di Domenico Bonvegna
Tempo
fa mi è capitato tra le mani, nella solita libreria dell’outlet milanese, un
libro su Gabriele D’Annunzio, “La mia vita carnale”. Amori e passioni di Gabriele D’Annunzio”,
Arnoldo Mondadori Editore(2013), scritto dallo storico Giordano Bruno Guerri,
che è anche presidente della Fondazione Vittoriale degli Italiani, che peraltro si occupa della
conservazione dell’ultima monumentale dimora dello scrittore. Proprio grazie a
questo ruolo Guerri ha avuto accesso a numerosi documenti inediti,
scovati al Vittoriale, attraverso i quali ha realizzato questo nuovo volume che
guarda alle abitudini più
nascoste dell’eccentrico personaggio.
Avevo
delle conoscenze un po’sbiadite del Vate abruzzese, ma dopo aver letto il testo
di Guerri, credo di conoscerlo meglio. Giordano Bruno Guerri, fa un ottimo
lavoro di ricerca ben documentato, “ci
conduce lontano da stereotipi e leggende metropolitane, accompagnandoci nelle
stanze folli e geniali della dimora dannunziana”. Grazie al diario di
Amelie Mazoyer, ancella in servizio continuo che D’AnnunzioribattezzaAelis,
si arriva a conoscere il “seduttore,
l’amante irresistibile, il suo ‘bisogno’ imperioso della vita violenta, della
vita carnale, del piacere, del pericolo fisico, dell’allegrezza”.
Il
testo scritto da Guerri in occasione del 150° anniversario della nascita di
D’Annunzio, ha un intento ambizioso, quello di “ricavare una più fedele immagine dell’uomo, prima ancora che del
genio. E, insieme alla sua, riscoprire la vita, le gioie e le sofferenze delle
donne che con lui condivisero – per decenni o anche soltanto per poche ore –
l’entusiasmo di essere D’Annunzio”.Naturalmente già dal titolo si ricava
che lo storico cerca di descrivere il più possibile, la vita intima, e non solo
sessuale, della figura complicata di Gabriele D’Annunzio. Obiettivamente,
leggendo il testo, Guerri descrive in modo insuperabile i tanti “amori”, anche
quelli non consumati del poeta, senza mai scadere nella volgarità o nella
banale pornografia. Guerri annota nel suo libro, che a volte, al cancello del Vittoriale, c’era un tale
affollamento di donne che spinge il Vate al “sacrificio
della cernita”. Peraltro il testo è corredato di ben10 pagine fotografiche delle
sue donne, a cominciare dalla moglie, Maria Hardouin, che offrono una discreta sintesi
della vita privata del poeta.
Si
chiedeGuerri: che cosa rendeva Gabriele D’Annunzio così irresistibile alle
donne? I giornali, avevano cominciato a parlare di D’Annunzio, già sedicenne. “A vent’anni aveva conquistato il bel mondo
romano della cultura e della nobiltà, creando anche un nuovo stile di
giornalismo, mondano quanto colto.(…) Innovatore nella lingua, usò per primo i
termini ‘intellettuale’ e ‘beni culturali’ nel senso in cui intendiamo oggi.
(…)Nel 1907, alla morte di Carducci, si autoproclamò nuovo Vate d’Italia, senza
che nessuno accennasse a smentirlo”. Tuttavia, con la sua storia d’amore
con Eleonora
Duse, ha inventato il divismo.
Nel settembre del 1919, senza sparare un colpo, come un “condottiero rinascimentale”, ha conquistato la città di Fiume.
L’ha tenuta per sedici mesi, in un clima di esaltazione e rivoluzione, dandole
una costituzione, la Carta di Carnaro.
Per Giordano Bruno Guerri, il comandante D’Annunzio, “nell’impresa fiumana aveva trasfuso i suoi ideali di bellezza e
libertà senza freni, in un crescendo di passioni e di novità che avevano come
unico motivo ricorrente la volontà di estendere allo Stato il proprio progetto
esistenziale: creare un’opera d’arte”.Intorno a quest’impresa si è creato
un alone di leggenda, D’Annunzio, secondo Guerri, “aveva gettato nel mondo un seme di libertà violento, audace e
contagioso per una generazione di sognatori esaltati, per una serie di epigoni
che tenteranno di raccogliere la sua impossibile eredità”. Ma degli aspetti
sociopolitici e culturali dell’impresa di Fiume mi occuperò nel prossimo intervento
facendo riferimento a un ben documentato articolo di Salvatore Calasso,
pubblicato dalla rivista trimestrale Cristianità.
Ritornando
al libro, “La mia vita carnale”, per D’Annunzio, “le donne furono il tormento e la delizia della sua vita - scrive
Guerri – che le usasse non toglie che
provasse per loro una vera passione(…)Impegnò ogni arte per ammaliarle, prima
ancora che per sedurle”. Addirittura, Isidora Duncan scrive che D’Annunzio,
“era un così grande amante che poteva
trasformare la donna più ordinaria e darle per un momento l’apparenza di essere
celeste”. Pertanto, secondo Guerri,“non
importa quanto fosse bugiardo, quanto incline alla mistificazione e
all’inganno. La suggestione della sua poesia, la seduzione del suo erotismo,
l’intraprendenza sessuale (certificata da numerose testimonianze, oltre che
dall’autocompiacimento di Gabriele), l’audace sfacciataggine dei suoi
comportamenti, le imprese ardite non sono sufficienti per cogliere il segreto
di D’Annunzio, l’origine del suo intramontabile trionfo con l’altro sesso”.
Nel
Libro segreto, D’Annunzio potrà
scrivere: “Modulo la mia voce per
sedurre, per incantare, per domare”, e riferendosi a una delle tante
amanti, scrive: “La sento godere della
mia voce come di una carezza sapiente”.
Ma
Gabriele non “collezionava” solo donne ma anche farmaci: fiale, fialette,
barattoli, cofanetti, che ora sono raccolti, in un piccolo studio, che fa da
anticamera alla stanza da letto. Mostra interesse per i prodigi della
Modernità, “vuole saggiare i risultati
miracolosi dei preparati chimici(…) la sua fede negli intrugli di cui si serve
tutti i giorni è incrollabile”. Tuttavia, non è mistero ma D’Annunzio fa un
uso smodato di cocaina, con un
accanimento tipico del tossicodipendente. “Il
diario di Aelis racconta di un consumo quotidiano, senza freno, che gli
facilita l’esaltazione durante gli incontri amorosi, anche se proprio con
l’arrivo della cocaina, a Fiume, ’erano cominciate le lussurie che
necessitavano di minore virilità: la cocaina serviva a questo
meravigliosamente”.
Il
superuomo D’Annunzio non si vergognava dell’uso della cocaina, ma della sua
dipendenza, “il superuomo non si nega
niente perché è re della propria volontà e la riduce a bramosia genuflessa”.
La droga, però, gli rende la vita difficile, con malumori improvvisi che lo
rendono nervoso, furioso; la sessualità diventa maniacale e ossessiva, la
febbre lo coglie spesso. Scompare anche per le persone intime, per lunghi
periodi, persino il suo disimpegno nella vita pubblica, intervallato da lampi
di eccitazione politica, sono tutti segnali noti agli studiosi della dipendenza
da cocaina.
D’Annunzio,
disprezza il denaro nella sua essenza, ma gli è indispensabile per assecondare
desideri sempre più costosi. “Accumula
debiti, pressa editori e giornali, chiede prestiti poi raramente onorati: tutto
questo servirà a confermarlo anche nel ruolo di genio dello sperpero”. Ecco
perché le sue stanze, a cominciare dalla Leda,
la stanza dedicata agli incontri amorosi, sono ricche di oggetti, stoffe,
tappeti, piatti, bronzi, e tanto altro, che sono visitate ora come veri e
propri musei. E poi i libri, i suoi manoscritti, l’epistolario, i volumi,
disposti in tutti gli ambienti della villa. D’Annunzio fu archivista,
collezionista, amante di rarità, non si limita all’accumulo di libri, ma li
legge, li studia, compulsandoli e annotandoli in lunghe sedute di lavoro. Un po’ quello che cerco di fare nel
mio piccolo “Sono migliaia (i libri) sottolineati, glossati, vissuti come
oggetti quotidiani, strumenti di quel lavoro di cui D’Annunzio si considera un
operaio”. Infatti nel 1930 redarguendo Luisa e Aelis dice: “Mentre voi tutti che mi state intorno
pensavate che avessi le lune, io studiavo le modificazioni degli speroni da
Carlo Magno a Francesco I”. D’Annunzio non accumula solo libri, i suoi armadi
sono pieni divestiti, maschili, ma anche femminili, partendo dal proprio ego,
finisce per incidere nelle tendenze e nel costume collettivo. Lui stesso ha
creato profumi rari, si faceva portare profumi rari a qualsiasi prezzo, non si
accontentava delle essenze in vendita per tutti. Diventa lui stesso testimonial, di diversi prodotti, anche
liquori. I migliori sarti di Milano fanno a gara a vestirlo. Peraltro per
D’Annunzio, la vestizione viene vista come un rito, come per gli eroi omerici
prima della battaglia. “Anche durante la
Grande Guerra, - scrive Guerri - l’eroe,
l’aviatore, il marinaio, il soldato riuscivano a trovare tempo e voglia di pensare
a cose che ai più sembrano frivoli orpelli, davanti al pericolo e alla morte”.
Ma proprio in quella drammaticità del momento porta Gabriele a ribadire che,
dannunzianamente, “l’abito fa il monaco”.
Mi fermo, naturalmente, ci sono altri aspetti da sviluppare della poliedrica figura
di D’Annunzio, ma sarà per un’altra volta.
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