di Salvatore Sciandra
Mi è difficile attribuire a Lina La Mattina delle
definizioni, quindi dei confini, utilizzando espressioni e aggettivi che
rischierebbero di assumere il tono retorico cerimonioso e adulatorio Eppur c’è
un qualcosa di spontaneamente immediato che mi induce ad accomunare la Poesia a
Lina La Mattina, e nel frattempo mi solleva dal peso dell’inopportunità e
dell’invadenza.
Definire la poesia è stata un'appassionante e nel
contempo vacua impresa del pensiero estetico d’ogni tempo. Tempo perso per tutti, persino per i filosofi più razionalisti,
meno empirici. Tant’è che nella speculazione di costoro i discorsi su di essa
finiscono per assomigliare ai discorsi su Dio: quel Dio che si mostra e si
nasconde. Gli eloqui sulla poesia si ridurrebbero dunque ad una sorta di trattato di teologia
negativa: intrattenimento, per dirla alla Maurice Blanchot, in cui la necessità
di tacere di fronte ad un’entità indefinibile dà luogo invece a discussioni
senza fine. Della qualità ontologica della poesia, che stabilisce cioè i
criteri della sua stessa esistenza, non si può parlare poiché il pensiero
filosofico diventerebbe “liquido”, vaporante, perderebbe il suo statuto
concettuale. In effetti, se i discorsi sulla poesia si rivolgono a detta
qualità ontologica, entrerebbero nella dimensione del tautologico cioè,
pensando di scoprirne l’essenza, non direbbero altro che: la poesia è quello
che è, la poesia è poesia.
Tant'è che Roman Jakobson ha fatto opera di
rassicurazione rivestendo l’ontologia di qualità linguistiche. La quidditas della poesia, cioè ciò che
distingue un testo poetico da uno non poetico, è quel che lui chiamava la
“funzione poetica”, la funzione cioè di non comunicare altro messaggio che il
messaggio di comunicare un messaggio fine a se stesso. La lingua poetica,
nettamente distinta dalla lingua comune, è tanto più se stessa quanto più si
sottrae al vincolo comunicativo. Interrompendo il rapporto con il referente (il
contesto, il segno, il messaggio linguistico),
con il destinatario (il lettore),
la lingua poetica si svuoterebbe del significato, tanto da poter
definire “delusiva” la sua semantica. Se si accettasse tale teoria, dovremmo
concludere sostenendo la poetica dell’Arte
per l’Arte: poesia libera da ogni vincolo, compreso quello comunicativo.
Mallarmé ne sarebbe l’esempio più attinente quale poeta più lontano dalla
prosa. Paradossalmente, anche le Avanguardie novecentesche, quali il Futurismo
e il Surrealismo, nemiche della purezza estetica, possono farsi rientrare
nell’alveo della poesia pura quando rifiutano, seppur con altre motivazioni,
ogni convenzione stilistica, quando negano la rappresentazione e la narrazione.
Raccontare, esprimere, ragionare e rappresentare, sia per Breton che per
Valéry, sarebbero qualcosa che deve rimanere fuori dalla scrittura poetica.
Questo tipico cammino della modernità poetica viene
dato per concluso da tempo eppure il linguaggio poetico ha continuato sulla via
della depurazione anti comunicativa, tanto che i giovani autori che hanno
cominciato a pubblicare dagli anni settanta in poi si sono formati sullo slogan
che in poesia tutto era concesso, tranne dire qualcosa.
Montale e Pasolini sono i primi due casi, forse, di
avvicinamento della poesia alla prosa, della liricità alla discorsività. Eppure
Montale era stato l’apice della poesia tardo e post-simbolista, un virtuoso
manierista del monologo allusivo, mentre Pasolini era partito dal lirismo
dialettale per arrivare al poemetto civile. Sia l’uno che l’altro, verso la
fine degli anni settanta, portano la poesia verso la prosa. Montale da Satura in poi diventa un poeta satirico,
colloquiale, cerimoniale, semi giornalistico. Pasolini, sempre più
insoddisfatto di sé, con Transumanar e
organizzar, tocca il limite della trasandatezza stilistica: le sue poesie
diventano sciatti articoli in falsi versi. Da entrambi l’attenzione tecnica
viene spostata verso la prosa polemica. Ma la tendenza della poesia di
spostarsi verso la prosa si era notata da tempo in altre letterature.
Per ricondurre
questa spero non prolissa introduzione a
Lina la Mattina, voglio far riferimento a Wystan Hugh Auden.
Pochi poeti come Auden hanno colto il senso del cambiamento d’epoca nella
poesia moderna. Auden scrive versi a centinaia, come Lina La Mattina, lunghi poemi di riflessione, come Lina La Mattina. Poeta tutt’altro
che puro, è capace di versificare qualsiasi cosa (come Lina La Mattina), da un
programma pubblicitario per le ferrovie a una ricetta medica. Auden non mette
confini tematici di tono e di argomento alla sua poesia, come Lina La Mattina. Può parlare di tutto, come Lina La Mattina. A volte quasi ferocemente giudica la propria
epoca, a volte esprime la sua gratitudine di creatura terrestre al supremo ente
divino. Diversamente dai simbolisti, dai poeti puri, dagli ermetici, dai
visionari e dai metafisici, in Auden, così
come in Lina La Mattina, non
troviamo immagini e accostamenti per analogia. I suoi versi sono funzionali
all’espressione di idee e sentimenti definiti. La teatralità della sua
versificazione spinge la poesia nella direzione della conversazione, della
satira, dell’invettiva, del sermone. Auden, così come Lina La Mattina,
ha bisogno di una stilistica della vita morale e psichica, nelle diverse
gradazioni del privato e del pubblico.
In Sotto nascosta luce Lina La Mattina
è ingenua e al tempo sentimentale: e in effetti la vera poesia, il genio
poetico puro non può che essere ingenuo. Lina
La Mattina, quale vero poeta, è sentimentale nella misura in cui riesce a
tornare ingenua, e la sua ricerca della natura, quale tramite per arrivare alla
verità e a Dio o alla verità di Dio,
alla maniera romantica, è premiata dalla stessa poesia.
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