venerdì 6 maggio 2016

Nicola Romano, "Voragini ed appigli" (Ed. Pungitopo)

di Guglielmo Peralta

      
La prima volta che sentii Nicola Romano "recitare" le sue poesie restai colpito, oltre che dalla sonorità dell'endecasillabo, presente in molte sue composizioni, dalla gestualità fatta di sguardi e di mani. D'allora sono trascorsi trent'anni e ancora oggi mi stupisco del modo in cui egli "rappresenta" i suoi testi. Con lo sguardo segue i pensieri, contempla le immagini sognate dalle parole, e con le mani accompagna le parole come se volesse disegnarle nell'aria, con l'intento di "mani-festarne" i concetti, e così, attraverso i gesti, fa festa al linguaggio, il quale, sia esso scritto che parlato, si fa comunicazione visiva, acquista quella visibilità, non solo a livello semantico ma anche fisico, teorizzata da Apollinaire, il quale la realizzava attraverso i calligrammi. Gesti e parole si corrispondono. Dalla loro espressività traspare il sentimento poetico che li pervade e impreziosisce. Gesti e parole, come Romano dice in uno degli haiku che compongono la seconda sezione di questa silloge, sono la vera ricchezza dell'uomo. ("diventa ricco / di gesti e di parole: / le tue monete"). La sua poesia mantiene, anche nei settenari, che costituiscono la sezione principale, e nella lettura silenziosa, un’inconfondibile "oralità" giocata su ritmi, cadenze, sonorità depositari di una voce, di un parlato che si fa narrazione, racconto e, spesso, poema della quotidianità. Egli non recita, ma comunica mettendoci a contatto sia con le cose e con gli eventi, sia con le sue emozioni, con la sua vita interiore, che rappresenta visibilmente, realisticamente. Il testo che apre la silloge è, forse, il più drammatico per l'improvvisa e brusca interruzione della parola, la quale, dopo essere affiorata con le altre sue sorelle "dal caglio dei silenzi" per offrirsi in "fonèmi  / rime (...) afèresi / (...) accenti e sillabe" - elementi, questi, con cui essa cerca di comunicare -  corre, d'improvviso, il rischio di restare monca, inespressa, senza voce, di fronte alla ferocia umana che "cava il bene dagli occhi / e tracotante spazza / l'integrità e la pace". Tuttavia, questa parola, è la sola in grado di aderire agli stati d'animo, di mantenersi in rapporto costante con essi rendendoli manifesti e, al tempo stesso, di stabilire un contatto, un legame con la realtà, colta sempre nella sua quotidianità, e che il Nostro ci restituisce senza idealizzarla o trasfigurarla, carica ora di pathos, ora di sottile ironia e in una veste "tonale", come nelle arti figurative, con un'intensità di colori e d'immagini accompagnati da suoni, che la mettono in risalto evidenziandone gli aspetti e rendendola, così, maggiormente presente, più visibile, divenendo, essa, oggetto della nostra attenzione e riflessione. Ecco, allora, che la parola non è perduta, non resta sospesa, non cessa di cantare. Il suo poeta non appende la cetra "Alle fronde dei salici" (come, del resto, non fece nemmeno Quasimodo, che, cantando, non mantenne la promessa del "voto"). Romano salva la parola dal naufragio assicurandole il contatto con la realtà, la quale diviene il suo destinatario privilegiato. Tra la parola e la realtà si stabilisce un canale di comunicazione, all'interno del quale c'è il messaggio poetico, ovvero, la poesia con i suoi "appigli". Romano guarda il mondo con gli occhi disincantati, ma in quanto poeta e sognatore non riesce ad assuefarsi, a rassegnarsi alle crudeltà, alle efferatezze della società che "sconquassano la nostra anima". In evidente contraddizione con quanto abbiamo appena affermato, il nostro poeta sembra prendere le distanze dalla realtà quando dice con Vasco Pratolini, nella terzina di questi messa in esergo alla raccolta: "Sono come un animale / sento il bisogno d'appartarmi / quando sono ferito". In verità, se, da un lato, egli sente con Pratolini il bisogno d'appartarsi, di chiudersi nella torre d'avorio della poesia, dall'altro lato, sente che non può estraniarsi dalla realtà e non se ne distacca, ma mantiene, proprio grazie alla poesia, il legame con essa non restando indifferente alla barbarie dell'uomo del nostro tempo, agli eventi ferali che denuncia ed elenca, come vedremo, negli haiku che compongono la seconda sezione della raccolta. Le poesie della prima sezione sono introdotte, ciascuna, da un distico (una sola da un "monoverso") di un poeta diverso. Sono ben trentasei poeti che impreziosiscono la silloge. Sono costellazioni del firmamento poetico, che, evidentemente, Nicola Romano ama contemplare e da cui trae spunto e ispirazione per i suoi versi. E sono, essi, i punti di riferimento, gli "appigli": il richiamo della poesia e alla poesia, che è la luce necessaria per combattere il buio, per sanare le ferite, per compensare le "voragini" di una società che fagocita e distrugge sempre più i sentimenti, i valori tradizionali. All'uomo, egli si rivolge direttamente e gli pone la domanda a bruciapelo: "Dimmi se hai kuore", titolo, questo, della seconda sezione, dove «ku», al posto di «cu» di cuore, preceduto da «hai», rende visivamente la presenza della parola "haiku" anticipando, annunciando così la forma poetica di cui è composta la sezione. Ma il cambio del fonema iniziale della parola "cuore", non è per mero gioco linguistico, ma per esprimere la durezza, l'insensibilità, l'indifferenza, la cattiveria, la ferinità dell'animo umano. La realtà, per il nostro poeta, è ciò che "appare"; egli non va alla ricerca di un assoluto, ma guarda alla vita che diviene sempre più precaria; vive un disagio che non è soggettivamente esistenziale, ma oggettivamente esiziale e che riguarda la società mondiale, sull'orlo della catastrofe. Il suo sguardo di uomo e di poeta è rivolto verso ciò che realmente, concretamente suscita inquietudine, senso di disorientamento e annientamento e incomprensione assoluta; cioè verso quella violenza dai mille volti, anche gratuita, quel "gioco" al massacro, quella minaccia, quella forza distruttiva che si alimenta di tutto il male di cui l'uomo oggi mostra di essere capace e che grava e incombe anche sulla stessa natura, la quale, sconvolta e ferita a morte, si ribella con impeto devastante. Romano è un poeta devoto e vero, amante della bellezza e della verità, la quale, tuttavia, resta per tutti segreta e misteriosa. Dell’uomo onesto e sensibile sono il forte rammarico e la sofferenza, espressi qui poeticamente, per una società, per un mondo che ha fatto sempre di più del dolore e delle tragedie il proprio pane (o veleno) quotidiano.

      Essere poeta realista, come lo è Nicola Romano, significa anche cogliere gli aspetti negativi della realtà sociale, denunciare la dissipazione dei valori e della bellezza vedendo in prospettiva la possibilità della salvezza, di ricostruire il mondo sulla base della poesia; significa non perdere la speranza, non abbandonarsi alla fatalità, non lasciarsi risucchiare dal buco nero dell'indifferenza mantenendo aperto, quanto più possibile, il "dialogo" con il prossimo, con la società, col mondo, con la vita. A ciò servono gli "appigli" che solo la poesia è in grado di dare. Ed essa lo fa col suo linguaggio mai avulso dal reale, ma con questo legato manifestamente. Sì che il realismo romaniano non è descrizione oggettiva e "impersonale" dei fatti, degli accadimenti sociali, ma un modo personalissimo di ripensare la realtà, di rappresentarla attraverso il linguaggio poetico che, restituendocela in tutta la sua drammaticità, incomprensibilità e assurdità, ne fa una visione insostenibile e impone una nuova coscienza, all'interno della quale tutti i conflitti siano risolti. E la poesia è l'atto interiore per eccellenza; essa sembra potere avviare questo processo di formazione per lo sviluppo di una coscienza critica, che consenta di prendere posizione sulle cose e nelle cose, ovvero, di prendere possesso della realtà allontanandosene, cioè, nel senso di ricusarla destandosi alla consapevolezza di potere operare per la sua trasformazione. Anche se non possiamo negare l'utopia che governa questo pensiero, questa aspirazione, tuttavia, quest'utopia non è l'impraticabile, il sogno irrealizzabile, ma è, nel realismo linguistico-poetico di Romano, atto di denuncia di una società disumana, "voraginosa" e, al tempo stesso, annuncio, pieno di speranza, di una società più umana da realizzare con l'aiuto della poesia, degli "appigli" di cui essa consiste e che hanno nome di bellezza, virtù, passione, valori, sentimenti, educazione, etica...insomma, di tutto ciò che la poesia «è», e che per la natura infinita della poesia stessa è impossibile elencare compiutamente. Le "voragini" sono colte dall'occhio, gli "appigli" dallo sguardo, che il nostro poeta rivolge dentro di sé, in interiore caelo, dove dimorano quei poeti da lui citati, che costituiscono una delle tante costellazioni. Le "voragini", elencate negli haiku, sono: lo sfruttamento dei più deboli; le prevaricazioni; gli scandali politici e sportivi; le violenze negli stadi, sulle donne, sui bambini, sugli anziani, sui clochard; gli omicidi, i suicidi, gli infanticidi e i figlicidi; le guerre; le barbare lapidazioni; le decapitazioni da parte dei miliziani dell'Isis; la tragedia dei migranti; l'uso e lo spaccio di droghe; il riciclaggio di denaro sporco; gli sversamenti e i roghi di rifiuti industriali, tossici; le frodi alimentari; lo scambio di provette; la fuga dei capitali dalle banche; il degrado delle città, il malgoverno; la corruzione politica e amministrativa; la decadenza "di Roma capitale/Kaput mundi"; le rapine, i sequestri di persona, le aggressioni, il malcostume, il bullismo, l'inquinamento degli ambienti naturali. Le "voragini" sono sotto gli occhi di tutti. Gli "appigli" sono cercati dal Poeta che non sa e non vuole rassegnarsi allo sfacelo sociale e mondiale. Il nuovo realismo non è quello del pessimismo irreparabile, distruttivo, impotente. Ma è il realismo che al negativo oppone la visione del positivo, la speranza del cambiamento. Il poeta del nuovo realismo è colui che acquistando coscienza della crisi non si ferma a descriverla, a denunciarla, ma spera, lotta, cerca la svolta. Anche se qui, il desiderio del nostro poeta di costruire una nuova realtà a partire dalla poesia non è espressamente dichiarato, tuttavia, non è difficile intuire il valore che egli attribuisce alla poesia, la quale, se non può dare "scacco matto" alle violenze e arginare tutto il male che minaccia e rende sempre più periglioso il cammino dell'umanità su questo nostro violento e violentato pianeta, essa può sostenerci, darci sollievo, interrompere il flusso negativo che avvelena il nostro vivere quotidiano mostrandoci gli "appigli" da opporre alle "voragini". E gli "appigli" sono, ancora, le occasioni da cogliere, le risorse dell'intelletto e dello spirito in cui confidare, la capacità reattiva, di "resilienza", cioè di far fronte agli eventi negativi e di riorganizzare, ciascuno, positivamente la propria vita secondo coscienza e sentimento, soprattutto, poetico. Bisogna, dunque, "appigliarsi" a tutto ciò che resta ancora di buono per lottare, per migliorare, per vivere, per salvarsi.
      Gli haiku, le "cronachette ferali" sono uno sguardo fotografico, dettagliato, esauriente sulla realtà sociale, di cui Romano coglie gli aspetti crudi, desolati, deplorevoli. Egli costruisce un quadro globale della drammatica condizione umana usando immagini e metafore, che mettono in risalto fatti, luoghi, volti, situazioni. Così si va delusi e smarriti "fra strade / che sembrano stazioni / dove tutto è in ritardo / e non comprendi i luoghi / gli orari e i marciapiedi / (...) il giorno poi transenna / voragini nei cuori" (pag.17). In questa plaquette la realtà è presente nella sua drammaticità, anche là dove sembra essere messa in parentesi o appare velata da una sottile ironia, che lascia trapelare un retrogusto amaro. Così, "sospesa" e un po' mascherata, la realtà di più si mostra e si fa insostenibile, sì che il Poeta avverte l'urgenza del cambiamento, la necessità di trasformarla in un luogo 'naturale', più familiare dove eleggere la nuova residenza su questa terra. Essa è presente fin dall'inizio, nei versi del primo componimento che abbiamo già citato: in quel "prossimo mio/ come me stesso/ che con mani feroci/cava il bene dagli occhi/ e tracotante spazza/ l'integrità e la pace/. Ed è, come abbiamo già visto, esposta, sciorinata attraverso gli haiku. E se ne avverte fortemente la presenza, ancora nel testo che apre la silloge: nella mancanza improvvisa delle parole, che pure il nostro poeta dichiara di sapere "radunare al meglio"; nella 'paralisi' del linguaggio, che è 'annichilimento' dei sentimenti, angoscia, trauma coscienziale, incapacità di trovare, di dare una spiegazione al "tracollo" dell'uomo, dei valori, della società mondiale. ("si spappola il precordio / tracollo in un deliquio / e non ho più par...") Qui, dunque, la realtà è la voragine, il  'buco nero' che tronca e inghiotte le parole, che toglie "fiato" generando inquietudine e perdita di senso. La realtà non "esiste", perché non può essere questa, che indossa le diverse maschere della tragedia contemporanea. Il nuovo realismo, allora, è la ricerca del volto senza maschere, l'esigenza di rivelare la vita nella sua normalità, cioè estranea, fuori dalla realtà, la quale, essendo diventata una tragica carnevalata, non può offrire o sollecitare nessuna forma di spettacolo rituale, nessuna critica parodistica e rende, pertanto, (come afferma Linguaglossa) inutile e privo di senso «il sentimento carnevalesco del mondo», la «letteratura carnevalizzata» tendente a istituire «un mondo alla rovescia», come ha teorizzato Bachtin.
     Dalla presa di coscienza della realtà "voraginosa", che disorienta e genera sofferenza, nasce l'esigenza di trovare "appigli", soluzioni, rapporti; di indicare modelli; di darsi un compito, una missione: indicare all'uomo la via della salvezza. "Ma quando torneremo / al centro delle cose / dentro quel solco antico / che luce diede al mondo?" (pag.18). In questa domanda ritorna l'utopia possibile. Essa è la via, l'auspicato ritorno là dove si riflette la luce della creazione: in quel centro delle cose, in cui l'u-topia trova il suo luogo ideale. Difficile è - dice lo stesso Romano - dare una risposta "se tutto non esiste", se non trovano via d'uscita i pensieri che ristagnano di fronte alle difficoltà e alle contraddizioni della realtà, ineliminabili perché intrinseche alla natura stessa delle cose (pag. 14). Bisogna, allora, trovare una soluzione per superare l'aporia entro cui si dibatte il pensiero. La poesia è il grande appiglio. Essa è l'altra realtà che può annullare le contraddizioni, la distanza che ci separa dalle cose e consentirci di prendere posto in esse. Essa è il "centro", "quel solco antico", ed è la "luce" che può restituirci l'amore e renderci romantici, come un tempo gli innamorati sotto la  luna, la quale "irride / chi al suo chiaror non s'ama" (15). Riscoprire la bellezza dei sentimenti, tornare a stupirsi del cielo stellato è la risposta alla domanda, dove la realtà torna ad esistere nella sua vera essenza, nello splendore di quel "centro" che è l'origine del mondo e la cui ricerca non è metafisica, ma è l'annuncio del nuovo realismo, ovvero, del posto che l'uomo deve occupare nel mondo. Solo elevandosi spiritualmente si entra nel cuore delle cose, si stabilisce il contatto con la nuova realtà. Il desiderio del nostro poeta di farsi "ramo / che svirgola nell'aria" con "i suoi bracci in fiore" è il suo bisogno di librarsi con la poesia e liberarsi dal "cordame dei passi", che non conducono alla meta. Qui, ancora una volta, sembra che il Poeta voglia prendere le distanze dalla quotidianità, dal "monotono fluire" delle cose, che con il loro contraddirsi ci disorientano; sembra che egli, di fronte al "male di vivere", voglia chiudersi nella «divina Indifferenza», di montaliana memoria, e involarsi con la poesia come "il falco alto levato". Ma quel "Vorrei porgermi ramo" è un verso che toglie ogni dubbio riguardo alle sue intenzioni, rivelando, invece, un sentimento di carità verso gli uomini (pag.19). Nell'ideale metamorfosi, in quell'arborea trasformazione, c'è il desiderio di Romano di invitare gli uomini a cogliere i frutti della poesia, a sentirne il profumo invogliandoli, al tempo stesso, a coltivarla, a lasciarla crescere dentro la loro anima. E questo è l'unico modo - lo diciamo con le parole di Musil - di indicare «all'uomo come può essere uomo; inventare l'uomo interiore».[1] Ma ciò è un miracolo, che solo la poesia può fare. Ed ecco: Il sogno del poeta / è leggere a una folla / rapita e gaudente"; è portare tra la gente "l'abbraccio" della poesia, "lanciare pagine / verso mani protese" desiderose di afferrarle (pag. 31). Questo ideale trionfo della bellezza non lascia spazio al pessimismo. In "questo tempo frusto / che buttera speranze (...) torneranno giubili / e danze nei cortili / per i giovani affranti / se si reincarna il tempo" (pag. 21). E qui, nella speranza della palingenesi, della rinascita dell'uomo entra tutta la realtà: il presente e il passato, tutto il tempo, prima e dopo la venuta del Cristo, un tempo logoro, consunto, sempre più povero fino a rischiare di diventare senza futuro. Deve pure esserci, allora, un tempo della gioia, della guarigione. Di questo sembra convinto il nostro poeta, il quale sembra dire con Herder: «la serpe del tempo deve mutare la pelle per portare all'uomo nella caverna erbe medicinali, per la rigenerazione».[2] E queste erbe non possono essere che i versi: gli "appigli" necessari per sollevarci al di sopra delle "voragini" e a-scendere verso quel "centro ", dov'è l'essenza delle cose: la Parola, la "luce" che le ha generate; dov'è la nostra anima, l'anima del mondo, la vera residenza, l'essere e il tempo della resurrezione. 
      Non manca, in questa silloge, il ritorno all'infanzia, che è tema ricorrente in quasi tutte le raccolte poetiche del Nostro. Ma qui, ai ricordi, che aprono scene del tempo felice, quando il domani era assicurato e addentato col cibo e col calore familiare, si legano ricordi di vita vissuta da genitore; gli umori "e i timori patiti / per riscaldare i figli / cresciuti a pane e labbra": momenti, stati d'animo assorbiti dai muri, e che la casa custodisce "come calda placenta" (pag. 37). Ancora presente è la realtà, quella che il Poeta vorrebbe non esistesse, là dove "Pare tutto perfetto", quando ci prendiamo cura delle cose più semplici e amabili ("quando t'affacci al sole / carezzi i ciclamini / diserbi le pomelie") dimenticando chi "giace / nell'angusto abbandono". Ed è una luce di speranza, un "appiglio" pensare "che il domani" sia migliore; che "dal nulla", dal vuoto, nel quale tutto sprofonda, possa iniziare il cambiamento, la rinascita dell'uomo (pag. 38). E accanto alla speranza ci sono i sogni ad occhi aperti, che lasciano vedere dentro quel "nulla", dentro quel "buco nero" tutt'altra realtà, di cui però resta alla fine solo l'illusione, la coscienza del sogno (pag. 42). Ma è, un'altra volta, la poesia l'àncora alla quale appigliarsi quando l'amicizia è tradita, la vita procura "mialgie" e la notte crea sonni agitati, trasformando in incubi e inquietudini gli "sbagli diurni". Dalla poesia Nicola Romano trae la forza per innalzarsi. Egli la considera una grazia, che riceve proprio dai dispiaceri, dai patimenti e dalle delusioni (pag. 44). In virtù di essa sarebbe possibile stabilire rapporti col nostro prossimo, conoscere la vita delle persone che incontriamo nel nostro quotidiano, vincere l'indifferenza verso gli altri tirandoci fuori dalla folla solitaria, in cui ognuno è un'isola, perso dentro sé stesso, dentro la propria storia e ignora ciò che si cela dietro lo sguardo, il fugace saluto, il silenzio del proprio vicino (pag.47). La poesia è in grado di reggere tutto il dolore che esprime, e che si raccoglie nelle parole versate sul "foglio". E questo, che in grembo "porta carichi / grandi come le pene";  che custodisce "grumi di memorie / pesanti come marmi"  e che "s'intride / con accenti di lacrime", è il "corpo sottile " della poesia stessa, la quale prende su di sé un'intera esistenza costituendosi, offrendosi come cura (pag.48). Ecco! Questa nobiltà della poesia, questa sua indulgenza, il suo essere stato di grazia, generato dal dolore, è l'ulteriore conferma della presenza della realtà, della "non-vita", la quale non può essere negata, ignorata, ma ha bisogno del volto veramente umano, che solo la poesia può darle.



[1] R. Musil, Schizzo della conoscenza del poeta.
[2]  J. G. Herder: Titan und Aurora.

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