di Guglielmo Peralta
Essere poeta realista,
come lo è Nicola Romano, significa anche cogliere gli aspetti negativi della
realtà sociale, denunciare la dissipazione dei valori e della bellezza vedendo
in prospettiva la possibilità della salvezza, di ricostruire il mondo sulla
base della poesia; significa non perdere la speranza, non abbandonarsi alla
fatalità, non lasciarsi risucchiare dal buco nero dell'indifferenza mantenendo
aperto, quanto più possibile, il "dialogo" con il prossimo, con la
società, col mondo, con la vita. A ciò servono gli
"appigli" che solo la poesia è in grado di dare. Ed essa lo fa col
suo linguaggio mai avulso dal reale, ma con questo legato manifestamente. Sì che il realismo
romaniano non è descrizione oggettiva e "impersonale" dei fatti, degli
accadimenti sociali, ma un modo personalissimo di ripensare la realtà, di rappresentarla
attraverso il linguaggio poetico che, restituendocela in tutta la sua
drammaticità, incomprensibilità e assurdità, ne fa una visione insostenibile e
impone una nuova coscienza, all'interno della quale tutti i conflitti siano
risolti. E la poesia è l'atto interiore per eccellenza; essa sembra
potere avviare questo processo di formazione
per lo sviluppo di una coscienza critica, che consenta di prendere posizione sulle cose e nelle cose, ovvero, di prendere possesso
della realtà allontanandosene, cioè, nel senso di ricusarla destandosi alla
consapevolezza di potere operare per la sua trasformazione. Anche se non
possiamo negare l'utopia che governa questo pensiero, questa aspirazione,
tuttavia, quest'utopia non è l'impraticabile,
il sogno irrealizzabile, ma è, nel realismo linguistico-poetico di Romano, atto
di denuncia di una società disumana, "voraginosa" e, al tempo stesso,
annuncio, pieno di speranza, di una società più umana da realizzare con l'aiuto
della poesia, degli "appigli" di cui essa consiste e che hanno nome di bellezza, virtù, passione, valori,
sentimenti, educazione, etica...insomma, di tutto ciò che la poesia «è», e che
per la natura infinita della poesia stessa è impossibile elencare
compiutamente. Le "voragini" sono colte dall'occhio, gli
"appigli" dallo sguardo, che il nostro poeta rivolge dentro di sé, in interiore caelo, dove dimorano quei
poeti da lui citati, che costituiscono una delle tante costellazioni. Le
"voragini", elencate negli haiku, sono: lo sfruttamento dei più
deboli; le prevaricazioni; gli scandali politici e sportivi; le violenze negli
stadi, sulle donne, sui bambini, sugli anziani, sui clochard; gli omicidi, i
suicidi, gli infanticidi e i figlicidi; le guerre; le barbare lapidazioni; le
decapitazioni da parte dei miliziani dell'Isis; la
tragedia dei migranti; l'uso e lo spaccio di droghe; il riciclaggio di denaro
sporco; gli
sversamenti e i roghi di rifiuti industriali, tossici; le frodi alimentari; lo
scambio di provette; la fuga dei capitali dalle banche; il degrado delle città,
il malgoverno; la corruzione politica e amministrativa; la decadenza "di Roma capitale/Kaput mundi"; le
rapine, i sequestri di persona, le aggressioni, il malcostume, il bullismo,
l'inquinamento degli ambienti naturali. Le "voragini" sono sotto gli
occhi di tutti. Gli "appigli" sono cercati dal Poeta che non sa e non
vuole rassegnarsi allo sfacelo sociale e mondiale. Il nuovo realismo non è quello del pessimismo irreparabile,
distruttivo, impotente. Ma è il realismo che al negativo oppone la visione del
positivo, la speranza del cambiamento. Il poeta del nuovo realismo è colui che acquistando coscienza della crisi non si
ferma a descriverla, a denunciarla, ma spera, lotta, cerca la svolta. Anche se
qui, il desiderio del nostro poeta di costruire una nuova realtà a partire
dalla poesia non è espressamente dichiarato, tuttavia, non è difficile intuire
il valore che egli attribuisce alla poesia, la quale, se non può dare
"scacco matto" alle violenze e arginare tutto il male che minaccia e
rende sempre più periglioso il cammino dell'umanità su questo nostro violento e
violentato pianeta, essa può sostenerci, darci sollievo, interrompere il flusso
negativo che avvelena il nostro vivere quotidiano mostrandoci gli
"appigli" da opporre alle "voragini". E gli
"appigli" sono, ancora, le occasioni da cogliere, le risorse
dell'intelletto e dello spirito in cui confidare, la capacità reattiva, di
"resilienza", cioè di far fronte agli eventi negativi e di
riorganizzare, ciascuno, positivamente la propria vita secondo coscienza e
sentimento, soprattutto, poetico. Bisogna, dunque, "appigliarsi" a
tutto ciò che resta ancora di buono per lottare, per migliorare, per vivere,
per salvarsi.
Gli haiku, le "cronachette
ferali" sono uno sguardo fotografico, dettagliato, esauriente sulla
realtà sociale, di cui Romano coglie gli aspetti crudi, desolati, deplorevoli.
Egli costruisce un quadro globale della drammatica condizione umana usando
immagini e metafore, che mettono in risalto fatti, luoghi, volti, situazioni.
Così si va delusi e smarriti "fra
strade / che sembrano stazioni / dove tutto è in ritardo / e non comprendi i
luoghi / gli orari e i marciapiedi / (...) il giorno poi transenna / voragini nei cuori" (pag.17). In questa
plaquette la realtà è presente nella sua drammaticità, anche là dove sembra
essere messa in parentesi o appare velata da una sottile ironia, che lascia
trapelare un retrogusto amaro. Così, "sospesa" e un po' mascherata,
la realtà di più si mostra e si fa insostenibile, sì che il Poeta avverte
l'urgenza del cambiamento, la necessità
di trasformarla in un luogo
'naturale', più familiare dove eleggere la nuova
residenza su questa terra. Essa è presente fin
dall'inizio, nei versi del primo componimento che abbiamo già citato: in quel
"prossimo mio/ come me stesso/ che con mani feroci/cava il bene
dagli occhi/ e tracotante spazza/ l'integrità e la pace/. Ed è, come
abbiamo già visto, esposta, sciorinata
attraverso gli haiku. E se ne avverte fortemente la presenza, ancora nel testo
che apre la silloge: nella mancanza improvvisa delle parole, che pure il nostro
poeta dichiara di sapere "radunare
al meglio"; nella 'paralisi'
del linguaggio, che è 'annichilimento' dei sentimenti, angoscia, trauma
coscienziale, incapacità di trovare, di dare una spiegazione al "tracollo" dell'uomo, dei valori,
della società mondiale. ("si
spappola il precordio / tracollo in un deliquio / e non ho più par...")
Qui, dunque, la realtà è la voragine, il
'buco nero' che tronca e inghiotte le parole, che toglie
"fiato" generando inquietudine e perdita di senso. La realtà non
"esiste", perché non può essere questa, che indossa le diverse
maschere della tragedia contemporanea. Il nuovo
realismo, allora, è la ricerca del volto senza maschere, l'esigenza di
rivelare la vita nella sua normalità,
cioè estranea, fuori dalla realtà, la quale, essendo diventata una tragica
carnevalata, non può offrire o sollecitare nessuna forma di spettacolo rituale,
nessuna critica parodistica e rende, pertanto, (come afferma Linguaglossa)
inutile e privo di senso «il sentimento carnevalesco del mondo», la
«letteratura carnevalizzata» tendente a istituire «un mondo alla rovescia»,
come ha teorizzato Bachtin.
Dalla presa di coscienza della realtà "voraginosa", che
disorienta e genera sofferenza, nasce l'esigenza di trovare
"appigli", soluzioni, rapporti; di indicare modelli; di darsi un
compito, una missione: indicare all'uomo la via della salvezza. "Ma quando torneremo / al centro delle cose /
dentro quel solco antico / che luce diede al mondo?" (pag.18). In
questa domanda ritorna l'utopia possibile.
Essa è la via, l'auspicato ritorno là dove si riflette la luce della creazione:
in quel centro delle cose, in cui l'u-topia trova il suo luogo ideale.
Difficile è - dice lo stesso Romano - dare una risposta "se tutto non esiste", se non
trovano via d'uscita i pensieri che ristagnano di fronte alle difficoltà e alle
contraddizioni della realtà, ineliminabili perché intrinseche alla natura
stessa delle cose (pag. 14). Bisogna, allora, trovare una soluzione per
superare l'aporia entro cui si dibatte il pensiero. La poesia è il grande appiglio. Essa è l'altra realtà che può
annullare le contraddizioni, la distanza che ci separa dalle cose e consentirci
di prendere posto in esse. Essa è il "centro",
"quel solco antico", ed è
la "luce" che può
restituirci l'amore e renderci romantici, come un tempo gli innamorati sotto
la luna, la quale "irride / chi al suo chiaror non s'ama"
(15). Riscoprire la bellezza dei sentimenti, tornare a stupirsi del cielo
stellato è la risposta alla domanda, dove la realtà torna ad esistere nella sua vera essenza, nello
splendore di quel "centro" che è l'origine del mondo e la cui
ricerca non è metafisica, ma è l'annuncio del nuovo realismo, ovvero, del posto
che l'uomo deve occupare nel mondo. Solo elevandosi spiritualmente si entra nel
cuore delle cose, si stabilisce il contatto con la nuova realtà. Il desiderio
del nostro poeta di farsi "ramo /
che svirgola nell'aria" con
"i suoi bracci in fiore" è
il suo bisogno di librarsi con la poesia e liberarsi dal "cordame dei passi", che non
conducono alla meta. Qui, ancora una volta, sembra che il Poeta voglia prendere
le distanze dalla quotidianità, dal "monotono
fluire" delle cose, che con il loro contraddirsi ci disorientano;
sembra che egli, di fronte al "male di vivere", voglia chiudersi
nella «divina Indifferenza», di montaliana memoria, e involarsi con la poesia
come "il falco alto levato". Ma quel "Vorrei porgermi ramo"
è un verso che toglie ogni dubbio riguardo alle sue intenzioni, rivelando,
invece, un sentimento di carità verso gli uomini (pag.19). Nell'ideale
metamorfosi, in quell'arborea trasformazione,
c'è il desiderio di Romano di invitare gli uomini a cogliere i frutti della
poesia, a sentirne il profumo invogliandoli, al tempo stesso, a coltivarla, a
lasciarla crescere dentro la loro anima. E questo è l'unico modo - lo diciamo
con le parole di Musil - di indicare «all'uomo come può essere uomo; inventare l'uomo interiore».[1] Ma ciò è un
miracolo, che solo la poesia può fare. Ed ecco: Il sogno del poeta / è leggere a una folla / rapita e gaudente";
è portare tra la gente "l'abbraccio"
della poesia, "lanciare pagine /
verso mani protese" desiderose di afferrarle (pag. 31). Questo ideale
trionfo della bellezza non lascia spazio al pessimismo. In "questo tempo frusto / che buttera speranze
(...) torneranno giubili / e danze nei
cortili / per i giovani affranti / se si reincarna il tempo" (pag.
21). E qui, nella speranza della palingenesi, della rinascita dell'uomo entra
tutta la realtà: il presente e il passato, tutto il tempo, prima e dopo la
venuta del Cristo, un tempo logoro, consunto, sempre più povero fino a
rischiare di diventare senza futuro. Deve pure esserci, allora, un tempo della gioia, della guarigione. Di questo
sembra convinto il nostro poeta, il quale sembra dire con Herder: «la serpe del
tempo deve mutare la pelle per portare all'uomo nella caverna erbe medicinali,
per la rigenerazione».[2] E queste erbe
non possono essere che i versi: gli "appigli" necessari per
sollevarci al di sopra delle "voragini" e a-scendere verso quel "centro
", dov'è l'essenza delle cose: la Parola, la "luce" che le ha generate; dov'è la nostra anima, l'anima del
mondo, la vera residenza, l'essere e
il tempo della resurrezione.
Non manca, in questa silloge, il ritorno all'infanzia, che è tema
ricorrente in quasi tutte le raccolte poetiche del Nostro. Ma qui, ai ricordi,
che aprono scene del tempo felice, quando il domani era assicurato e addentato
col cibo e col calore familiare, si legano ricordi di vita vissuta da genitore;
gli umori "e i timori patiti / per
riscaldare i figli / cresciuti a pane e labbra": momenti, stati
d'animo assorbiti dai muri, e che la casa custodisce "come calda placenta" (pag. 37). Ancora presente è la realtà,
quella che il Poeta vorrebbe non esistesse, là dove "Pare tutto perfetto", quando ci prendiamo cura delle cose più
semplici e amabili ("quando
t'affacci al sole / carezzi i ciclamini / diserbi le pomelie")
dimenticando chi "giace /
nell'angusto abbandono". Ed è una luce di speranza, un
"appiglio" pensare "che il
domani" sia migliore; che "dal
nulla", dal vuoto, nel quale tutto sprofonda, possa iniziare il
cambiamento, la rinascita dell'uomo (pag. 38). E accanto alla speranza ci sono
i sogni ad occhi aperti, che lasciano vedere dentro quel "nulla", dentro quel "buco nero" tutt'altra realtà, di
cui però resta alla fine solo l'illusione, la coscienza del sogno (pag. 42). Ma
è, un'altra volta, la poesia l'àncora alla quale appigliarsi quando l'amicizia
è tradita, la vita procura "mialgie"
e la notte crea sonni agitati, trasformando in incubi e inquietudini gli "sbagli diurni". Dalla poesia Nicola
Romano trae la forza per innalzarsi. Egli la considera una grazia, che riceve
proprio dai dispiaceri, dai patimenti e dalle delusioni (pag. 44). In virtù di essa sarebbe possibile
stabilire rapporti col nostro prossimo, conoscere la vita delle persone che
incontriamo nel nostro quotidiano, vincere l'indifferenza verso gli altri
tirandoci fuori dalla folla solitaria, in cui ognuno è un'isola, perso dentro
sé stesso, dentro la propria storia e ignora ciò che si cela dietro lo sguardo,
il fugace saluto, il silenzio del proprio vicino (pag.47). La poesia è in grado di
reggere tutto il dolore che esprime, e che si raccoglie nelle parole versate
sul "foglio". E questo,
che in grembo "porta carichi / grandi come le pene"; che custodisce "grumi di memorie / pesanti come marmi" e che "s'intride / con accenti di lacrime", è il "corpo sottile " della poesia
stessa, la quale prende su di sé un'intera esistenza costituendosi, offrendosi
come cura (pag.48). Ecco! Questa nobiltà della poesia, questa sua indulgenza,
il suo essere stato di grazia, generato dal dolore, è l'ulteriore conferma
della presenza della realtà, della "non-vita",
la quale non può essere negata, ignorata, ma ha bisogno del volto veramente
umano, che solo la poesia può darle.
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