di Maria Elena Mignosi Picone
Prendendo
in esame la silloge poetica di Teresa Riccobono, che è con questa alla sua
prima pubblicazione, rimaniamo immediatamente colpiti dalla immagine della
copertina e dal titolo, che ci lasciano un po’ perplessi per quel vago senso di
mistero che suscitano. Vi sono raffigurate una porta, che è chiusa, e una
sedia, che è vuota, e il titolo è “Sulla porta”. Il tutto richiama vagamente
una scena teatrale. Scarna, nuda, ma densa di significato. Ed è questo che
andremo ad interpretare, prendendo
l’avvio proprio da qui perché, come capita per tutti i libri, è nella copertina
che si trova la chiave di volta dell’intera opera.
Cominciando
a sfogliare la silloge, ci imbattiamo subito in una poesia proprio dal titolo
“Sulla porta”, dalla quale evidentemente
l’autrice ha desunto quello del libro. Essa ha inizio così: “Risalire / le
scale del tempo / rientrare piano / …e sedersi sulla porta”. La poetessa
inoltre vi accenna a “sogni d’infinito”, a “Ideali”, e chiude il componimento
con queste parole: “…e ora, nei rari ritorni, / ora che è mio / il segreto
delle radici / …ora, qui, soltanto / le ombre vacillano / al margine del
pianto”. Ora subito balzano dai precedenti versi due elementi: le radici e i sogni.
Altre
poesie insistono su un altro elemento che ha attinenza con i sogni, e cioè
l’attesa. Ben due di queste portano il titolo, “Attesa” e “Lunga attesa”. E spesso
questa parola ricorre nei suoi versi: “Il cielo d’ognuno è qui, / in questa
attesa, / in una strada curva / che arriva improvvisa / sotto l’arco del
sogno”, o anche “Le tue mani, padre, / tiepide nicchie / dove potevo custodire
i miei sogni /… e tu mi rispondi con un canto inaspettato, / che ripaga / mille
anni d’attesa”.
Potremmo
a questo punto azzardare una ipotesi: potrebbe la porta rappresentare il passato e la sedia invece il
futuro?
Però
ci chiediamo: “Perché la porta è chiusa e la sedia è vuota?”. Chiusura e vuoto
sono due fattori che esprimono negatività la quale richiama alla mente il
pensiero, dalla connotazione altrettanto negativa, in genere, sul tempo, di Sant’Agostino. Il grande santo affermava che il passato non
è più, il futuro non è ancora, e che dunque solo il presente esiste. In effetti
in concreto è così: noi viviamo solo il momento attuale. Il passato si
vagheggia nei ricordi, e il futuro nei sogni; ricordi che si ammantano di varie
sfumature come la nostalgia o il rimpianto, e sogni che si accarezzano con la
speranza di realizzarli ma che non sempre hanno buon esito perché, come dice la nostra poetessa, “il tragitto di vita
è brullo” ed essi talora “vanno per altre strade”.
Rimane
solo di stare sulla porta. E’ qui che fluisce la nostra esistenza. L’essere umano in fondo vive come sospeso tra
passato e futuro e piantato proprio sulla porta. Nel presente. Questa posizione
però non è statica ma dinamica. Per
comprendere questo concetto basti pensare al moto del pianeta per cui, pur
stando fermi, in fondo ci si sta muovendo. Eh sì, perché, anche là, sulla porta,
in ogni attimo, il futuro si fa presente e il presente passato.
Si
avverte infatti in questa opera di
Teresa Riccobono, nell’apparente stasi (la porta chiusa, la sedia vuota) un
dinamismo sotterraneo a livello sia materiale che spirituale, il quale si articola
sia nel movimento del fluire del tempo (anche dei vari momenti della giornata),
sia nella moltitudine dei ricordi, dei sogni, e in una vivacità di animo fervido
e impaziente; così invece di dire “di sera” o di notte” la poetessa dice:
“…saliva maliardo , / il canto salmastro della sera”, o “lentamente smemora la
luce /…sale la sera emanando mestizia” o ancora “…giunge a piedi scalzi il
silenzio della notte”, dove i verbi salire e giungere esprimono movimento;
inoltre nella poesia “Altalena” leggiamo: “Un dolce cigolio / i miei piedini
tesi / a scavalcare il mondo / e mio padre mi spingeva / a volare lungo la
strada / di ginestre incantate / fin sopra il cancello / che tagliava lo
sguardo / verso il mare “. In “Anelito”
scrive: “Ragazzina guardo il mare / languido d’azzurro / dietro la finestra di
un pomeriggio domenicale, / …tolgo le scarpe / e tento di spiccare il volo,
/…Quando le ali, quando?”
Gli ardenti sogni, da fanciulla, certamente, sono stati il preludio alla realizzazione
della sua vita da adulta. E se oggi Teresa Riccobono ha raggiunto la posizione
di docente nel liceo psicopedagogico ed è anche madre di famiglia, lo deve
proprio a questi. Giovanissima infatti intraprende questo cammino: “…mio padre
mi saluta con un cenno, / il liceo in città, / le supplenze sui monti, /
l’amore che ti travolge e ti sorprende / e poi l’impegno, vivevo il mio tempo,
/ un tempo bello ed inquieto”. Oggi inoltre è poetessa e scrive in lingua e in
dialetto; ha ricevuto lusinghieri apprezzamenti e importanti premi. Tutto
questo come frutto della sua attività. I sogni comportano però oltre che
ardore, anche un certa inquietudine, non si sa quel che accadrà. Non se ne ha
la certezza.
Una
poesia che sembra molto significativa nell’esprimere il senso di inquietudine
che è propria del futuro-presente, del futuro che trasmuta in presente, cioè quella
perplessità di fronte all’ignoto, al mistero, è la poesia “Oleandri” dove
troviamo: “Oleandri in fila / nel sole / ai bordi del vuoto” , immagine che
rievoca la siepe della poesia “L’infinito” di Giacomo Leopardi. E la nostra
continua: “…i fiori e lo spazio / confine tra mare e cielo / e voi, oleandri
della terra, / e un quesito sparito / per sapere / se lì c’è la fine”.
Ma
se dal futuro, dai sogni, realizzati o meno, scaturisce in certo modo il presente, anche il passato incide nel
costruirlo. Così persone e luoghi balzano nella mente dell’autrice al ricordo
del passato, della sua vita d’infanzia: “Le tue mani, padre, / tiepide nicchie
/ dove potevo / custodire i miei sogni”; “Mia madre non amava il Carnevale, /
il chiasso vuoto la infastidiva”; “…eri Sara, la zia prediletta, / e noi,
piccoli, i figli che non avesti”; ma anche la “…casa natale, / risveglio lento
di campane / al canto dei galli /…passeggiate lungo i sentieri, / cadenzate dal
bastone del nonno / e dai suoi racconti”; e il suo caro albero: “…vecchio ulivo
/ piantato dai miei padri, /…Tra gli squarci profondi / trovo i graffiti dei miei anni / passati
all’ombra dei tuoi silenzi”.
Dunque
nella vita di Teresa Riccobono confluisce il passato nei ricordi dell’infanzia della quale rimane in
lei specialmente il senso della purezza: “Tornerò a te, / amato paese / della
mia infanzia, / tornerò / alla fonte Mancusa / a bere nell’incavo roccioso, /
cercando antiche purezze / di acque limpide di vena” e nella infanzia ha
assaporato il gusto della quiete, come nella poesia “Al vecchio ulivo”: “Ora nella
quieta oscurità / la voce del vento / si perde tra le case strette / e le
bianche pietre del fiume, / inerme aspetto / di farmi ancora consolare / dalla
tua pace antica”. La poetessa rifugge dalla frenesia della fretta: “…mi resta
ancora / questo rispetto per la notte / e il vivere lento”.
Teresa
Riccobono, nativa di Palermo, originaria dell’Albergheria, nutre amore profondo
per la sua città, pur riconoscendone le pecche: “Sto dietro la finestra / di questo
inverno / a guardare da quassù / la
città amata, / immobile, chiusa / dietro portoni giganti, / che negano agli
occhi / scatole miracolose di giardini”; Palermo “regina sonnolenta /…aquila
morente”.
La
Sicilia, l’Italia, l’Isola Tiberina, Ventotene e inoltre Parigi, riaffiorano
nei ricordi di soggiorni, gite e viaggi, fatti nel corso degli anni.
Insiste
certo particolarmente sulla sua terra, la Sicilia, mettendone in risalto le
bellezze paesaggistiche: “D’estate mi porto alla torre, / …mi lascio dietro il
chiasso vacanziero /…Seguo il sentiero di agavi e ginestre /…D’improvviso
s’apre l’azzurro delle tue acque / …e l’occhio appagato spazia / fra il bianco
delle case e le strade del porto, / spazia fin dove tu, mare, ti unisci al
cielo”. Spesso ritorna insistente il mare con l’azzurro delle sue acque. E anche il suo colore, il blu. “Aspettando il
blu”, “i primordi del blu”.
Un
altro elemento del paesaggio siciliano, questa volta però non della natura, che
ricorre è la testimonianza di antiche civiltà, specialmente quella greca, nelle
rovine archeologiche. E di certi luoghi rievoca pure il mito che li avvolge.”…scivola
la barca sul fiume / sfiorando i papiri e /…avvolta nel lume del sogno /
ritorna la voce di Ciane / che invano l’amica tentò di strappare / a Pluto
divino, / preso d’amore”.
A
questo punto viene spontaneo un accostamento, con un pittore però, precisamente
coll’artista messinese Salvatore Caputo i cui dipinti hanno una caratteristica
dominante: il blu che avvolge il paesaggio siciliano su cui si stagliano i
ruderi della civiltà greca. Sono quadri meravigliosi, molto suggestivi, che
trasportano in un’atmosfera di incanto.
Il
suo spirito poetico Teresa Riccobono lo
manifesta nella capacità di incanto e di stupore: “…e adagio si rientrava / con
l’ampia borsa / pesante di conchiglie, / di trepide attese, / di stupori senza
fiato”; “Mi riposerò all’ombra del bosco / ammirando l’incanto / del vallone /
finchè giungerà / la mia pace”; “…in silenzio aspetto, / pieni gli occhi di
stupore”; “la veglia d’incanto”. Sono infatti incanto e stupore quegli stati
d’animo che preludono allo sgorgare della poesia, in un animo sensibile. E la
nostra autrice li ha manifestati sin da piccola.
Nella
poesia “ L’ombra del tempo” scrive: “Triste ci si accorge / dello sbiadir dei fiori, / d’amori e di
memorie, / e il cuore rassegnato tace, / resta ancor questo stupore / che mi fa
guardare il mare”
Ora
possiamo osservare come la poetessa
metta in rilievo l’aspetto dolceamaro sia del mare che del tempo. A proposito
del mare si esprime così: “Tu motore di civiltà, / tu, scrigno generoso, mi
riporti le greche melodie, i richiami dei marinai / e le luci delle lampare che
continuano / languide il disegno delle stelle”, e confida: “Ti amo quando calmo
ti distendi, / quando come un cavaliere baci la terra, / ti amo quando ti culli
fra spume di perle”, ma aggiunge: “La tua potenza mi spaventa, / mi spaventi
quando scateni le tue forze / e impietoso trascini tra i neri vortici i miseri
legni e le ultime speranze”. Dolceamaro anche il tempo: “Stillano i giorni il
loro amaro miele”; “è prato di nuvole il tempo” che trascorre con la sua “luce
fredda”, con il suo “canto cieco” e “Passano veloci gli anni, come i treni,
saettando su binari levigati dal tempo”. Il trascorrere del tempo è lampante
nella crescita dei figli: “…e penso ai nostri figli / che dormivano al seno /…e ora son uomini e
donne / e vanno per il mondo”. Allora potremmo identificare il tempo col fiume
al quale la poetessa si rivolge con soavi accenti: “Dolce mio fiume / d’acque
lunari, /…hai portato con te sorrisi e pianti”, nella poesia “C’è ancora tempo
per il mare”.
Tempo
e mare sono sempre in movimento, il tempo nel fluire dei giorni e delle
stagioni. E scorre incessantemente. Si sente quasi riecheggiare il famoso detto
del filosofo greco Eraclito: “panta rei”, “tutto scorre”.
Il
passato, pur evanescente, però ogni essere umano lo porta dentro di sé. Ed è su
questo che costruisce il suo presente. Rimangono le tracce, sono le radici. E
sono queste che danno linfa e producono fiori e frutti. Così Teresa Riccobono
porta impressa in sé dei suoi luoghi di origine, della sua amata Sicilia, la
solarità. E inoltre l’anelito alla limpidezza, alla quiete, nello stupore e
nell’incanto.
Ella
riversa in quest’opera la sua vita e risalta indubbiamente come la protagonista
perché tutto ruota intorno a lei. Però c’è, occulto e recondito un altro,
diciamo, personaggio, che fa da co-protagonista. Dietro le quinte. E’ il tempo.
Il suo scorrere, come il fiume, serpeggia nei versi, e allora Teresa Riccobono
ci appare come la pianista che trae dalle note dello spartito la musica, perché
le note delle sue parole generano una musica, ma una musica speciale, la musica
del tempo. Come lo sciacquio del mare.
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