di Rossella Cerniglia
La via dello stupore
di Guglielmo Peralta è una visione maturata in lunghi anni di
riflessioni e ascolto di sé e del proprio mondo che non attribuisce
a se stessa un carattere filosofico, in senso stretto, ma vuole porsi
come anelito e speranza di una rigenerazione che investa l'uomo,
l'umanità intera, a partire dalla poesia. La poesia in quanto
promotrice di bellezza avrebbe, dunque, una funzione catartica e
purificatrice dell'intero mondo, dell'intera realtà.
La costruzione che si eleva
su tale presupposto è giustamente articolata e poggia su una
peculiare rete di significanti e significati che si intersecano e si
rincorrono proliferando su se stessi. Il percorso che viene a
delinearsi è perciò una concrezione di sensi che motiva
l'agglutinarsi e il mescolarsi della molteplicità dei termini in
nuovi lessemi e in neologismi il cui senso converge nell'unicità di
questa visione.
Da sempre è da dire che
l'uomo -e in maniera più radicale e struggente il poeta- ha
avvertito il richiamo a un mondo ideale di perfezione di contro al
limite della realtà terrestre e umana. Molti esempi potrebbero
addursi a sostegno del significato e del valore intrinseco,
sostanziale, di una simile ricerca e di una simile visione.
É
indubbio che l'uomo aspirerebbe a riappropriarsi della divinità che
gli manca, e della quale si ritiene deprivato. Sartre, ad esempio, a
un certo punto della sua riflessione, sostiene che l'uomo progetta se
stesso come dio, anche se tale progetto è destinato –
inesorabilmente - allo scacco, e dunque egli finisce con l'essere un
“dio mancato”. In Nietzsche l'arte, intesa in senso ampio come
forza creatrice, diviene il modello stesso della volontà
di potenza
dell'ubermensch,
dell'oltreuomo.
Il che è l'analogo del pensiero di Sartre, considerando che
l'ubermensch
e la sua volontà
di potenza si
costituiscono a partire dalla negazione nicciana di ogni realtà
sovrumana
e di ogni metafisica, ma, nello stesso tempo, però, si pongono come
necessari per sopperire proprio a quella stessa mancanza,
difficilmente sostenibile per l'uomo. Infatti, non possiamo ancora
dirci fuori dalla metafisica - che il filosofo si era illuso di poter
cancellare – né con la teoria dell'eterno
ritorno, né
con quella dell'ubermensch,
o
della Volontà di
potenza.
Siamo, al contrario, ancora una volta di fronte a una dimensione, non
certo reale, ma ideale. Verso, cioè, una ideale perfezione che,
ancora una volta, sconfina nella metafisica. Heidegger, infatti, dopo
il lungo appassionato studio dedicato al pensiero nicciano, ebbe a
definire il filosofo “il più sfrenato dei platonici”, proprio
perché non si era liberato veramente della metafisica, ma l'aveva
riproposta sotto altra forma.
In
modo del tutto peculiare, anche i Romantici avvertono questo profondo
senso di inequivalenza tra la realtà del mondo - finito, limitato,
imperfetto- nel quale l'uomo si trova a vivere, e un mondo altro
dove
lo spirito aspira a dispiegarsi con anelito vasto, insopprimibile,
orientando a ciò che trascende la finitudine, la realtà contingente
di ogni divenire, verso le vette dell'ultramondano, dell'assoluto e
dell'eterno.
Siamo
di fronte, pertanto, ad uno stesso anelito, ad una stessa tensione,
ma espressa con modalità e terminologie differenti, coniugata in
forme personali che abbracciano l'intera visione del mondo e
dell'uomo, la sua storia, il suo vissuto. Alberga tanto nell'animo di
Sartre che lo vive come disillusione, come scadimento di un progetto
che depriva di senso e nullifica la realtà nell'insignificanza,
quanto in quello di Nietzsche quando deriva il senso del Bello-
l'arte – dall'intimo
rapporto che lega la forza creatrice, nel suo Eterno
ritorno, all'uomo nuovo,
all'ubermensch,
che liberato dai retaggi e dalle pastoie di una cultura e di una
morale ormai tramontata, rappresentata nel concetto della morte
di Dio, in lui rinasce
nella forma dello spirito
dionisiaco e come
Volontà di potenza.
Nei
Romantici era aspirazione vaga a qualcosa di non ben determinato,
sehnsucht,
sentimento di una sfuggente imprendibile e dolorosa mancanza, e
anelito volto a colmare questo vuoto, questo spaesamento dell'erranza
in terra straniera, in un mondo, cioè, che non è il proprio, che
essi percepiscono non appartenergli. Anelito e nostalgia, dunque,
che tormentano un animo insoddisfatto, inquieto: effetto di questa
inequivalenza tra la percezione di un sé limitato in una realtà
limitata, e il desiderio di sconfinamento, ma ancor meglio, di
riappropriazione di
un mondo più autentico che il poeta -e l'uomo in generale- sente
come propria patria e proprio destino.
Per cui, essere
viaggiatori su questa terra, essere pellegrini del mondo, è essere
privi della realtà lontana che è la Patria
che intimamente ci
appartiene, vale a dire, il nostro stesso essere, il nostro essere
più proprio che con voce misteriosa e insistente ci chiama ed
invita.
A questo sembra additare,
appunto, la visione soale di Guglielmo Peralta. L'arte, e il
principio che la regge e condensa, e che a sé tiene avvinto ogni
bene, rappresenta, pertanto, l'apertura dell'umano alla Jerusalem
celeste, vagheggiata dai mistici medievali, è il ritorno al
Padre nella ricostituzione dell'Unità infranta con
l'origine cronotopica della terrestrità in cui irrompe la necessità
del limite che frammenta e contrappone in sé l'Essere originario.
Questo
richiamo inesorabile, insopprimibile, alla perfezione è dunque
dell'uomo, appartiene ad esso, è una prerogativa solamente umana. È
ancora quello per cui Platone apre la visione dualistica della
realtà, dividendo il mondo umano: da una parte la terrestrità, dove
ogni cosa diviene e la conoscenza è imperfetta, dall'altra
l'abbagliante visione del mondo
iperuranio, ideale e
immutabile sede di ogni perfezione. E in verità, questo pensiero ha
segnato la cultura occidentale sin dalle sue origini, sin da quando
-andando oltre Platone e più indietro nel tempo- Parmenide, per la
prima volta, parlò dell'Essere compiuto ed immutabile, e della
rotondità di
questa visione. E l'attributo della rotondità
ritorna spesso a connotare la
Visione soale di
Peralta, a indicare l'idea di compiutezza e perfezione che vi sono
intrinsecamente connesse.
. È ineludibile il fatto che
la Poesia sia, sostanzialmente, una ricerca di verità, è anzi la
più alta ricerca della Verità in quanto ciò che ricerca è
l'essenza più vera della realtà, che Peralta, come abbiamo visto,
individua nella Bellezza.
Trovo che il pensiero di
Heidegger, al riguardo, sia illuminante. Nel saggio Holderlin e
l'essenza della poesia, pubblicato nel 1937, egli formula una
nuova concezione dell'essere connessa ad una precedente
impostazione del problema della verità: la concezione
dell'essere come Evento cui si collega il ruolo ontologico del
linguaggio.
Per
Heidegger, infatti, “ciò che prima di tutto è, è l'essere”. E
la parola Evento, viene a designare nel suo sistema
filosofico, l'originaria reciproca appartenenza dell'uomo e
dell'essere: l'uomo infatti non è senza l'essere e l'essere non di
dà senza l'uomo. Solo l'uomo - l'esserci, secondo
la definizione heideggeriana – ha la prerogativa di porsi il
problema dell'essere e del suo senso, a differenza dei semplici enti
intramondani. “Nella dimora
dell'essere abita l'uomo- dice Heidegger - e i pensatori e i poeti
sono i custodi di questa dimora. Il loro vegliare è portare a
compimento la manifestatività dell'essere; essi, infatti, mediante
il loro dire, la conducono al linguaggio e nel linguaggio la
custodiscono.”
Ma mi sembra utile, qui,
riprendere anche il concetto dell'archelingua heideggeriana, la
Dichtung. In questa lingua
archetipica, originaria, la cui postulazione appartiene al pensiero
più maturo del filosofo tedesco, Pensiero e
Canto, cioè filosofia
e poesia, coabitano, sono intimamente, inscindibilmente, connesse,
hanno tra loro un rapporto dialogante che si esplica nel linguaggio.
In essa i due elementi vivono non scissi e solo a
posteriori è possibile
considerali separatamente. Per loro tramite si realizza
quell'aprimento dell'essere
all'uomo di cui parla il filosofo tedesco, cioè il manifestarsi
dell'essere a quell'ente che si connota come esserci -
in quanto gettato/immerso nel
mondo in modo costitutivo e radicale. Tale Aprimento
costituisce appunto l'evento di
cui dicevamo prima.
Ma
un tale aprimento – lo
svelarsi dell'essere - non si dà mai in una luce costante, non è
mai totale. Esso è, infatti, analogo a una istantanea
illuminazione che subito torna a nascondere ciò che ha mostrato
perché il mostrarsi della verità, quello che gli antichi greci
chiamavano aletheia, si dà in un continuo nascondersi e
rivelarsi che non ha fine. Nella Poesia è in opera l'Evento della
verità. In essa, la verità dell'essere opera attraverso il
linguaggio per il suo disvelamento. E tale disvelamento, secondo
Heidegger, non dipende neanche dalla volontà dell'uomo, poiché non
è l'uomo a parlare, ma il linguaggio stesso -e per suo tramite
l'essere- che parla attraverso l'uomo che, in questo senso, possiamo
dire che è abitato dal linguaggio, anzi è parlato
da esso.
Tuttavia, nel suo stare a
fondamento di pensiero e canto, che si esplicano nel linguaggio, la
Dichtung li trascende entrambi poiché ogni pensiero e ogni
canto non potranno mai ricomprenderla e riaffermarla interamente,
così come non interamente potranno appropriarsi della verità
dell'essere che essa disvela
e adombra. La verità rimane,
pertanto, nel pensiero/canto e nel linguaggio che li esprime, in un
Nascondimento che mostra o in un Mostrarsi che nasconde. Ed
è qui l'essenza del linguaggio dell'uomo e della realtà che esso
esprime, e pertanto dell'esistenza intera: essa vive nell'ombra di
questo Nascondimento che accenna a se stesso senza mai
interamente svelarsi nella sua Luce.
Nella costruzione peraltiana,
Bene e Bellezza, i perenni attributi del divino, sono
unica realtà, e perciò Verità dell'Essere.
Ma lo spezzettamento dell'Unità originaria che è lo Spirito
(Energheia), diviene
realtà frantumata dentro e fuori di noi, diviene per l'uomo
terrestrità, dove la realtà è costituita di frammenti, e gli
uomini, anch'essi frammenti di un Tutto, sono, a loro volta,
in se stessi spezzettati, divisi e con parti in contrasto tra loro.
Questo è l'effetto della caduta, dello
slittamento che produce gli esseri reali, contingenti e unici
(a richiamare l'Unità dello
Spirito Universale).
Peralta allude, pertanto, in
questo suo saggio ad una Theosis, ad
un processo di divinizzazione dell'uomo che impara a ritrovare
se stesso, a pervenire alle sue origini, allo stato di assolutezza e
purezza iniziale in cui era unione col divino. E tale costruzione è,
pertanto affidata a quell'anelito alla trascendenza, all'unità e
alla perfezione che da sempre è il tendere dell'uomo. Pertanto essa
conserva quel carattere utopico dove il tendere non sarà mai
eguagliato per il fatto stesso che l'uomo non è Dio, seppure
sembrerebbe destinato alla divinità.
Nella realtà in cui l'uomo
attualmente si trova a vivere, come conseguenza di questa caduta,
sogno e realtà non possono che trovarvisi distinti e separati,
poiché il tendere alla perfezione e a Dio non è che la molla del
divenire stesso della realtà e del pensiero. E dal momento
che la nostra realtà - in quanto imperfetta - si connota per il suo
divenire, il raggiungimento, sia della Verità
che della Perfezione divine,
ci è negato (in quanto verrebbe a costituire la fine del divenire
stesso e della stessa terrena realtà).
Non
condivido, perciò, pienamente l'ottimismo integrale di Peralta che
la Verità dell'essere possa
essere interamente svelata nel perseguimento della Bellezza,
nel qual caso dovrebbe attuarsi
in noi una transustanziazione, o
meglio, per dirla con Dante, una trasumanazione;
dovremmo, cioè, nel percepire la Bellezza come
Verità o la Verità come Bellezza (che sono identica cosa visto che
nella visione peraltiana Bellezza
e Verità coincidono)
divenire divini noi stessi,
parte della medesima sostanza, divenire, cioè, quella Verità.
Infatti, la prospettiva di questa visione, come ha ben individuato
Giannino Balbis nella prefazione al testo, è quella divina (dalla
quale siamo però decisamente lontani!).
“Trasumanar
significar per verba/ non si porìa; però l'essemplo basti/ a cui
esperienza grazia serba” così detta Dante nel I canto del
Paradiso, per dire, sostanzialmente, del limite umano di fronte alla
indicibile, inapprodabile, Verità di
Dio.
Pertanto,
fino a che l'uomo rimane tale, cioè essere imperfetto, la realtà di
una simile visione sarà a lui inesorabilmente preclusa, e il sogno
rimarrà
distante da essa. Ma questo non esclude il necessario
tendere
a questa ardita visione, per quell'insopprimibile anelito di cui
dicevo prima, per quel radicale richiamo che è esigenza primaria
dello spirito umano. In questa radicale tensione, che è il divenire
stesso dello Spirito e dell'intera realtà, si consuma, infatti, la
vicenda umana, il suo incedere verso nuove forme di conoscenza e di
sapienza.
Anzi,
è proprio tale tensione che, nella sua perenne presenza, nella sua
insopprimibile costanza - declinata nelle più varie forme- ci fa
pensare di essere ricompresi in un piano teleologico grandioso che
inesorabilmente guidi il nostro spirito a quella Patria
additata
e lontana.
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