di Guglielmo Peralta
L’analisi
di Antonio Spadaro delle opere di Pier Vittorio Tondelli è un esempio di etica
professionale, perché condotta con l’atteggiamento critico di chi ha assunto
con coscienza e con senso di responsabilità quella che Karl Rahner chiama «la
missione del letterato»: una “vocazione” a «discernere», a ricercare in tanta
letteratura trasgressiva – ove spesso si annida il vuoto, il dolore,
l’abbandono – un varco, una «uscita di sicurezza», una domanda o un’ «attesa di
salvezza». In Spadaro questo metodo di lettura, fondato sul «discernimento»,
trova il suo campo di applicazione proprio nell’opera tondelliana, dove la
«discesa agli inferi» è l’esperienza necessaria per la «via d’accesso» alla
salvezza.
Grazie allo sguardo che «discerne», che vede in
profondità, è possibile rileggere, sotto quest’ottica salvifica, quel vasto e
variegato corpus letterario che, a partire dai poeti “maledetti”, si
distende con Flaubert e Zola e poi ancora con Beckett, Henry Miller, Salinger,
Cèline, Bukovsky, fino alla beat generation e al postmoderno trovando in
Tondelli un epigono, il quale, se da un lato, sotto le «spinte prometeiche e
dionisiache» degli anni ’80 sembra omologare in quel corpus la propria
esistenza, dall’altro lato, trova proprio nel racconto (per molti aspetti
tragico) della vita e del mondo le «linee di fuga», un cammino di luce, di cui
anche il lettore è chiamato a prendere coscienza, mettendo da parte i
pregiudizi inconsapevoli, facendosi egli stesso interprete del testo. Ciò
perché, secondo la lezione di Gadamer, qui ricordata e messa in pratica da A.
Spadaro, «la lettura (…) non è un processo di interiorizzazione ma di interazione»
e, in quanto tale, rende il lettore capace di cor-rispondere
all’appello-domanda che essa (il testo) gli rivolge e che qui, in particolare,
si traduce in quella «attesa di salvezza» che pervade e attraversa l’intera
opera tondelliana, della quale il nostro Spadaro è scrupoloso interprete.
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