di Luca Fumagalli
Poche storie si appiccicano come vestiti infradiciati. Raramente il lettore chiude un bel romanzo con addosso la sensazione di sporco, come se quello che si è appena completato, più che un libro, sia stato in realtà una sorta di scandaloso viaggio nel proprio io.
Il grande Gatsby (1925) è così. Scritto da quel geniaccio americano di Francis Scott Fitzgerald, un cattolico dalla vita sfortunata, il racconto è diventato un classico della letteratura occidentale, emblema delle angosce collettive di un’umanità in rovina.
Long Island, estate del 1922. Nick Carraway giunge sulla costa orientale con lo scopo di far fortuna nel mondo della speculazione finanziaria. La sua vita, sino a quel momento priva di particolari scossoni, viene sconvolta dall’incontro con Jay Gatsby, l’eccentrico vicino di casa, un affascinante e ricco trentenne dal passato misterioso. Ogni sera Gatsby organizza presso la sua immensa dimora feste danzanti a base di alcol e jazz a cui partecipano decine e decine di invitati. È l’uomo più noto e chiacchierato della città. In breve tempo Nick diventa suo confidente e scopre così che l’amico, al di là delle apparenze, è profondamente infelice e porta nel cuore un pesante fardello: l’amore impossibile per una donna che non ha mai dimenticato. Nick cercherà in tutti i modi di aiutare Gatsby, ma il destino sembra avere in serbo per quest’ultimo un progetto molto diverso. Intorno a loro, nel frattempo, si dipanano le vicende sentimentali di sodali quali lo stolto e arrogante Tom Buchanan, sua moglie Daisy e la frivola golfista Jordan Baker.
Scott Fitzgerald confeziona un libretto agile, di poche pagine, ma tutt’altro che frivolo. La sintassi tesse delicati florilegi che giocano sovente sull’allusione. Più che descrivere direttamente, con schietta nudità, l’autore preferisce sfiorare i contorni degli oggetti, facendoli intravedere per sottrazione, dettagliando piuttosto quello che sta loro intorno. Nei capitoli compaiono assaggi di prosa robusta intervallati da variazioni moderne alla Ronald Firbank, riscontrabili soprattutto nell’aggettivazione opulenta e nei lunghi elenchi. Da Henry James è mutuata invece la tecnica di far raccontare la storia a Nick, il coprotagonista. Il punto di vista soggettivo toglie ogni sensazione di certezza e di onniscienza.
Il grande Gatsby, infarcito da Scott Fitzgerald di rimandi autobiografici, è una sorta di canto del cingo dell’epoca del jazz, anni felici in cui gli Stati Uniti divennero sinonimo di riscatto sociale, dove la vita pareva risolversi in risate e balli spensierati. Il sogno americano, iniziato con lo sbarco dei pellegrini del Mayflower, stava andando lentamente a inabissarsi, e all’orizzonte si potevano scorgere i segnali di declini e cadute (a parafrasare il titolo del primo romanzo di Evelyn Waugh, la cui poetica vanta parecchi punti di contatto con quella di Scott Fitzgerald). La crisi del ’29 in effetti annichilì nel giro di qualche mese quella fantasmagoria di cartapesta, tutta lustrini e coriandoli, e gettò sul freddo marciapiede esistenze che parevano destinante all’olimpo della gloria.
Ne Il grande Gatsby, allo stesso modo, la calura estiva delle prime pagine anticipa la pioggia battente dell’autunno nel finale, e il baccano della mondanità è solo il prologo di una storia di lacrime e solitudine. Gli anni ’20 si trasformano poco a poco nel correlativo oggettivo dell’anima di Scott Fitzgerald che, con il suo romanzo più famoso, consegna a chi legge una sorta di diario spirituale, un invito a sgombrare la mente dai tanti palliativi che la stordiscono – soldi, donne, potere ecc. – per tornare a guardare la realtà con il cuore gonfio di attesa, alla ricerca di quella meraviglia che sola può soddisfare l’uomo, di quel mistero adeguato a chi anela l’infinito. Dietro le facce sorridenti che sfilano lungo le strade della Grande Mela si cela il vuoto, il baratro della solitudine, vite spezzate dall’abiezione, in balia degli eventi e, soprattutto, incapaci di amare.
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