mercoledì 1 giugno 2016

Giovanni Taibi, "Lame di buio dal passato" (Ed. Book Sprint)

di Giuseppe Bagnasco

“ A tutti gli uomini è riconosciuto il diritto alla vita, alla libertà, al perseguimento della felicità”. E’ una frase estrapolata dalla Dichiarazione di Indipendenza americana sottoscritta dai rappresentanti delle tredici ex-colonie britanniche riuniti a congresso a Philadelphia il 4 aprile 1776. Ma non è dei primi due diritti che parleremo ma del terzo e cioè quello che riguarda la ricerca della felicità. Giovanni Taibi nel suo “Lame di buio dal passato” (Ed.SCE – 2015) affronta con speculazione filosofica questo tema. E lo fa non con definizioni care ad alcuni filosofi della Grecia classica che l’identificavano alcuni con l’Eudaimonìa (avere una vita fortunata) o con l’Euthumìa (tranquillità dell’animo) o ancora con l’Ataraxìa (essere privi di turbamenti), ma con un romanzo che non è il classico racconto d’appendice, ma una storia nella quale interloquiscono personaggi che danno vita a quei “Oì Dialogòi” di platoniana memoria. Pertanto “Lame di buio dal passato” si pone non come un testo fine a se stesso ma come un mezzo attraverso il quale l‘Autore, dopo un percorso e un dibattito analitico sul sentimento dell’amore e una speculazione sull’Essere, che implicita­mente include il senso della vita, giunge alla sola e unica conclusione possibile.
E’ un tortuoso cammino già evidenziato dal titolo dal sapore dichiaratamente ossimorico. Infatti solitamente non è possibile descrivere una lama di buio ma una lama di luce, negata però dalla parola buio, come dire una luce di buio, esattamente un ossimoro. E che poi venga dal passato è solo per dire che ha radici lontane. Ma è questa contrapposizione luce-buio, sogno-realtà, passato-presente che traccia il dualismo su cui si snoda la trama del romanzo. Al titolo fa da conforto e testimonianza il dipinto in copertina dove il pittore Enzo Puleo raffigura i volti di due uomini e due donne di diversa età e che rappresentano due mondi, quello giovanile (lui con i capelli lunghi, lei nuda a rappresentare l’anticonformismo) e quello della maturità (lui stempiato e assorto, lei ben vestita col passo dinoccolato). Una dualità che viene raccontata con sapiente artifizio dal Taibi che interseca la vita reale del protagonista con squarci di ricordi quali emergono dai diari e dai racconti conservati nel tempo, appunto “lame di buio”. E’ una storia d’amore univocale, ad una sola voce, un sentimento coltivato fino all’esasperazione dal protagonista Salvo verso la coetanea Anna,un amore sbocciato nell’ultimo anno di Liceo e che nel suo svolgimento sebbene appaia  semplice, esplode in tutta la sua drammaticità nei tre racconti racchiusi come in uno scrigno nel romanzo. Se a ciò si aggiungono le tante riflessioni e le “sofìe” che impreziosiscono il testo  proprie dell’Autore (con laurea in Filosofia e docenza negli Istituti secondari statali di materie letterarie), ne risulta una sorta di Trattato di filosofia occulta.
   Nella sequenza temporale della storia, Salvo, un bel giovane ventenne, invaghitosi della compagna di classe Anna e mal corrisposto, per dimenticarla si trasferisce a Milano dove negli anni dopo la laurea, immergendosi nel lavoro, fa carriera tanto da assurgere  al posto di primario ospedaliero. Un’invenzione della sua mente pensare che la lontananza e il lavoro potessero costituire efficaci anticorpi capaci di distruggere il ricordo della donna. E’ una continua sofferenza, anche se normalmente, come afferma l’Autore,” il passato sembra sempre bello quasi come se eliminassimo i momenti più brutti lasciando prevalere solo i sentimenti più gradevoli”. Ma quel dolore, racchiuso nell’angolo più riposto del suo animo, Salvo lo ritiene comunque sacro per il semplice fatto che appartiene solo a lui e nessuno potrà mai cancellarlo tanto meno  lui tant’è che tornato al paese dopo vent’anni, per il matrimonio del proprio fratello, la ferita d’amore mai rimarginata, si riapre nel rivedere i luoghi di quel sogno fallito.
    Tutta la storia si evince unicamente dai tre racconti conservati e scritti contestualmente in quel periodo e che il giovane Salvo intitolò “ Amore e Morte – Trilogia di racconti di Salvatore”. Parlano del suo amore totalizzante e disperato, “un catartico viaggio interno e dentro l’amore che prende l’anima e lascia senza fiato”. Un viaggio che, come in ogni comune storia d’amore, è solito iniziare con l’innamoramento che si alimenta, come dice Francesco Alberoni nel suo classico “incontrarsi per dirsi addio”, con la progressiva carenza di serotonina, e finisce appunto con l’addio. Racconti che Salvo scrive proprio in quest’ordine ma che ora vuole rileggere all’inverso cioè, come afferma l’Autore, in senso catabatico anziché anabatico cioè anziché con la morte la storia finisca in gloria con un lieto fine. In tutti e tre i racconti i dialoghi avvengono, ad esclusione del terzo, tra un uomo e una donna, trasposizione di Salvo e Anna e che serve per comprendere l’evoluzione della trama della storia nei suoi risvolti più intimi e introspettivi.
   E’ questa la tecnica in chiave letteraria usata dall’Autore nell’esporre nel narrato i fatti “esterni” delegando ai protagonisti dei racconti il compito di esprimere i loro stati d’animo farciti di sofferenze, di domande e risposte che elevandosi dal comune interloquire, assurgono a dignità di pura filosofia. E questo già dal primo racconto dove il dialogo tra Luigi-Salvo ed Eliana-Anna verte sulla ricerca della definizione del concetto di felicità. L’uomo Luigi la cerca nelle sembianze di una dolce fanciulla, una ragazza capace di dare amore solo per lui. Lei, la donna Eliana scorge in questa sua spasmodica ricerca una ossessione, una ragione, l’unica della sua vita e pertanto vede se stessa non come una persona destinataria del suo amore, ma come l’egoistico mezzo che permetta a Luigi di raggiungere la tanto bramata felicità. Una pretesa folle e a suo giudizio al di fuori dei sentimenti dell’amore e pertanto ritenendo inutile la prosecuzione di quel rapporto abbandona l’uomo. Le conseguenze, come nella storia  hanno il sapore dell’infelice Werter goethiano, hanno un epilogo cruento al cui fa da sfondo il corpo di un’arma da fuoco tra l’indifferenza cinica della donna che si concede  un bagno all’acqua di rose. Siamo quindi al punto più basso della storia che, se letta in senso catabatico cioè discendente, conduce alla sua pur triste conclusione. Si tratta in fondo di uno degli aspetti della conclusione nella ricerca della felicità in quanto se cercata insistentemente sfugge ad ogni logica del concetto d’amore e svanisce  segnando con la fine il fallimento di una vita. E non lontano pertanto da quanto affermato dallo Stuart  Mill secondo cui anche se la felicità rimane lo scopo della vita non bisogna cercarla in modo parossistico.
     Nel secondo racconto, con una rappresentazione degna del migliore scenografo c’è l’interpretazione che fa l’“attore”  Walter-Salvo  nell’instaurare   un colloquio con la moglie Marta-Anna  da cui traspare tutta la disperazione di un uomo che non sa vivere senza amare ma che non sa amare. E’ un’altra sfaccettatura dell’esplorazione nella ricerca del concetto di felicità. Nell’analisi che ne segue il suo raggiungimento è legato all’appagamento di un obiettivo prefissato. Ma una volta raggiunto e svanitone l’entusiasmo ecco che si aspira al raggiungimento di un altro diverso facendo ripiombare il soggetto in una seconda infelicità e così via una dietro l’altra consegnandolo ad una vita perennemente infelice. E questo perché la felicità (penetrando nei meandri della speculazione filosofica), è solo un momento e nient’altro quale  bolla di sapone, per il pensiero leopardiano, bella e colorata che quando la si cerca di prendere, scoppia e svanisce. Un momento che l’Autore, usando una metafora, materializza come un puntino rosso, appena percettibile, immerso dentro la tela nera del quadro appeso alla parete della stanza di Walter. Ma una via d’uscita da questa impotente frustrazione c’è e la si trova nel servirsi dell’alienazione nei confronti di ogni passione e soprattutto di quel particolare tipo d’amore che fa soffrire e poi tutto sommato la felicità, come afferma Trilussa, è una piccola cosa. Altro mezzo come via d’uscita viene additato nell’apprezzamento dell’Arte, perché nella sua perfezione trasmette forti sentimenti, anche se limitati  a quanti sanno intenderli. Infine c’è la razionalità che nel contesto del racconto è rappresentata dalla personalità di Marta-Anna che la usa come uno strumento per sottrarsi a quella schiavitù d’amore di cui è vittima l’uomo-Walter e che si esprime con  quella concezione mentale che richiama l’atarassico uomo epicureo.  Ma tant’è. Lo scontro passione-ragione racchiuso tra la richiesta disperata d’amore dell’uomo e il rifiuto della donna ad assecondarlo, termina con il prevedibile addio di quest’ultima.
   Per spiegare però i motivi che determinano questa conclusione e che non emergono dal racconto-quadro che funge  da “voce fuori campo”, l’Autore ricorre ancora una volta al dialogo che intrattengono i personaggi del racconto-satellite. E come colui che al termine di una storia finita male, si interroga su quale fosse  stato il momento in cui giunto ad un bivio imbocca la direzione sbagliata, anche Salvo nel racconto-madre identifica il suo nella volta in cui alla richiesta di Anna di passare a prenderla con la macchina per andare insieme alla festa di una comune amica, lui si presenta all’appuntamento con a bordo altri due amici. E’ questo sottrarsi  nel farsi vedere solo con la ragazza che segnerà nell’animo della donna la convinzione che è l’insicurezza dei sentimenti a spingere il giovane a non compromettersi agli occhi della gente. Questa che lei ritiene una grave colpa e la lontananza materiale (lei studia a Pisa e torna in Sicilia solo d’estate) sono i due elementi a formare la razionale determinazione  a non accettare l’amore di Salvo. Non sa la donna quale dramma infuoca il cuore del ragazzo incapace di esprimersi sia per il suo carattere retrivo, sia per l’inconscio timore di vedersi rifiutato da lei e che ha fin troppo idealizzato. E sarà proprio nell’analizzare quell’amore a fare dire all’Autore come l’amore sfugga ad ogni nostro controllo perché quando si è innamorati passano in secondo piano tutte le altre qualità come la bellezza o l’intelligenza e si entra nella convinzione che il vivere senza amore è un non vivere, è come essere morti. E’ proprio in questa condizione che Eliana lascia Walter che non sa rendersi conto della realtà sotto la quale soccombe cercando nel suo sogno disperato l’unica ragione di vita. Una realtà a cui non s’arrende dopo vent’anni nemmeno il Salvo del romanzo che pensa irragionevolmente di andare a trovare Anna , già sposata e con figli, nella città dove abita da tempo, con la folle speranza che fugga con lui. Un copione la cui recita lo copre di ridicolaggine ad una età che invece dovrebbe assicuragli una sobria serietà. E’ per questo che rifugge da questo insano progetto arrendendosi finalmente alla realtà.
   Nel terzo racconto, al contrario dei precedenti, non esiste il dialogo tra un uomo e una donna. E’ il solitario viaggio di un uomo che, alla stregua del Diogene che andava in giro con la lanterna, anche Giulio (questo il nome dell’ultimo protagonista) va alla ricerca del significato della vita, ancora una volta della felicità. Sullo sfondo, nei suoi ricordi, una ragazzina che da sempre gli è stata vicina con affetto e discrezione, Giada e che questa volta non rappresenta Anna. Con essa  non intrattiene alcun dialogo perché  palesemente non cerebrale come Marta ed Eliana e tuttavia splendida nella sua aurea semplicità. Il racconto si svolge intorno ad una profonda riflessione da parte dell’uomo-Giulio, una sorta di monologo sulla definizione della felicità. Essa, al contrario di quanto afferma Schopenhauer che la nega assegnando alla ragione un ruolo essenziale nella vita, essa esiste ed è raggiungibile ma, afferma l’Autore, quando è in noi non ce ne accorgiamo e l’accogliamo quasi con indifferenza, al pari di una cosa dovuta senza nemmeno un grazie a Dio. E si considera tutto ciò che sta al suo opposto come l’infelicità, la tristezza o la solitudine, come componenti inevitabili dell’esistenza umana. La vita, come il destino degli uomini che per la mitologia greca risiedeva sulle ginocchia di Giove, altro non è che un filo invisibile nelle mani di Dio, una macchina che porta ciascuno di noi verso il suo destino, bello o brutto che sia. Ognuno col suo fardello senza cercare di modificarne il percorso con azioni ridicole e vane sopportandolo nel modo più sere_ no possibile. E’ questo il percorso che lo scrittore Taibi fa fare al Diogene-Giulio in fondo alla ricerca di se stesso pur attraverso innumerevoli esperienze a volte negative.  E siccome l’esperienza è maestra di vita il Nostro, dopo avere visitato mezzo mondo, dal gaudente Brasile, alla vita bohemienne di Parigi, approda, visto che tutto il vissuto lo aveva portato lontano dal raggiungimento della felicità, in un paesino delle Alpi tra gente semplice dalla vita semplice, senza le complicazioni delle domande esistenziali.
   Lì nella semplicità del lavoro di taglialegna e nelle serate trascorse all’osteria del paese, lì aveva trovato la serenità e imparato a non soffrire per quella ricerca risultata vana e deludente. Ma tutto ciò al prezzo della rinuncia a se stesso, alle parti più nobili de suo intimo sentire, come la riflessione, la speculazione, l’ammirazione per l’Arte. Una vita serena ma mediocre, una vita senza entusiasmo,  senza quell’entusiasmo che ricreava la sua vita da bambino quando per Natale spacchettava un dono o si apprestava a costruire il presepe. Si accorge allora che è quello di cui si deve riappropriare per ritrovare nella semplicità la sua individualità, fare riaccendere dentro di se quella luce cercata “fuori di se” e che credeva perduta. Una luce che gli avrebbe permesso di vivere e gestire ogni istante della sua vita. Ritenendo così la sua ricerca della felicità finita, ritorna al suo paese e va a bussare alla porta dell’unica donna splendida nella sua semplicità, che mai si è posta domande, che mai ha preteso risposte: Giada. Finisce così il romanzo speculativo di Giovanni Taibi, anche se vi aggiunge un epilogo che vede Salvo scrivere ad Anna una lettera, che forse non riceverà mai, la cui ultima parola è addio. Un addio comunque sofferto che, a parere nostro, non chiuderà mai la storia, dal momento che  si tratta di un addio ma senza fine perchè, come afferma Vasco Pratolini, la felicità è muta e una volta provata anche se svanisce resta comunque  nell’ombra silenziosa dell’angolo più inaccessibile del cuore.
    Spesso come nel nostro specifico essa è causata dall’amore che non è solo un’emozione, l’intimo sentire di un sentimento, ma lo svilupparsi  di una energia interiore che tutti possediamo anche se non ne abbiamo cognizione e che si rivela quando scatta a nostra insaputa l’innamoramento. Afferma Francesco Alberoni che “è meglio dirsi addio che non incontrarsi mai”  e questo per il fatto che un incontro, una relazione  anche d’amicizia, produce un arricchimento dell’animo che non avremmo se restassimo in quella nicchia di solitudine che conduce solo all’impoverimento  spirituale. L’amore è di per sé una forza estatica che ci permette di proiettarci verso gli altri in una comunione interpersonale. E’, come afferma Soren Kierkegaard, una porta che si apre verso l’esterno, verso gli altri. E’ la porta che tentò di aprire il Salvo del romanzo, ma la aprì solo dentro di lui, incapace di attraversarla per mettersi in comunicazione con Anna. Giovanni Taibi con questo suo volume ci prova. Riesce in ciò che non è riuscito al suo protagonista e cioè comunicarci il suo pensiero su ciò ch’egli crede sia la ricerca e il raggiungimento della felicità. E lo fa mettendo in evidenza tutte le possibili risposte attraverso i dialoghi nei suoi tre racconti. Luigi, Water e Giulio tentano di cercarla chi in modo spasmodico,  chi attraverso la donna, il terzo girando per il mondo. Falliranno tutti e tre chi arrivando al suicidio, chi all’abbrutimento dell’esistenza, il terzo all’annullamento della sua individualità. Ma quando, scartata l’ipotesi del suicidio e rimesso ordine nella sua vita, Salvo esce dal suo ventennale sogno e apre gli occhi alla realtà, ecco che ha termine la ricerca della felicità e senza più porsi domande sul motivo del suo malessere, finalmente la trova nelle cose più semplici, tornando a imparare a vedere il mondo ( sono le parole di esortazione dell’amico Lorenzo a Giulio) con gli occhi ingenui di quando si è bambini. Non si deve arrivare al momento del trapasso per chiedersi dove si è sbagliato, “in quale punto ci siamo persi a causa della nostra inesauribile voglia di cambiare il cammino della nostra vita”. E questo perché la vita è solo nostra e solo in noi risiede il suo segreto che dobbiamo svelare non dopo ma durante il suo corso. “Gran segreto è la vita e nol comprende che l’ora estrema” scrive infatti  il  Manzoni nel suo “Adelchi”. E allora Salvo, al pari di quel Giulio che ritrova il suo mondo tornando alfine da quella Giada che mai aveva preso in considerazione nella sua candida semplicità, riflettendo e riflettendosi  sul tempo passato, come in  una specie di catarsi, ritrova se stesso. Comprende che “doveva accettarsi, essere felice (ecco la felicità)  per quello che la vita riserva, cioè vivere le emozioni  assaporandole in ogni loro aspetto, spesso amaro, in ogni loro sfumatura spesso tendente al nero, ma mai al grigio”. Sottrarsi alla mediocrità ed essere se stessi, ecco il messaggio che Giovanni Taibi ci lascia. Il romanzo avvincente per l’impostazione scenica e dialettica in cui si svolge la trama è un sequel di messaggi ben camuffati dall’apparente reale ma evidenziati dai toni esasperati degli uomini e dagli atteggiamenti cinici e disincantati delle donne. Messaggi che solo un professore di filosofia, qual è Giovanni Taibi poteva sapere esprimere e sapientemente comunicare. Il linguaggio del testo risulta molto sciolto e avvincente sia per la chiarezza dei concetti che per la curiosità che destano i dialoghi dei personaggi. Se poi il racconto viene implementato con squarci di richiami sul costume sociale e familiare del tempo e con romantici descrizioni della natura, allora l’insieme assurge a opera filosofico-letteraria di valore, da potersi prestare sia nel campo culturale, che eventualmente anche in quello didattico.

Nessun commento:

Posta un commento