di Giuseppe Bagnasco
“
A tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla vita, alla libertà, al
perseguimento della felicità”. E’ una frase estrapolata dalla Dichiarazione di
Indipendenza americana sottoscritta dai rappresentanti delle tredici ex-colonie
britanniche riuniti a congresso a Philadelphia il 4 aprile 1776. Ma non è dei
primi due diritti che parleremo ma del terzo e cioè quello che riguarda la ricerca
della felicità. Giovanni Taibi nel suo “Lame di buio dal passato” (Ed.SCE –
2015) affronta con speculazione filosofica questo tema. E lo fa non con
definizioni care ad alcuni filosofi della Grecia classica che l’identificavano alcuni
con l’Eudaimonìa (avere una vita fortunata) o con l’Euthumìa (tranquillità
dell’animo) o ancora con l’Ataraxìa (essere privi di turbamenti), ma con un
romanzo che non è il classico racconto d’appendice, ma una storia nella quale
interloquiscono personaggi che danno vita a quei “Oì Dialogòi” di platoniana
memoria. Pertanto “Lame di buio dal passato” si pone non come un testo fine a
se stesso ma come un mezzo attraverso il quale l‘Autore, dopo un percorso e un
dibattito analitico sul sentimento dell’amore e una speculazione sull’Essere,
che implicitamente include il senso della vita, giunge alla sola e unica
conclusione possibile.
E’
un tortuoso cammino già evidenziato dal titolo dal sapore dichiaratamente
ossimorico. Infatti solitamente non è possibile descrivere una lama di buio ma
una lama di luce, negata però dalla parola buio, come dire una luce di buio,
esattamente un ossimoro. E che poi venga dal passato è solo per dire che ha
radici lontane. Ma è questa contrapposizione luce-buio, sogno-realtà,
passato-presente che traccia il dualismo su cui si snoda la trama del romanzo.
Al titolo fa da conforto e testimonianza il dipinto in copertina dove il
pittore Enzo Puleo raffigura i volti di due uomini e due donne di diversa età e
che rappresentano due mondi, quello giovanile (lui con i capelli lunghi, lei
nuda a rappresentare l’anticonformismo) e quello della maturità (lui stempiato
e assorto, lei ben vestita col passo dinoccolato). Una dualità che viene
raccontata con sapiente artifizio dal Taibi che interseca la vita reale del
protagonista con squarci di ricordi quali emergono dai diari e dai racconti
conservati nel tempo, appunto “lame di buio”. E’ una storia d’amore univocale,
ad una sola voce, un sentimento coltivato fino all’esasperazione dal
protagonista Salvo verso la coetanea Anna,un amore sbocciato nell’ultimo anno
di Liceo e che nel suo svolgimento sebbene appaia semplice, esplode in tutta la sua
drammaticità nei tre racconti racchiusi come in uno scrigno nel romanzo. Se a
ciò si aggiungono le tante riflessioni e le “sofìe” che impreziosiscono il
testo proprie dell’Autore (con laurea in
Filosofia e docenza negli Istituti secondari statali di materie letterarie), ne
risulta una sorta di Trattato di filosofia occulta.
Nella sequenza temporale della storia,
Salvo, un bel giovane ventenne, invaghitosi della compagna di classe Anna e mal
corrisposto, per dimenticarla si trasferisce a Milano dove negli anni dopo la
laurea, immergendosi nel lavoro, fa carriera tanto da assurgere al posto di primario ospedaliero. Un’invenzione
della sua mente pensare che la lontananza e il lavoro potessero costituire
efficaci anticorpi capaci di distruggere il ricordo della donna. E’ una
continua sofferenza, anche se normalmente, come afferma l’Autore,” il passato
sembra sempre bello quasi come se eliminassimo i momenti più brutti lasciando
prevalere solo i sentimenti più gradevoli”. Ma quel dolore, racchiuso
nell’angolo più riposto del suo animo, Salvo lo ritiene comunque sacro per il
semplice fatto che appartiene solo a lui e nessuno potrà mai cancellarlo tanto
meno lui tant’è che tornato al paese
dopo vent’anni, per il matrimonio del proprio fratello, la ferita d’amore mai
rimarginata, si riapre nel rivedere i luoghi di quel sogno fallito.
Tutta la storia si evince unicamente dai
tre racconti conservati e scritti contestualmente in quel periodo e che il
giovane Salvo intitolò “ Amore e Morte – Trilogia di racconti di Salvatore”.
Parlano del suo amore totalizzante e disperato, “un catartico viaggio interno e
dentro l’amore che prende l’anima e lascia senza fiato”. Un viaggio che, come
in ogni comune storia d’amore, è solito iniziare con l’innamoramento che si
alimenta, come dice Francesco Alberoni nel suo classico “incontrarsi per dirsi
addio”, con la progressiva carenza di serotonina, e finisce appunto con
l’addio. Racconti che Salvo scrive proprio in quest’ordine ma che ora vuole
rileggere all’inverso cioè, come afferma l’Autore, in senso catabatico anziché
anabatico cioè anziché con la morte la storia finisca in gloria con un lieto
fine. In tutti e tre i racconti i dialoghi avvengono, ad esclusione del terzo,
tra un uomo e una donna, trasposizione di Salvo e Anna e che serve per
comprendere l’evoluzione della trama della storia nei suoi risvolti più intimi
e introspettivi.
E’ questa la tecnica in chiave letteraria
usata dall’Autore nell’esporre nel narrato i fatti “esterni” delegando ai
protagonisti dei racconti il compito di esprimere i loro stati d’animo farciti
di sofferenze, di domande e risposte che elevandosi dal comune interloquire,
assurgono a dignità di pura filosofia. E questo già dal primo racconto dove il
dialogo tra Luigi-Salvo ed Eliana-Anna verte sulla ricerca della definizione
del concetto di felicità. L’uomo Luigi la cerca nelle sembianze di una dolce
fanciulla, una ragazza capace di dare amore solo per lui. Lei, la donna Eliana
scorge in questa sua spasmodica ricerca una ossessione, una ragione, l’unica
della sua vita e pertanto vede se stessa non come una persona destinataria del
suo amore, ma come l’egoistico mezzo che permetta a Luigi di raggiungere la tanto
bramata felicità. Una pretesa folle e a suo giudizio al di fuori dei sentimenti
dell’amore e pertanto ritenendo inutile la prosecuzione di quel rapporto
abbandona l’uomo. Le conseguenze, come nella storia hanno il sapore dell’infelice Werter goethiano,
hanno un epilogo cruento al cui fa da sfondo il corpo di un’arma da fuoco tra
l’indifferenza cinica della donna che si concede un bagno all’acqua di rose. Siamo quindi al
punto più basso della storia che, se letta in senso catabatico cioè discendente,
conduce alla sua pur triste conclusione. Si tratta in fondo di uno degli
aspetti della conclusione nella ricerca della felicità in quanto se cercata
insistentemente sfugge ad ogni logica del concetto d’amore e svanisce segnando con la fine il fallimento di una
vita. E non lontano pertanto da quanto affermato dallo Stuart Mill secondo cui anche se la felicità rimane
lo scopo della vita non bisogna cercarla in modo parossistico.
Nel
secondo racconto, con una rappresentazione degna del migliore scenografo c’è l’interpretazione
che fa l’“attore” Walter-Salvo nell’instaurare un
colloquio con la moglie Marta-Anna da
cui traspare tutta la disperazione di un uomo che non sa vivere senza amare ma
che non sa amare. E’ un’altra sfaccettatura dell’esplorazione nella ricerca del
concetto di felicità. Nell’analisi che ne segue il suo raggiungimento è legato
all’appagamento di un obiettivo prefissato. Ma una volta raggiunto e svanitone
l’entusiasmo ecco che si aspira al raggiungimento di un altro diverso facendo ripiombare
il soggetto in una seconda infelicità e così via una dietro l’altra
consegnandolo ad una vita perennemente infelice. E questo perché la felicità
(penetrando nei meandri della speculazione filosofica), è solo un momento e
nient’altro quale bolla di sapone, per
il pensiero leopardiano, bella e colorata che quando la si cerca di prendere,
scoppia e svanisce. Un momento che l’Autore, usando una metafora, materializza
come un puntino rosso, appena percettibile, immerso dentro la tela nera del
quadro appeso alla parete della stanza di Walter. Ma una via d’uscita da questa
impotente frustrazione c’è e la si trova nel servirsi dell’alienazione nei
confronti di ogni passione e soprattutto di quel particolare tipo d’amore che
fa soffrire e poi tutto sommato la felicità, come afferma Trilussa, è una
piccola cosa. Altro mezzo come via d’uscita viene additato nell’apprezzamento
dell’Arte, perché nella sua perfezione trasmette forti sentimenti, anche se
limitati a quanti sanno intenderli.
Infine c’è la razionalità che nel contesto del racconto è rappresentata dalla
personalità di Marta-Anna che la usa come uno strumento per sottrarsi a quella
schiavitù d’amore di cui è vittima l’uomo-Walter e che si esprime con quella concezione mentale che richiama l’atarassico
uomo epicureo. Ma tant’è. Lo scontro
passione-ragione racchiuso tra la richiesta disperata d’amore dell’uomo e il
rifiuto della donna ad assecondarlo, termina con il prevedibile addio di
quest’ultima.
Per spiegare però i motivi che determinano
questa conclusione e che non emergono dal racconto-quadro che funge da “voce fuori campo”, l’Autore ricorre
ancora una volta al dialogo che intrattengono i personaggi del
racconto-satellite. E come colui che al termine di una storia finita male, si
interroga su quale fosse stato il momento
in cui giunto ad un bivio imbocca la direzione sbagliata, anche Salvo nel
racconto-madre identifica il suo nella volta in cui alla richiesta di Anna di
passare a prenderla con la macchina per andare insieme alla festa di una comune
amica, lui si presenta all’appuntamento con a bordo altri due amici. E’ questo
sottrarsi nel farsi vedere solo con la
ragazza che segnerà nell’animo della donna la convinzione che è l’insicurezza
dei sentimenti a spingere il giovane a non compromettersi agli occhi della
gente. Questa che lei ritiene una grave colpa e la lontananza materiale (lei
studia a Pisa e torna in Sicilia solo d’estate) sono i due elementi a formare la
razionale determinazione a non accettare
l’amore di Salvo. Non sa la donna quale dramma infuoca il cuore del ragazzo
incapace di esprimersi sia per il suo carattere retrivo, sia per l’inconscio
timore di vedersi rifiutato da lei e che ha fin troppo idealizzato. E sarà
proprio nell’analizzare quell’amore a fare dire all’Autore come l’amore sfugga
ad ogni nostro controllo perché quando si è innamorati passano in secondo piano
tutte le altre qualità come la bellezza o l’intelligenza e si entra nella
convinzione che il vivere senza amore è un non vivere, è come essere morti. E’
proprio in questa condizione che Eliana lascia Walter che non sa rendersi conto
della realtà sotto la quale soccombe cercando nel suo sogno disperato l’unica
ragione di vita. Una realtà a cui non s’arrende dopo vent’anni nemmeno il Salvo
del romanzo che pensa irragionevolmente di andare a trovare Anna , già sposata
e con figli, nella città dove abita da tempo, con la folle speranza che fugga
con lui. Un copione la cui recita lo copre di ridicolaggine ad una età che invece
dovrebbe assicuragli una sobria serietà. E’ per questo che rifugge da questo
insano progetto arrendendosi finalmente alla realtà.
Nel terzo racconto, al contrario dei
precedenti, non esiste il dialogo tra un uomo e una donna. E’ il solitario viaggio
di un uomo che, alla stregua del Diogene che andava in giro con la lanterna,
anche Giulio (questo il nome dell’ultimo protagonista) va alla ricerca del
significato della vita, ancora una volta della felicità. Sullo sfondo, nei suoi
ricordi, una ragazzina che da sempre gli è stata vicina con affetto e
discrezione, Giada e che questa volta non rappresenta Anna. Con essa non intrattiene alcun dialogo perché palesemente non cerebrale come Marta ed Eliana
e tuttavia splendida nella sua aurea semplicità. Il racconto si svolge intorno
ad una profonda riflessione da parte dell’uomo-Giulio, una sorta di monologo
sulla definizione della felicità. Essa, al contrario di quanto afferma
Schopenhauer che la nega assegnando alla ragione un ruolo essenziale nella
vita, essa esiste ed è raggiungibile ma, afferma l’Autore, quando è in noi non
ce ne accorgiamo e l’accogliamo quasi con indifferenza, al pari di una cosa
dovuta senza nemmeno un grazie a Dio. E si considera tutto ciò che sta al suo
opposto come l’infelicità, la tristezza o la solitudine, come componenti
inevitabili dell’esistenza umana. La vita, come il destino degli uomini che per
la mitologia greca risiedeva sulle ginocchia di Giove, altro non è che un filo
invisibile nelle mani di Dio, una macchina che porta ciascuno di noi verso il
suo destino, bello o brutto che sia. Ognuno col suo fardello senza cercare di
modificarne il percorso con azioni ridicole e vane sopportandolo nel modo più
sere_ no possibile. E’ questo il percorso che lo scrittore Taibi fa fare al
Diogene-Giulio in fondo alla ricerca di se stesso pur attraverso innumerevoli
esperienze a volte negative. E siccome
l’esperienza è maestra di vita il Nostro, dopo avere visitato mezzo mondo, dal
gaudente Brasile, alla vita bohemienne di Parigi, approda, visto che tutto il
vissuto lo aveva portato lontano dal raggiungimento della felicità, in un
paesino delle Alpi tra gente semplice dalla vita semplice, senza le
complicazioni delle domande esistenziali.
Lì nella semplicità del lavoro di
taglialegna e nelle serate trascorse all’osteria del paese, lì aveva trovato la
serenità e imparato a non soffrire per quella ricerca risultata vana e deludente.
Ma tutto ciò al prezzo della rinuncia a se stesso, alle parti più nobili de suo
intimo sentire, come la riflessione, la speculazione, l’ammirazione per l’Arte.
Una vita serena ma mediocre, una vita senza entusiasmo, senza quell’entusiasmo che ricreava la sua
vita da bambino quando per Natale spacchettava un dono o si apprestava a
costruire il presepe. Si accorge allora che è quello di cui si deve
riappropriare per ritrovare nella semplicità la sua individualità, fare riaccendere
dentro di se quella luce cercata “fuori di se” e che credeva perduta. Una luce
che gli avrebbe permesso di vivere e gestire ogni istante della sua vita.
Ritenendo così la sua ricerca della felicità finita, ritorna al suo paese e va
a bussare alla porta dell’unica donna splendida nella sua semplicità, che mai
si è posta domande, che mai ha preteso risposte: Giada. Finisce così il romanzo
speculativo di Giovanni Taibi, anche se vi aggiunge un epilogo che vede Salvo
scrivere ad Anna una lettera, che forse non riceverà mai, la cui ultima parola
è addio. Un addio comunque sofferto che, a parere nostro, non chiuderà mai la
storia, dal momento che si tratta di un
addio ma senza fine perchè, come afferma Vasco Pratolini, la felicità è muta e
una volta provata anche se svanisce resta comunque nell’ombra silenziosa dell’angolo più
inaccessibile del cuore.
Spesso come nel nostro specifico essa è
causata dall’amore che non è solo un’emozione, l’intimo sentire di un sentimento,
ma lo svilupparsi di una energia
interiore che tutti possediamo anche se non ne abbiamo cognizione e che si
rivela quando scatta a nostra insaputa l’innamoramento. Afferma Francesco
Alberoni che “è meglio dirsi addio che non incontrarsi mai” e questo per il fatto che un incontro, una
relazione anche d’amicizia, produce un
arricchimento dell’animo che non avremmo se restassimo in quella nicchia di
solitudine che conduce solo all’impoverimento
spirituale. L’amore è di per sé una forza estatica che ci permette di proiettarci
verso gli altri in una comunione interpersonale. E’, come afferma Soren
Kierkegaard, una porta che si apre verso l’esterno, verso gli altri. E’ la
porta che tentò di aprire il Salvo del romanzo, ma la aprì solo dentro di lui,
incapace di attraversarla per mettersi in comunicazione con Anna. Giovanni
Taibi con questo suo volume ci prova. Riesce in ciò che non è riuscito al suo
protagonista e cioè comunicarci il suo pensiero su ciò ch’egli crede sia la
ricerca e il raggiungimento della felicità. E lo fa mettendo in evidenza tutte
le possibili risposte attraverso i dialoghi nei suoi tre racconti. Luigi, Water
e Giulio tentano di cercarla chi in modo spasmodico, chi attraverso la donna, il terzo girando per
il mondo. Falliranno tutti e tre chi arrivando al suicidio, chi
all’abbrutimento dell’esistenza, il terzo all’annullamento della sua
individualità. Ma quando, scartata l’ipotesi del suicidio e rimesso ordine
nella sua vita, Salvo esce dal suo ventennale sogno e apre gli occhi alla
realtà, ecco che ha termine la ricerca della felicità e senza più porsi domande
sul motivo del suo malessere, finalmente la trova nelle cose più semplici,
tornando a imparare a vedere il mondo ( sono le parole di esortazione
dell’amico Lorenzo a Giulio) con gli occhi ingenui di quando si è bambini. Non
si deve arrivare al momento del trapasso per chiedersi dove si è sbagliato, “in
quale punto ci siamo persi a causa della nostra inesauribile voglia di cambiare
il cammino della nostra vita”. E questo perché la vita è solo nostra e solo in
noi risiede il suo segreto che dobbiamo svelare non dopo ma durante il suo
corso. “Gran segreto è la vita e nol comprende che l’ora estrema” scrive
infatti il Manzoni nel suo “Adelchi”. E allora Salvo, al
pari di quel Giulio che ritrova il suo mondo tornando alfine da quella Giada
che mai aveva preso in considerazione nella sua candida semplicità, riflettendo
e riflettendosi sul tempo passato, come
in una specie di catarsi, ritrova se
stesso. Comprende che “doveva accettarsi, essere felice (ecco la felicità) per quello che la vita riserva, cioè vivere
le emozioni assaporandole in ogni loro
aspetto, spesso amaro, in ogni loro sfumatura spesso tendente al nero, ma mai
al grigio”. Sottrarsi alla mediocrità ed essere se stessi, ecco il messaggio
che Giovanni Taibi ci lascia. Il romanzo avvincente per l’impostazione scenica
e dialettica in cui si svolge la trama è un sequel di messaggi ben camuffati
dall’apparente reale ma evidenziati dai toni esasperati degli uomini e dagli
atteggiamenti cinici e disincantati delle donne. Messaggi che solo un
professore di filosofia, qual è Giovanni Taibi poteva sapere esprimere e
sapientemente comunicare. Il linguaggio del testo risulta molto sciolto e
avvincente sia per la chiarezza dei concetti che per la curiosità che destano i
dialoghi dei personaggi. Se poi il racconto viene implementato con squarci di
richiami sul costume sociale e familiare del tempo e con romantici descrizioni
della natura, allora l’insieme assurge a opera filosofico-letteraria di valore,
da potersi prestare sia nel campo culturale, che eventualmente anche in quello
didattico.
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