di Giuseppe Bagnasco
Ed ecco trovarci ancora a leggere i
pensieri di quell’Anacoreta occulto che ormai con animo ascetico guarda il
disfacimento della società da quel luogo che nato come Eremo è diventato il suo
Regno dei Cieli . Il poemetto, edizione all’Insegna dell’Ippogrifo, San
Cipirello 2017, dopo l’ecclesiale introduzione di Salvatore Lo Bue, si apre al
lettore d’impeto, nemmeno il tempo di una iniziale intitolazione, come
verosimilmente accaduto, sgorgando quasi di getto dalle inesauribili vene
filosofiche e pseudo razionali di quel Sovrano che risponde al nome di Tommaso
Romano.
L’Autore,
districandosi tra i ricordi del Tempo dorato che fu e le odierne-antiche strade
di Montevergini e Albergheria fino a quelle di Borgo e Serradifalco, finisce
per rifugiarsi quasi come un clandestino
nel suo “Tempio” da dove, con volitiva e sofferta insularità, medita e dispensa
con sorniona ironia, il suo dettato chiedendosi verso chi possa essere indirizzato
quel flusso di pensiero veritativo che scaturisce imperterrito dal suo spirito
liberante. E ironicamente, passo-passo esamina tutti i fallimenti registrati dal
nostro Occidente nell’arco di duemila anni, siano essi appartenenti al dettato
cristiano, a cominciare da quell’ Ama il prossimo tuo, a finire a quello
laico-sociale dove le rivoluzioni storiche che dovevano affrancare l’uomo, sono
alla fine approdate di fatto nelle mani di oligarchi senza bandiera i quali,
incapaci di meritare onori ma pronti a chiedere miserie civettuole , servendosi di ipocrite parole quali
democrazia e libertà, hanno dato spazio solo all’unico vero dio, il vero
sovrano: il Denaro.
Il Nostro, dentro il suo Regno dei Cieli, dove il plurale sta ad
indicare tutte le sfaccettature del suo poliedrico pensiero, circondato e
confortato laicamente da infinite rappresentazioni d’arte esistenti nel suo
Regno-Museo, segno inequivocabile di distinzione, e dove comunque non fa
difetto una Cappella di meditazione, curata con religiosa devozione, ecco
dunque l’Anacoreta occulto trarre le sue amare
considerazioni conclusive ma non esaustive come un greco-filosofo di
stampo platonico-hegeliano con cui l’Ammiraglio dalla sua Torre si
identifica.
Tra le tante osservazioni che il poemetto dispensa, Tommaso Romano
sofferma il suo sguardo sulla relatività della cultura dell’Occidente cristiano
chiedendosi cosa oggi ci consegna non il progresso, encomiabile nella misura
del suo apporto all’umanità, ma il progressismo che avanza senza un limes. Un limes
che apre le porte dell’Europa cristiana ai “barbari”che premono ai suoi
confini. Assistiamo, giusto per richiamare un dato storico, alla seconda caduta
dell’Impero Romano d’Occidente, solo che qui si tratta di tutto l’Occidente
cristiano. Ed è in questa falla aperta che si infiltra l’ateismo e cerca di
prendere piede l’Islamismo. Questa volta non un’invasione dal confine
Reno-Danubiano ma dall’Africa islamica.
Ne viene fuori un deserto abitato
da avvoltoi senza Dio dove il Verbo di
Cristo si è sprecato senza che nemmeno fosse ascoltato, quasi una scelta
obbligata tra la Verità e il Vuoto. Un
mondo dove oggi la parola civiltà
risuona vuota e dove la
primigenia “polis” si è smarrita nei bui vicoli ciechi al cui confronto i
maltrattati “secoli bui” appaiono rifulgere di luce propria. Unico appiglio per i pochi liberi viandanti
l’avere tra i propri il valore della
distinzione. Una macchia oggi imperdonabile bollata dai massimalisti come
eresia rispetto l’Egalitè o quell’egualitarismo strisciante, quello certamente
eretico per il nichilismo che intrinsecamente racchiude, apportatore di un
vento tanto subdolo quanto proditorio. Un vento che ha spento tutte le candele
della saggezza, compresa quella della coscienza individuale fagocitata in
quella collettiva che il Durkheim fa
nascere da una socializzazione meccanica e che perfino identificata con Dio. Si
salva solo una candela. Ed è quella che il “sofologo” Romano mette, a ben
proposito, sulla copertina del suo poemetto, opera dell’olandese Gerrit Dou, e
posta emblematicamente tra una clessidra e un mappamondo (il tempo che passa e
il mondo che scorre) a far luce su un libro che un anonimo astronomo consulta.
E’ la rappresentazione plastica dello studio di un volume, probabilmente
un testo sui “massimi sistemi” di Galileo, visto che il dipinto data 23 anni
dopo la morte del grande artista-astronomo. E non sfugge al riguardo il fatto
che l’eminente scienziato, davanti ai giudici del Tribunale della Santa
Inquisizione, dovette abiurare i suoi studi sull’eliocentrismo, subendo a distanza di 350 anni una parziale
riparazione ad opera del papa polacco Giovanni Paolo II che annullerà
formalmente il vergognoso processo visto che anche il suo connazionale Copernico circa un secolo prima del Galilei aveva
formulato la medesima teoria. Ed è proprio la semiotica di quella candela, che
in metafora esprime la luce della conoscenza, a dare un secolo dopo il nome a quel movimento
politico, sociale e filosofico a cui fu dato il nome di Illuminismo e al
Settecento il Secolo dei lumi. Si può ascrivere a quel periodo il tempo in cui
Cristo fu sfrattato dai Suoi altari. Sfratto ancora continuato fino ad oggi dai
topi infetti, come li chiama l’Autore, che si adoperano per svuotare il
significato del Suo Verbo presentandosi quali sedicenti rivelatori di verità
occultate.
Di fronte a tanta desolazione, il Cantore di Verità si ritrae in un
silenzio ascetico consapevole che il tacere è la sola composta difesa da
opporre. Ma non l’ultima, giacchè di
conserva c’è ancora un verbo da materializzare: resistere. Resistere quindi con
paziente sopportazione forti soltanto di ciò che siamo e di ciò che noi sapremo
essere e questo per sopravvivere finchè
possibile.
Leggendo Nel mio Regno dei Cieli
non c’è bisogno di orpelli agiografici per identificarsi in questi pensieri
veritativi. Questa del poeta-filosofo Tommaso Romano, signore del “ Muffoletto
del Beato”, non è solo un’accorata denuncia ma una sorta di “grido di dolore”
di sabauda memoria, che si leva contro l’eretica secolarizzazione della società
e nella fattispecie contro quella TV- spazzatura, che penetra serpeggiando
dentro la sacralità delle famiglie per apportarvi la cultura quantizzata del
non-essere e del nulla. Egli pertanto si rivolge ai pochi appestati dalla
fedeltà sempiterna perché si difendano dai coccodrilli ipocriti che coniano
falsi concetti manipolando uomini a cui propinano favole sul nuovo concetto di
felicità. Felicità raggiungibile con l’alienazione dell’anima e la vendita del
corpo, per uomini che, secondo il Lo Bue, “ sono perduti senza perdizione nel
vuoto regno del niente”. Un niente,
aggiungiamo noi, fatto di promesse non mantenute, di sogni ceduti all’oscuro
viatico del materialismo, di momenti di vita sorretta da errori per compiacere
l’Io adulatore, di pentimenti tardivi e mai veri. Un niente dove regna solo il
silenzio fatto di nulla. Un vuoto assoluto senza luce né suoni e per i quali,
aggiunge Romano, il Dio non solo non c’è mai stato ma neppure ha dato e creato.
Il poemetto di appena 99 copie numerate, fatta salva la presentazione, si
compone di dodici pagine, giusto dodici come il numero dei discepoli di Gesù, e
si presenta a verso volutamente libero per consentirne la particolare struttura
di rottura di ogni schema prefissato la cui articolazione appare come scomposta
ma organicamente unitaria. Esso non contiene massime, non addita un codice
comportamentale, né alcunché che possa richiamare il “Discorso della Montagna”
con intenti etico-educativi, ma afferma negando, giacchè la negazione è
l’affermazione dell’esistenza. In fondo è un elogio alla meditazione e un
tentativo per svegliare gli animi, per riflettere come invertire una cultura di
vita oggi quantizzata . Sostituire pertanto alla “massa” del corpo la ricerca dello
spirito attraverso un viaggio interiorizzato alla riscoperta dell’anima, di
quell’anima che è un credo di principi si da guidare il suo ritorno all’uomo.
Solo così l’uomo-individuo può
impossessarsi nuovamente di sé stesso con una ritrovata coscienza che lo
conduca verso una seconda via che lo allontani dal baratro del progressismo
esasperato che con sempre nuove invenzioni vuole liberare l’uomo dalla sua natura
e sostituirsi al Creatore. Negli intendimenti di Tommaso Romano, nello
specifico dissacratore-costruttore, si può pertanto cogliere una speranza ,
quella speranza, mai tardiva e inutile, di restituire la parola all’uomo
“meccanico” e all’intera famiglia del mondo cristiano attraverso il pensiero veritativo
della parola di un Maetre à penser,
quale è Romano, che a buon diritto si annovera tra gli umili servitori della Verità.
da: "Il Settimanale di Bagheria", n. 745, 2 Luglio 2017
da: "Il Settimanale di Bagheria", n. 745, 2 Luglio 2017
Nessun commento:
Posta un commento