di Giuseppe Bagnasco
“L’io osservatore nella
poesia di Nicola Romano”. Potrebbe essere questo il compendio in sintesi di
questa raccolta di poesie che si presenta come un pendolo che si trascina nello
scenario poetico tra due poli sotto l’occhio attento di un “ io osservatore “.
Un severo spettatore serioso e disilluso che critica la modernità operando un
divorzio irreversibile nell’osservare come il perbenismo iper tecnocratico stia
divorando una società ormai senza più traccia di se stessa. E a poco valgono
gli appigli orfani di un vero credo socializzatore che si celano dietro un
rigurgito di sentimentalismo che niente ha da vedere con il vetero movimento
romantico né col neo-romanticismo, sepolti il primo dentro la sua tomba storica
e il secondo incapace di rallentare la caduta verticale di una poesia che dopo
Montale ha solo trovato deboli imitatori. In un aforisma del poeta Francesco
Federico leggiamo “ ascoltate chi vi parla con parole umane”, e questo perché
in tanti si cimentano a scrivere con parole nascoste concetti ermetici, chiusi
alla comunicazione più immediata. Non è questo il verbo di Nicola Romano. Egli
si presenta come un acquerellista della poesia dove i personaggi sembrano
tratti dai nostri della porta accanto, della nostra strada, affacciati alle finestre
mattutine a guardare un’aurora o affascinati dal declinare di un tramonto, come
a lanciare un messaggio ecologico-naturalista, un messaggio allarmato per il
modo come la distruzione scientifica del nostro mondo segue di pari passo il
tramonto delle radici della nostra cultura. E’ tutto questo segue l’occhio
dell’Io Osservatore che non ha più forze da opporre. E allora la poesia di
Nicola Romano nel suo “Voragini e appigli”, possiamo definirla come una poesia
d’attesa che senza alcuna velleità fa da testimone tra l’ascetico e l’eremita,
ad una falsa normalità che sa d’essere sull’orlo del baratro culturale. La vede
dentro un solco di un falso storico dove la stessa libertà, come afferma il
Lucini, riportato nel volume, è solo una grande meretrice e, a parere di David
Maria Turoldo, in altra parte, non ha più canti. Alla fine per cercare un
angolo dove bene possano trovare dimora le liriche di Nicola Romano non resta
che riconsiderarci, come afferma Vasco Pratolini e riportato dal Nostro, come
animali che quando sono feriti sentono il bisogno d’appartarsi. E lui s’apparta
con la convinzione che la poesia oggi ferita, ha bisogno di tante cure mediante
il rinnovo della parola, una parola chiara senza ambizioni, senza sogni di
grandezza o d’apparire e perciò apportatrice di semplice, vera spontaneità.
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