di Griselda Doka
È diffusa l’idea
che paesi non occidentali (in particolare di matrice islamista) vogliano
annientare la civiltà occidentale. Il terrorismo in questo modo è visto come
espressione irrazionale che utilizza i metodi più spietati per ottenere il
risultato. Esempio emblematico di tutto ciò, la figura del kamikaze palestinese; secondo questo punto di vista non ci sarebbe
nessun altra “causa” alla base del fenomeno.
Ovviamente, la
questione è molto più complessa. Soprattutto, dopo gli anni ’90 si sta
assistendo in una serie di eventi imprevedibili tanto da poter riscontrare in
ciascuno di noi ciò che si definisce “trauma globale”, evidenziato in
particolar modo dopo la Guerra del Golfo. Non mi vorrei soffermare sulle varie
tesi e ipotesi del cosiddetto “terrorismo islamico”, ma mi sento di poter
affermare che la società in cui viviamo è diventata un laboratorio pullulante
di crescenti disparità di potere e ricchezza, di egemonie politiche e
pseudoreligiose, di malcontenti e di assenza di risposte su scala globale.
Ma la vita ha un’abitudine/vivere qualunque cosa
accada, scriveva la
Achmadulina, richiamata giustamente anche dal Vincenzi.
Nel magma
indistinto del “qualunque cosa “ ci sono eventi, che più degli altri ci
turbano. Allora, ci si chiede: che cosa possiamo fare? Nel contesto specifico,
che cosa può fare il poeta?
Di certo, la
poesia possiede gli strumenti per affrontare svariati nuclei problematici
irrisolti, personali e sociali, il disagio e la violenza, le “ferite aperte”,
l’ignoto e le vertigini del mondo interiore nel senso più lato.
Oltre al
profondo sconcerto e dolore per la morte dei ragazzi del Bataclan, c’è in
questa raccolta del Vincenzi, edita da LietoColle, il tentativo di rimanere
attaccati a quel filo di razionalità, che di natura è discontinuo, ma acceso;
cfr. Ad es. la prima poesia non più nomi,
storie e vissuto/ ma un lampeggiare discontinuo/dalle caverne dell’odio.
Da qui l’entrata
completa in scena per ricostruire pezzo per pezzo emozioni, impressioni,
domande, opinioni, riflessioni, nate da un tragico evento che in misure
differenti ci richiama alla responsabilità, intesa come cittadini globali, ma
anche e soprattutto come esseri umani.
Ciò che a mio
parere fa più paura di fronte alle stragi così cruenti, è l’assenza del
pensiero, il fossilizzarsi nella paura, un ritorno quasi nella nostra nudità
umana all’interno delle caverne; ed è questa assenza del pensiero che nella
poesia sfocia in soluzioni diverse: (un solo esempio, nella stessa poesia della
p. 17) abbiamo, da un lato; - c’è un
muoversi di corpi e canti/nel procedere invariato dell’istante ; e
dall’altro, un tratto larvale si
espande/deforma la festa, rende la folla un bersaglio. In entrambi le
immagini, c’è l’uomo, prima, chiuso, ignaro, indifferente nella sua normalità, dopo,
irruente, deciso, mirato nella sua crudeltà. Il solito “disagio della civiltà”,
direbbe Freud, l’aggressività rimossa e risvegliata.
Aperto, però,
rimane l’interrogativo come possiamo abolirla? Intanto, si abbassino tutte le bandiere/si spengano tutte le luci/questa notte/
un mondo è morto. (p. 20)
È giunta la
morte. Più terribile dell’istinto, più grande della paura. Non esiste artista
che non prova a misurarsi con il tema della morte, e spesso si immedesima con
le vittime, ignari, impotenti, quelle, le
vittime sono sempre buone, ricorda l’autore, perché purificate dalla morte;
il dado rimane a noi, i vivi, noi i compartecipi di questo mondo incapace di
amare. (Ancora! sic.) A noi il silenzio e la sottile consapevolezza che si
dovrà pur vivere in qualche modo. Ma se poi, capiti la fortuna di diventare
coscienti della propria futilità, inutilità, il far finta di essere sani,
forse, dico forse, possiamo cogliere l’opportunità di abbracciare la nostra
fragilità e dare un possibile senso alla nostra presenza nel mondo come
individui reali, vivi, interi, continui in grado di affrontare la vita
nell’insieme delle sue difficoltà di ordine sociale, etico, spirituale e
biologico.
In quest’ottica,
mi sembra auspicabile quella microsociologia del rapporto persona a persona,
corpo a corpo, rilanciata da Ronald Laing, lasciando da
parte, anzi meglio non considerare, le strutture sociali e politiche causa
delle condizioni in cui ci troviamo, così possiamo essere tutti: soldati disarmati/vicini come le foglie
dello stesso albero/negli occhi ancora/ lo stupore/della primavera. (P.31)
Solo così
possiamo, anzi dobbiamo urlare con la stessa intensità, non solo perché
Bataclan (Parigi), ma anche, perché Palmira? Perché Ankara? Perché Kabul?
Perché Bruxelles? Perché Londra? Perché Sanaa? Perché Maidagur? Perché Tripoli?
Perché Istanbul? Perché Mogadiscio? Perché Damasco? Perché Kairo? Perché
Baghdad? Perché…
Oh tristezza non trattarci con la stessa crudeltà di
sempre/amiamo la letteratura! Amiamo la letteratura (NaimAraidi “Canzoni di Galilea” p. 15)
Perché, se tutti
i miei perché li posso urlare, allora li posso anche scrivere per poi
incontrarci liberi di Luoghi e Nomi.
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