di Domenico Bonvegna
Sembra che la
contestata visita a Napoli del segretario della Lega Matteo Salvini,
ha risvegliato antichi rancori nei confronti del Nord invasore, in ricordo
della conquista armata nel 1860 da parte degli eserciti savoiardi. Addirittura
ne è nata un'alleanza insolita tra i centri sociali e “sudisti” vari che
è sfociata in una manifestazione a Pontida per rispondere alla provocazione
degli invasori leghisti.
Per quanto
riguarda la Storia ben venga una seria e non sterile riflessione sui torti
patiti dal popolo meridionale al momento dell'Unità. Invece per l'attualità
politica, i napoletani dei centri sociali sbagliano completamente bersaglio
quando attaccano Salvini. E' assurdo prendersela con l'unico politico che forse
si sta occupando dei problemi del Sud. Semmai Salvini può essere annoverato tra
quei briganti che eroicamente combatterono contro il sistema statale dei
liberali. Quindi ha ragione Alfredo Mantovano a denunciare sul settimanale Tempi,
che anche questa volta si è perduta l'ennesima occasione per fare una
discussione seria sulle vere questioni politiche del Mezzogiorno.
Allora per
quanto riguarda la Storia:“Alziamo le nostre bandiere per difendere la
nostra identità”, diceva Lucia, la brigantessa di Morrone nel casertano,
alla sua banda pronta per combattere l'esercito invasore piemontese. Il libro
di Francesco Pappalardo, “Il brigantaggio postunitario.
Il Mezzogiorno fra resistenza e reazione”, D'Ettoris Editori
(2014; e.13,50) è un'ottima sintesi (127 pagine) per conoscere la guerra che si
è combattuta nelle regioni del Sud, tra gli eserciti venuti dal Nord e il
popolo meridionale, dal 1860 al 1870. Ben dieci anni di guerra civile,
combattuta tra italiani.“Il cosiddetto brigantaggio fu un sistema
semiorganizzato di resistenza al nuovo Stato unitario e in molti casi una
manifestazione di fedeltà alla dinastia borbonica[...]”.
In questi
anni il brigantaggio ha assunto un carattere di assoluta novità, rispetto ad altri fenomeni
di delinquenza organizzata che avevano interessato il Mezzogiorno d'Italia.
Fino a qualche decennio fa il brigantaggio è stato liquidato come fenomeno di
mera criminalità, grazie a studiosi e storici come Pappalardo, si è potuto
conoscere il vero spirito dei combattenti che hanno resistito al nuovo Stato,
venuto a depredare le regioni del Sud. Infatti per Pappalardo il“comportamento
valoroso, definito sbrigativamente 'brigantaggio' dai vincitori, viene
censurato e deformato per oltre un secolo, perchè nella costruzione dell'immagine
'epica' del Risorgimento non poteva esservi posto per alcuna forma di
resistenza e dunque la reazione della popolazione del regno è stata letta per
lungo tempo come una parentesi spiacevole da liquidare frettolosamente”.
Nel libro
Pappalardo descrive in maniera circostanziata, utilizzando l'ampia e
ricchissima documentazione esistente e la storiografia recente, senza
idealizzare o demonizzare,“il panorama storico in cui nasce e si evolve il
brigantaggio, evidenziando i risvolti sociali e religiosi della conquista
sabauda del Mezzogiorno”. Nella
prefazione Oscar Sanguinetti, direttore dell'ISIIN (Istituto Storico
dell'Insorgenza e per l'Identità Nazionale) rifacendosi al pensatore
cattolico brasiliano Plinio Correa de Oliveira, cerca di smontare
il termine“brigante”, utilizzato per la prima volta dalla
Rivoluzione Francese nei confronti degli oppositori vandeani e poi dalle truppe
napoleoniche per demonizzare le insorgenze popolari che non ne volevano sapere
della “libertà” promessa da Napoleone. Successivamente tutti i movimenti
rivoluzionari hanno fatto uso del termine per screditare chiunque si opponeva
alla loro “liberazione”. “Briganti saranno per il regime sovietico i
contadini delle centinaia di comunità di villaggio russe che insorgono contro la
collettivizzazione forzata e che marciano inquadrati nelle loro confraternite
contro le mitragliatrici comuniste, alzando al cielo gli stendardi dei santi
protettori”. I rivoluzionari di
ogni specie, dai liberali ai comunisti, non potevano concepire che le loro idee
potessero essere rifiutate o addirittura combattute con le armi. Per loro, “solo
un criminale, cioè qualcuno interessato colpevolmente a conservare privilegi e
a opprimere gli altri, potrebbe farlo”.
Pertanto se in
azione si vedono popolani e non aristocratici, si deve trattare per forza di
banditismo organizzato, di devianza sociale, da reprimere in tutti i modi. Come
è stato fatto con il popolo meridionale. Così per qualunque forma di reazione
popolare, “che rivendichi in qualche misura percorsi politici alternativi a
quello tracciato dall'ideologia della 'Liberté-Egalité-Fraternité'”,
su di essa deve calare,“la scure dello stravolgimento semantico”. Del
resto nella relazione della Commissione parlamentare d'inchiesta, del 1863,
letta alla Camera dall'on. Massari, si legge che, “Il Brigantaggio è la
lotta fra la barbarie e la civiltà; sono la rapina e l'assassinio che levano lo
stendardo della ribellione contro la società”.
Il libro di
Pappalardo, affronta le varie letture che sono state date al fenomeno del
cosiddetto brigantaggio. A partire da quella marxista-gramsciana, che vedeva nella
rivolta popolare, una risposta alle carenza del risorgimento liberale,
leggendola come un anticipo di lotta di classe, dei poveri contro i ricchi.
Così il brigantaggio non è solo un fenomeno di criminalità, ma anche un moto
sociale. Una interpretazione non priva di dignità, anche se fondamentalmente
pseudo-scientifica.
Tuttavia queste
letture del fenomeno brigantaggio danno però un'immagine alterata e ridotta.
Nella I parte
del libro pubblicato dalla calabrese D'Ettoris Editori, Pappalardo descrive le
interpretazioni dei vari storici che hanno dato al fenomeno del brigantaggio,
con riferimento ad altri tipi di rivolte. Pappalardo cita Francesco Saverio
Nitti, Benedetto Croce, Galasso, Molfese. Tutti sostanzialmente attribuiscono
una prevalenza del carattere sociale alla resistenza antiunitaria, negando sia
la componente politica che religiosa, per pregiudizi ideologici. Questa è una
impostazione che non comprende e nega la cultura delle popolazioni italiane e
in particolare la componente religiosa, che ne rappresentava l'anima. A questo
proposito, scrive Pappalardo:“L'elemento religioso è generalmente presente
nelle raffigurazioni d'epoca, sui vessilli e sulle insegne di battaglia; frati
e sacerdoti sono presenti in gran numero nelle schiere degli insorgenti,
sebbene fossero passati per le armi in caso di cattura; i vescovi – sebbene
scacciati dalle loro sedi – sostengono efficacemente l'insurrezione, stampando
pastorali di tono antiunitario e ribadendo le proteste e le scomuniche
provenienti dalla santa Sede”. Si distingue in questa disapprovazione, la
rivista dei gesuiti de La Civiltà Cattolica, che esprime il suo
appoggio a quello “che era giudicato uno spontaneo movimento di massa, a
carattere legittimistico, contro le usurpazioni del nuovo Stato liberale”.
Del resto il
Paese Italia era già unito culturalmente e soprattutto religiosamente; non aveva bisogno di
quella artificiale unità ideologica ostile alla cultura, ai costumi e alla
religiosità dei popoli italiani. Gli italiani si sentivano uniti dall'elemento
cattolico, dalla Chiesa e dal suo Pontefice che regnava a Roma.
Nella II parte
del volumetto si affrontano i fatti, la resistenza e l'insurrezione, la
repressione del brigantaggio, le leggi speciali e la fine
della resistenza.
I fatti ormai
sono abbastanza noti, se i generali e i galantuomini hanno tradito il Borbone,
i soldati semplici e il popolo sostanzialmente gli è stato fedele.
“Sintomatico
il comportamento dell'anziano generale Ferdinando Lanza, inviato in Sicilia con
i poteri di alter ego del sovrano, che[...], si affretta a chiedere una
tregua a 'Sua Eccellenza' Garibaldi prima che le sue posizioni fossero
seriamente intaccate”. E quando i valoroso ufficiale Ferdinando Beneventano
del Bosco e il colonnello svizzero Johan-Lucas von Mechel
piombano su Palermo seminando il panico fra gli sgomenti garibaldini, il
generale Lanza non esita e fermarli.
Per quanto
riguarda la fedeltà dei sudditi, La Civiltà Cattolica scrive:“Il re
Francesco II trovava nella fedeltà dei suoi sudditi e nel valore con cui
presero a combattere sotto gli occhi suoi , un gradito compenso a tanti
dolori[...]”. La maggior parte degli ufficiali e dei soldati sono con il re
a combattere a Gaeta per l'ultima
simbolica resistenza. E dopo la sconfitta definitiva, furono in pochi a
passare con l'esercito sabaudo, la maggior parte preferì restare fedele a re
Francesco II. Molti furono fucilati e arrestati e nei mesi seguenti furono deportati
al Nord e smistati in numerosi campi di concentramento. La Civiltà Cattolica,
scriveva che era in atto, “la tratta dei napoletani”.
Nonostante la
ricerca storica condotta dallo studioso Fulvio Izzo, nel suo, “I
lager dei Savoia”, il destino dei prigionieri di guerra napoletani è
ancora poco conosciuto, e ignoti sono il loro numero di morti. Non meno dura è
la sorte di tanti esponenti del clero, numerosi i vescovi incarcerati o
esiliati.
In un primo
momento il governo di Torino tiene nascoste le resistenze popolari del
Mezzogiorno, anche se la reazione degli occupanti è brutale. Il 21 ottobre del
1860, il generale sabaudo Enrico Cialdini telegrafa al governatore del Molise: “faccia
pubblicare che fucilo tutti i paesani armati che piglio, e do quartiere
soltanto alle truppe[...]”. Qualche altro generale era convinto che non
bisognava perdere tempo a fare prigionieri. Il linguaggio era abbastanza duro e
sanguinario come quello del generale Pinelli, nell'Ascolano, incoraggiava i
suoi ufficiali e soldati, scrivendo: “un branco di quella progenie di
ladroni ancor s'annida fra i monti;
correte a snidarlo e siate inesorabili come il destino. Contro nemici
tali la pietà è delitto[...] Noi li annienteremo, schiacceremo il sacerdotal
vampiro, che colle sozze labbra succhia da secoli il sangue della madre nostra,
purificheremo col ferro e col fuoco le regioni infestate dall'immonda sua
bava[...]”: Questa è gente che gli hanno dato medaglie d'oro, dedicato vie
ed eretto statue.
Intanto
l'insorgenza del Mezzogiorno trova impreparate, psicologicamente e
militarmente, le autorità civili e militari, anche se i segnali di ribellione
c'erano eccome. “[...]Le stupefatte popolazioni contadine guardavano
all'improvvisa invasione del regno da parte di soldati sconosciuti, parlanti
una lingua estranea, che si apprestavano a insediarsi nel territorio di uno
Stato che non aveva loro dichiarato guerra”.
La resistenza
al nuovo Stato non ha visto solo il popolo, ma anche buona parte del legittimismo nazionale e
internazionale, anche perché l'offensiva di Vittorio Emanuele II contro lo
Stato Pontificio aveva richiamato in Italia gran parte della nobiltà lealista
europea. Pappalardo fa alcuni nomi come il conte Henri de Cathelineau,
il conte Theodule Emile de Christen, i catalani José Borges
e Rafael Tristany, ce ne sono stati tanti altri, saranno artefici
di memorabili imprese e faranno a lungo sperare in una conclusione vittoriosa
della guerriglia. Uomini, eroi, che purtroppo gli è stato negato l'onore di essere citati sui manuali di
scuola per i nostri distratti studenti.
Purtroppo questa
resistenza non ha avuto una direzione centralizzata, è esistita una rete di comitati
diffusi nelle province che curavano il reclutamento dei volontari. Le
formazioni armate, talvolta superano i mille uomini, spesso inquadrati da ex
ufficiali. I combattenti innalzano la bandiera gigliata e intonano canti
dell'antico regime. Nei giorni festivi assistono alla Messa, celebrata nei
casolari di campagna, recitando la preghiera pro rege Francesco. Accanto
alle grandi bande agiscono formazioni minori, ci sono un gran numero di
fiancheggiatori, i cosiddetti manutengoli, che assicurano
contatti fra le bande e la popolazione civile, e provvedono ai rifornimenti per
i combattenti.
Pappalardo fa
riferimento alle critiche di alcuni storici nei confronti del legittimismo e
dei realisti napoletani che non sono riusciti a dar vita a un movimento esteso
o un partito a favore della dinastia, probabilmente non sono riusciti a
coagulare tutte le forze in una opposizione aperta al nuovo Stato liberale dei
Savoia. Sono state vinte piccole battaglie, ma non quella più importante. Anche
se bisogna riconoscere che il legittimismo borbonico ha avuto la capacità di
aggregare per anni quasi tutte le componenti sociali intorno a un sentimento
patriottico e nazionale.
Tuttavia la
resistenza si è presentata in forme molto articolate, sia a livello
parlamentare, le proteste della magistratura, la resistenza passiva dei
dipendenti pubblici, il rifiuto di ricoprire cariche amministrative e poi il diffuso malcontento
della popolazione cittadina, l'astensione dai suffragi elettorali, il rifiuto
della coscrizione obbligatoria, l'emigrazione, la diffusione della stampa
clandestina, fra cui emerge lo scrittore Giacinto de' Sivo, che
scrive molto denunciando apertamente la malizia e la strategia rivoluzionaria,
nonché l'inettitudine e l'impreparazione di quanti avrebbero dovuto opporre
prima una resistenza e poi una reazione.
Per Giacinto de'
Sivo,“L'unità politica, non è sempre un bene, anzi è un male quando viene
realizzata a danno dei valori spirituali e civili della nazione”. In
opposizione al piano rivoluzionario, egli prospetta l'ipotesi di una confederazione,
sul modello della Svizzera e degli Stati germanici, affinché possano sopravvivere
le autonomie, le leggi, le tradizioni di ciascun popolo della penisola.
Nella
primavera del 1861 divampa ovunque l'insurrezione generale. Le bande attaccano i paesi
senza tregua, ottenendo l'appoggio della popolazione, si proclamano governi
provvisori filoborbonici. Gli unitari non riescono più a controllare il
territorio. Vengono fuori i vari capi della rivolta, tra i più significativi, Carmine
Crocco e il sergente Pasquale Romano. La repressione non
si fa attendere, Cavour invia a Napoli con pieni poteri civili e militari, il
generale Enrico Cialdini, perché stronchi l'insorgenza a qualsiasi costo.
Cialdini ordina una serie di eccidi e di rappresaglie nei confronti dell
popolazione insorta, che rappresentano una pagina tragica nella storia dello Stato
unitario. Particolarmente efferate sono le rappresaglie sulla popolazioni delle
località insorte come Pontelandolfo e Casalduni nel
Beneventano. Alla fine si arriva a praticare con la Legge Pica, un vero e
proprio terrorismo militare, i protagonisti sono il generale
Ferdinando Pinelli con le sue “colonne mobili” e il colonnello Pietro Fumel.
Il testo di
Pappalardo descrive le varie fasi del grande brigantaggio, tenendo conto della
geografia del territorio dove il fenomeno si è diffuso, contemporaneamente vengono
elencati anche i nomi dei capibanda. In questo periodo, per la prima volta nel
diritto pubblico italiano si introduce l'istituto del domicilio coatto,
sul modello delle deportazioni bonapartistiche. Si arriva ad arrestare in massa
ad esecuzioni sommarie, con distruzioni di casolari e di masserie, il divieto
di portare viveri e bestiame fuori dai paesi, si colpisce “nel mucchio”, per
disgregare con il terrore una resistenza che riannodava continuamente le fila.
Per combattere
il brigantaggio, il nuovo Stato fa uso della guerra psicologica attraverso bandi,
proclami, servizi giornalistici e fotografici. Soprattutto le immagini
sono importanti per demonizzare il nemico, in questo caso i briganti. Prende
corpo la moderna “informazione deformante”, abilmente messa in
atto dal governo sabaudo. Anche Pappalardo cerca di dare delle cifre sui morti
in questa spietata e crudele guerra civile. Citando lo storico Roberto
Martucci, nel decennio, le vittime dovrebbero essere quantificate da un minimo
di ventimila ad un massimo di oltre settantamila, un numero molto
superiore alla somma dei caduti di tutti i moti e le guerre risorgimentali dal
1820 al 1870.
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