giovedì 2 giugno 2016

Nicola Romano, "Voragini ed appigli" (Ed. Pungitopo)

di Giuseppe Bagnasco

“L’io osservatore nella poesia di Nicola Romano”. Potrebbe essere questo il compendio in sintesi di questa raccolta di poesie che si presenta come un pendolo che si trascina nello scenario poetico tra due poli sotto l’occhio attento di un “ io osservatore “. Un severo spettatore serioso e disilluso che critica la modernità operando un divorzio irreversibile nell’osservare come il perbenismo iper tecnocratico stia divorando una società ormai senza più traccia di se stessa. E a poco valgono gli appigli orfani di un vero credo socializzatore che si celano dietro un rigurgito di sentimentalismo che niente ha da vedere con il vetero movimento romantico né col neo-romanticismo, sepolti il primo dentro la sua tomba storica e il secondo incapace di rallentare la caduta verticale di una poesia che dopo Montale ha solo trovato deboli imitatori. In un aforisma del poeta Francesco Federico leggiamo “ ascoltate chi vi parla con parole umane”, e questo perché in tanti si cimentano a scrivere con parole nascoste concetti ermetici, chiusi alla comunicazione più immediata. Non è questo il verbo di Nicola Romano. Egli si presenta come un acquerellista della poesia dove i personaggi sembrano tratti dai nostri della porta accanto, della nostra strada, affacciati alle finestre mattutine a guardare un’aurora o affascinati dal declinare di un tramonto, come a lanciare un messaggio ecologico-naturalista, un messaggio allarmato per il modo come la distruzione scientifica del nostro mondo segue di pari passo il tramonto delle radici della nostra cultura. E’ tutto questo segue l’occhio dell’Io Osservatore che non ha più forze da opporre. E allora la poesia di Nicola Romano nel suo “Voragini e appigli”, possiamo definirla come una poesia d’attesa che senza alcuna velleità fa da testimone tra l’ascetico e l’eremita, ad una falsa normalità che sa d’essere sull’orlo del baratro culturale. La vede dentro un solco di un falso storico dove la stessa libertà, come afferma il Lucini, riportato nel volume, è solo una grande meretrice e, a parere di David Maria Turoldo, in altra parte, non ha più canti. Alla fine per cercare un angolo dove bene possano trovare dimora le liriche di Nicola Romano non resta che riconsiderarci, come afferma Vasco Pratolini e riportato dal Nostro, come animali che quando sono feriti sentono il bisogno d’appartarsi. E lui s’apparta con la convinzione che la poesia oggi ferita, ha bisogno di tante cure mediante il rinnovo della parola, una parola chiara senza ambizioni, senza sogni di grandezza o d’apparire e perciò apportatrice di semplice, vera spontaneità. 

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