'oscurità, senza la quale nulla potrebbe
venire alla luce. Allo stesso modo dell'alétheia
sembra comportarsi la memoria. Essa non è, forse, ricordo e oblio? Non lascia
forse apparire, dal suo fondo oscuro, quei lacerti del tempo perduto, che
presto svaniscono risucchiati dall'oscurità, dove molti altri ricordi restano
sepolti? Questa memoria mantiene un legame col mito e con l'eros, in
quanto è tensione e brama verso l'età "favolosa", verso ciò che essa
stessa trae dall'oblio; ed è eros,
nel senso della cultura greca: "ciò che fa muovere verso qualcosa; che fa
ardere per la giovinezza e la
bellezza". Questo amore, dunque, è rammemorazione,
e anima Antenore, come abbiamo precedentemente osservato. E Antenore è tutti
gli uomini che amano ricordare; che, come lui, cercano dentro sé stessi la
bellezza perduta, il loro essere
proprio: tempo e durata, eros e mito, verità, oblio, memoria. In questo libro della
Cerniglia, Antenore non ha un legame col personaggio dell'Iliade ed è, come
abbiamo visto, solo una figura a lui "parallela". Inoltre, egli
rappresenta soprattutto l'eros; è l'amore
e la Sehnsucht. Teseo, invece, è il
Mito ed è figura fedele al suo personaggio. La fedeltà, qui, è solo relativa
alla narrazione che ci è stata tramandata perché l'eroe è plasmato e trasfigurato
dalla poesia, dalla bellezza e dalla "verità" dei versi che ne fanno
un personaggio umano, "reale", animato da sentimenti nobili e anche
opposti. Egli prova «angoscia», «rabbia», pietà verso gli «sventurati
fanciulli» offerti in sacrificio al Minotauro; è generoso e coraggioso e, al
tempo stesso, la paura e l'ansia lo attanagliano, si tagliano con il realismo
di questi versi come un coltello:
Ancora il Minotauro non si mostra / geme
feroce nei meandri oscuri / ma il respiro di Teseo / è più affannoso / ora che
il mugghiare s'avvicina / e più possente risuona / nelle trombe della notte. /
Freme l'eroe / nell'ansia mortale che lo stringe / l'orecchio è teso / nello
spasimo dell'ascolto / e ogni muscolo gronda di sudore / irrigidito nella
ferrea attesa.
Sono
versi di grande caratterizzazione psicologica, che scolpiscono lo stato d'animo
di Teseo in un momento particolare. E ci commuovono, con la stessa intensità di
Omero quando descrive Ettore, che si accinge ad affrontare Achille nel duello mortale.
Il racconto si conclude con "Arianna
abbandonata". Nulla sappiamo di questo abbandono, del tradimento di Teseo,
il cui comportamento appare inspiegabile. Il mito è "reticente",
manca di una parte ed è probabile che essa sia andata perduta. La Cerniglia
riprende la tragica versione, secondo la quale Arianna si sarebbe suicidata
gettandosi in mare. Il suicidio per annegamento è anticipato dalle
"immagini" di un mare minaccioso ed è reso dalla nostra poetessa con
una tale stringatezza, che va oltre la semplice "sottrazione" di
parole. Esso è taciuto ed è solo lasciato intendere nella domanda che Arianna
pone a sé stessa: «Perché sono?»: due parole fulminanti, che contengono la
risposta al suo tragico gesto: l'inutilità del vivere, il venir meno del senso
dell'esistere senza più Teseo, nel quale ella aveva riposto tutta la sua
fiducia e il suo amore, la ragione della sua vita. Nei quattro versi che
seguono contempliamo il tragico "quadro" del suicidio, dove la figura
di Arianna, che sotto un «cielo scuro» entra nel mare, s'indovina in quella
«veste sottile» lambita dalla «spuma» e che il vento gonfia, prima dell'ultima
onda.
Al cielo scuro / il mare alza la
spuma / gonfia il vento, signore delle onde / la tua veste sottile.
In Altre Poesie, titolo di un'altra sezione
della raccolta, ritroviamo alcuni dei temi già trattati in Antenore: il "mito", innanzitutto, ovvero, l'età della
giovinezza e della bellezza, cui si legano il sentimento del tempo come loro perdita
irreparabile e il pensiero della morte. Se
in Antenore, ormai vecchio, persiste
l'incanto dell'età "felice",
che lo muove a desiderare di ritornarvi con la memoria nonostante la nostalgia;
in questa sezione, dove chi parla è l'Io della nostra poetessa, c'è il «disinganno»
e il volontario esilio nel presente, dove ogni attesa è cessata e il "favoloso"
passato, percepito come il tempo «dell'ancòra e del sempre», cioè della durata, è «seppellito» nella coscienza «del
mai», del suo impossibile «ritorno». Con «il declino dell'ora», con il
sopravvenire dell'età matura, ciò che resta di quei «giorni febbrili», vissuti
nel desiderio della corrispondenza di anime e nell'attesa di una rivelazione, mai
avvenute, è la coscienza del «Nulla» e la conseguente rinuncia a ricordare da
parte della nostra poetessa, la quale, accanto alla perdita delle giovanili
illusioni, di ogni seducente «richiamo» delle «sirene», avverte la «caduta»
della «parola», ovvero, l'impossibilità, l'inutilità di "raccontare" ciò
che ella ha consegnato per sempre all'oblio e di cui è custode solo un silenzio
tombale. Il «Nulla», allora, è la fine del mythos,
dell' "annunzio"; è la "parola" deserta, disabitata; è il vuoto che resta dopo che «tutto è detto»,
dopo che «tutto è avvenuto» e nel quale prende posto il pensiero dominante
della morte, il «lungo tramonto» su «una terra desolata», alla quale la
Cerniglia assimila la propria anima e l'anima del mondo, private entrambe di «albe»,
di «doni o grazie», di tutto ciò che è necessario
alla vita. C'è autobiografismo in questi versi che, in quanto toccano temi
universali e denunciano la crisi a livello mondiale, sono anche una
"biografia" dell'uomo contemporaneo, sempre più sperduto e
abbandonato da Dio, il cui silenzio, qui, non è un'accusa fatta a Lui
dall'uomo, ma una conferma da parte del Signore, il quale non è più "Il
buon Pastore" che va alla ricerca della pecora smarrita. In questo
capovolgimento della parabola, Egli accusa sé stesso, si addossa la colpa di
avere lasciato l'uomo al suo destino, di non essersi preso cura di lui
permettendo così la graduale dispersione di tutto il "gregge". Quest'assenza
di Dio è il vuoto incolmabile dentro cui la Cerniglia sente sprofondare
l'anima, il proprio mondo, la realtà. In questa eclissi del sacro, la parola
tace, l'essere perde il legame
invisibile con l'assoluto e tutto si
fa Distanza illimitata: «regno remoto» dei
"luoghi" senza confini, senz'altra meta che il Nulla. Ogni nobile
ideale, la speranza, svaniscono «nel tardo meriggio della mente»; la bellezza e
l'Amore si perdono dentro quella lontananza,
consegnati per sempre al silenzio, al sogno ineffabile. Di fronte a tanta
desolazione, non è più di "conforto" alla nostra poetessa il forzato
esilio nel presente. La rinuncia a ricordare il tempo dorato, sia pure non
privo di amarezze, va oltre la memoria; si fa oblio primordiale, desiderio di
ritornare nel «ventre più ancestrale», di dormire il sonno imperturbabile
dell'assenza.
Questo "annullamento" di sé
fuori dello spazio e del tempo, dura solo il tempo di una poesia[7], cui segue l'annuncio «Del
rinnovato dolore»: un altro titolo, questo, della medesima sezione, il quale
accoglie testi pregni di tristezza, di uno scoramento più grande di quelli «Del
disinganno», che abbiamo già percorso. Una breve pausa, una cesura è
quest'annuncio che segna il passaggio dalla quiete desiderata, dal « dono
d'un'inerzia sublimata» alla nuova "caduta" nel tempo e nella
tempesta della vita. All'oblio di sé, dunque, segue il "risveglio". La
Cerniglia torna ad interrogarsi sull'esistenza propria e del mondo; va alla
ricerca della propria "identità" e del senso della vita. Con toni
danteschi ella esprime il proprio smarrimento nella «notte fonda, tenebrosa».
Molti sono gli elementi che ricordano l'Inferno
del divino Poeta e che tracciano il cammino della nostra poetessa sulla via del
dolore, in un'atmosfera d'oltretomba, in un mondo gelido e privo di luce,
sprofondato nel buio mortale dei «sotterranei dell'anima», dove giacciono
sepolti i pensieri, i sogni, le illusioni, le speranze, i sentimenti, l'amore
soprattutto, sotto la coltre del dolore che, qui, è l'unico segno di vita. Il
mondo intero è una città di Dite, dove ella vaga come un'anima desolata, nella
più nera solitudine, senza una guida, senza un "Virgilio" che possa
accompagnarla e indicarle una via di salvezza, un varco attraverso cui risalire
dall'«oscuro fondo» a "riveder le stelle". Il sentimento della morte è ormai il gorgo che tutto risucchia, ed è
il sepolcro, al quale solo il dolore si sottrae scavando nell'anima il suo
«nero pozzo», avvolgendola con la sua «ombra letale». Ed è, questo, un «Dolore
fatale», perché gli è compagno il «Vuoto», l'«Assenza radicale» di Dio.
In Ultimi Versi, la sezione che chiude la
silloge, il tema del dolore, legato al pensiero della morte, è affrontato con
un certo distacco. La Cerniglia, deviando dal dato autobiografico, distoglie, di
tanto in tanto, lo sguardo dal proprio mondo interiore, cessa di ripiegarsi insistentemente
su sé stessa e si volge all'esterno, pietosa, soffermandosi anche sulla
tragedia dei migranti. Accanto al disagio, all'angoscia esistenziale, è stata
costante la presenza della sua filosofia della vita, fondata sull'esperienza
personale e influenzata dal romanticismo tedesco, dalla concezione dell'esistenza
come Sehnsucht, cioè come tensione continua,
come quel desiderio mai appagato d'infinito che abbiamo riscontrato,
soprattutto, in Antenore, e già
presente in un'altra silloge che porta quel titolo tedesco. Ma in questi Ultimi Versi l'esaltazione dello
spirito, l'aspirazione all'armonia del Tutto, lo "slancio vitale",
che è l'altro nome dell'eros, vacilla
e finisce per cedere al senso d'impotenza e alla coscienza della vacuità e del
dissolvimento di tutto ciò che un tempo diede valore e senso alla vita. Tutto
rimane sommerso nel «Lete», nel grande fiume dell'oblio e solo resta la
tristezza a "testimoniare" questa perdita. Anche le parole, «retaggi
d'ombra», sono intrise di dolore e di morte; sparse per il mondo, «come branco
famelico», lo avvolgono nel loro vuoto, incapaci di dargli un senso, di
afferrarne la bellezza. È la fine del Mito e dell'Eros, mutato in pathos. E a nulla valgono gli spiragli,
gli sprazzi di luce, il tendere verso un «orizzonte», che promette
un'improbabile quiete. Perché quella «terra lontana», mitica, tanto sognata e
desiderata e «cara alla memoria» è diventata Abendland: occidente, terra del tramonto, dove, come gli Dei hölderliniani,
tutti i sogni sono fuggiti. E solo la parola, tornando ad essere mythos, può accendere la speranza del
loro ritorno.
[1] E. Severino, La filosofia antica, Rizzoli, pag.17
[2] dalla Nota dell'autrice, pag. 8
[3] ivi
[4] ivi, pag. 7
[5] M. Heidegger, Chi è lo
Zarathustra di Nietzsche?, in Saggi e discorsi, Mursia pag. 71
[6] dalla Nota dell'autrice, cit. pag. 7
[7] Tenera pioggia, pag. 46
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