di Elio Giunta
Accade assai
spesso che quando ci si trova con in mano un nuovo libro di versi si avverta in
primo luogo un certo disagio, anzi addirittura un senso di ripulsa. Questo
perché purtroppo si pubblicano troppi libri di versi a perdere e si ha poca
fiducia di trovarne qualcuno buono; ma soprattutto perché si è entrati nella
convinzione che, dati i tempi barbari che viviamo, far poesia ed occuparsi di
poesia sia troppo fuori moda e inutile. Ma accade anche che, mentre si
sfogliano le pagine dell’ultimo libro pervenuto, si resti presi e piacevolmente
intrigati a proseguire nella lettura, avendo scoperto singolarità di
ispirazione e magari quella pacatezza ed armonia di dettato stilistico che ci
riporta ai caratteri della poesia vera, quella a cui restiamo da sempre legati
e che non vogliamo siano ancora traditi. E’ il caso di questa silloge di
Patrizia Allotta. Essa offre pagine che suscitano immediata partecipazione,
giacché fanno avvertire il vibrare sincero di “corde di nostalgia in arpa
armoniosa”, cioè con esse si stabilisce senz’altro quella distanza memoriale
dell’io con le cose, con la natura, il tempo, il senso dell’esistenza, e con
cui il disincanto si fa elezione morale e ragione di esito melodico della
parola.
Nell’opera i testi
sono distribuiti in due sezioni: l’una ove ogni percezione del reale, intima o
riflessiva, pare poggiare più sugli effetti della disillusione, col farsi osmosi
tra spirito e realtà appunto rimeditata; l’altra, ove questa realtà è per lo
più recupero di incontri umani, anche con le proprie frequenze familiari –indizio
questo di una poesia che può restare tale e di buon livello senza pretese di
complessità intellettualistiche- ; ma l’una e l’altra risultano realizzate con
rara misura di accenti e di uso dell’immagine, con omogenea delicatezza tonale.
Ed è soprattutto per questo che il libro può contare come lezione di un verbo
lirico che ancora ci persuade e, diciamolo pure, ci conforta.
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