di Giuseppe Bagnasco
Capita
spesso quando ci si trova davanti al testo di una scrittrice che s’affaccia per
la prima volta alla ribalta dello scenario letterario, che la lettura in
qualche modo “benevola” ceda il passo ad una più approfondita critica tale da
poterne fare emergere un qualche lato “debole”, con la conseguenza di condurci
“colpevolmente” ad un superficiale giudizio. Ma questa di Francesca K. Matina,
presentata come “Opera prima”, evidente preludio di successive elaborazioni
letterarie, potrebbe al contrario, considerarsi come un’opera frutto di un cultore
del pensiero giunto al pieno della sua maturità “sofoletteraria”. Un’Opera Prima,
questa La casa nel vento
(Edizioni Thule, Palermo–2016) che potrebbe leggersi come l’epilogo che una
docente di filosofia destina ai suoi giovani alunni nell’ultimo giorno del
corso di studi. Giovani che mai più ritornerà ad incontrare e quindi assume nel
suo contesto una dimensione eclettica. Ma ancor prima di anticiparne il
giudizio, vediamo, come siamo d’uso fare, cosa c’è esposto nella copertina, impreziosita
da un dipinto di Sergio Ceccotti e che funge come sempre da vetrina. Rappresenta
una porta-finestra semiaperta che ce ne richiama un’altra, quella della
copertina di Tempo dorato del filosofo Tommaso Romano, lì come saggista nelle
vesti di un socio-antropologo. Quella della Nostra, scrutando gli interni,
raffigura una donna vestita con un convenzionale tailleur, la borsetta al
braccio, mentre con lo sguardo smarrito si appresta ad uscire. Si arguisce, ma
è una nostra parallela lettura, che non esce attratta dal bel cielo azzurro riflesso
sui vetri dell’imposta, bensì dall’intima volontà di uscire comunque. Andare
via, via da cosa?. Questo interrogativo potrebbe sembrare un azzardo di lettura
ma sta nel proseguo dell’esposizione dell’itinerario che traccia nel libro la
scrittrice, che troviamo la sua spiegazione. Un itinerario che è un viaggio
introspettivo che partendo dal suo “me”, la porta a raggiungere il suo più profondo
“io”. Nonostante l’Autrice classifichi riduttivamente il suo lavoro come un
racconto, ci troviamo invece di fronte ad un pregevole saggio sulla ricerca
della felicità. Felicità che non è un luogo ma un granello portato dal vento
che passa, entra nella nostra vita e ne esce proditoriamente, lasciandoci un
vuoto.
Il lavoro di Francesca K. Matina, dove anche
il suo nome è diviso da quel punto che insidia la K, si presta ad una univoca
lettura, divisa anch’essa in due parti e che si estende da accadimenti che
imperversano tumultuosi nel suo incedere, aggettivazione lontana dal “tumultus”
latino, ad una calma meditazione filosofica. Infatti mentre la prima parte rappresenta il “corpo” in un tormentato percorso di vita
quotidiana, la seconda esprime, con l’aspirazione alla realizzazione autentica
della vita, lo spirito, l’anima. E in fondo le due parti le potremmo
identificare e distinguere, invertendone l’ordine, nell’Essere e nel non Essere
di parmedineana memoria. La “fisica” e “metafisica” scrittrice d’origine
lampedusiana affronta, lasciando la sua isola per una metropoli, il suo primo
dualismo: da una parte il piccolo nucleo d’anime, visto come individualismo,
dall’altra il grande crogiolo della massa informe della città, sofferto come
collettivismo. E questa sofferenza la porta a riconsiderare il suo rapporto con
la sua “Itaca”, l’isola del ritorno al punto da non vedere alcuna differenza
tra una panchina cittadina e il suo abituale scoglio, posto di fronte al suo
mare, dove portava i suoi pensieri, le sue aspirazioni. Lo stesso dualismo in
cui differenzia un grande viale con una piccola strada, meglio un vicolo, dove
si sente più a proprio agio, più vicino al suo essere, più intimo, più
raccolto, più consono alla meditazione, più a sua misura e dove si riappropria
istintivamente di se stessa. Una sofferenza, quella vissuta a contatto con una
società fittizia ed ipocrita, dagli stereotipi fatti di convenzioni
standardizzate che ad un certo punto, afferma l’Autice, la sua “era diventata
una tragedia senza pubblico, nel teatro sfuggente della vita, dove a pagare il
biglietto ero sempre io”. Ed è esattamente
proprio partendo da quel certo punto che la Nostra, forte delle parole
della madre “Tu non sei felice. Punto”, l’arresta nella convinzione che “ bisogna perdersi per
ritrovarsi ”, tornare al punto di partenza giacchè in fondo la vita, come
afferma il filosofo Tommaso Romano, è sempre un ritorno a se stessi.
E’la
svolta che imprime nella sua vita liberandosi da quello zaino “pieno di nulla e
vuoto di tutto” che per tre anni era rimasto appeso alle sue spalle. E’ qui che
la trama del libro cessa di essere un racconto autobiografico e diventa
esercizio del pensiero, un gabbiano che riprende il volo verso ciò dove amava
andare: i lidi perigliosi della filosofia. E’ in fondo la metafora della donna
della copertina che esce da casa per andare verso quella “Vita nuova” di
dantesca memoria dove cessa il discorso con la realtà e inizia quello con
l’anima. Una sorta di osmosi tra il testo e la copertina. Una scelta voluta
intimamente e che nel suo “primo giorno di quiete” ritrova nella frase sibillina della sua amata
insegnante di filosofia: “ Ti auguro tanta serenità, anima inquieta”. Nella
contrapposizione tra l’Essere e l’Apparire, afferma la Matina, bisogna uscire
dagli schemi della nostra forma mentis e dare campo alla bellezza delle
anomalie perché è dal contrasto tra il positivo e il negativo che si può
affermare di vivere veramente.
La
casa nel vento è tutto questo. E’ un saggio, lo ripetiamo, di ricerca della
felicità attraverso la stesura mediatica di un racconto a metà tra un diario e un
complesso esercizio di filosofia. A differenza di quando potrà colloquiare “peripateticamente”
coi propri discepoli, certa che per allora
potrà dominare con la serenità raggiunta la fastidiosa balbuzie che l’affligge,
per ora la nostra K. affida le proprie meditazioni alla scrittura allo scopo di
rivolgerle all’immaginaria platea dei giovani. Giovani che esorta a guardare a La
casa nel vento come una “finestra aperta sul passato ma orientata al
futuro” e lo fa servendosi proprio di quel mezzo mediatico da cui rifuggiva nell’antichità
un grande maestro del pensiero e che risponde al nome di Socrate, come viene
riportato da Platone nel “Fedro”. Il
Maestro pensava che per avere un contatto diretto con i giovani ci si dovesse
affidare alla parola, alle domande e risposte proprie dell’interloquire
estemporaneo e a diffidare della scrittura sia perchè il pensiero scritto non poteva mutare e sia
perchè in ogni momento poteva essere interpretato difformemente da quello
originale e infine perché la vedeva come un rallentamento dell’esercizio della
memoria. Il Filosofo ateniese non prendeva in considerazione la facoltà di
permettere a chiunque di appropriasi della sapienza e della conoscenza
riservate ai filosofi. Ma è quel “chiunque” che non poteva essere comprensibile
all’aristocrazia del tempo, a cui lui apparteneva, perché evidentemente non si
rendeva conto come quella forma comunicativa fosse uno dei pilastri della
democrazia, come partecipazione e divulgazione (gratuita) del pensiero. E qui
viene consequenziale fare una digressione.
La filosofia non nasce tra le case del
popolo minuto nei “Demo” ma tra le persone appartenenti alle classi più elevate
delle città. E’risaputo che gli ateniesi amavano passeggiare nelle Agorà e
discutere di politica, oppure concedersi alla libertà del pensare o del dolce
far niente poiché ritenevano che non era degno di un uomo libero avere bisogno
di lavorare per vivere. Questo era riservato agli schiavi. La filosofia è dunque
figlia primigenia dell’ozio? Non del tutto, se inteso nella semantica dell’otium
dei latini cioè come tempo dedicato oltre
che al riposo, allo spazio per pensare. Ma è un fatto che per secoli il potere ha
diviso le società del tempo in tre “Stati”, a cominciare da quello federiciano
- feudale, ecclesiastico e demaniale - che pose fine al medioevo, a finire a quello
prerivoluzionario francese in nobiltà, clero e borghesia -. Lo “Stato” del
popolo, detto “Quarto Stato” e in seguito con Marx, del proletariato, non era
affatto deputato alla speculazione filosofica attanagliato com’era dal lavoro e dalla necessità della sopravvivenza.
E lo dimostra il fatto come alla classe dell’aristocrazia e di seguito a quella borghese, appartenessero quelli che, per restare tra i nostri e ciò fino
all’Ottocento romantico, giusto per citarne alcuni, facevano capo alle casate
dei Leopardi, Manzoni, Alfieri, Foscolo, ecc. Ma anche il popolo aveva le sue scuole
di saggezza, la filosofia dei semplici e dalla quale si originarono i proverbi:
erano gli anziani dei borghi o i nonni nelle case con i loro detti, motti,
esortazioni per governare le relazioni tra individuo e società, tra società e
Natura o tra quanti formavano una famiglia. Relazioni che offrirono le basi alla
formazione della Sociologia.
A completamento di queste note non possiamo
non ricordare tra i dieci capitoli de La Casa nel vento della Matina, i
suoi rapporti sia con la sua personale “Grande prostituta”, di volta in volta
identificata nel tempo, con l’antica Babilonia o in seguito con la Roma papale al
tempo delle vendite delle indulgenze e sia, aspetto non trascurabile, con la fotografia.
La Nostra definisce “magica” la Sicilia,
ama Palermo (la Grande Prostituta) di un amore viscerale, l’ama per il suo
carico di storia, per quelle antiche civiltà che lì progredirono e si
affermarono. L’ammira per i suoi
monumenti, i ritrovi, i teatri, le chiese, cercando però nei vicoli, e non
nelle eleganti strade, l’anima ancestrale della vecchia polis, con i suoi odori,
insieme ai colori del cielo, del mare e non ultimo per “ il più bel promontorio
del mondo”. Al contrario non ne tollera
gli abusi, il disordine, l’ipocrisia dell’appariscenza e, aggiungiamo noi, la
corruzione dei pubblici uffici, la prevaricazione nella circolazione stradale, l’abusivismo
edilizio con l’occupazione del demanio, gli incendi boschivi dolosi e la
generalizzata prostituzione morale. Palermo vende o svende tutto ciò, e si
offre con seducenti ammiccamenti all’obiettivo dei turisti che l’Autrice, da
appassionata dell’arte fotografica, apostrofa mentalmente: “Chissà, cosa ci trovassero nel bloccare il
tempo, sottraendo il presente al suo destino, quello di diventare passato”. Per
Lei invece quello che conta non è il souvenir fotografico da inscatolare in un
album, ma un ricercare nelle cose, nelle persone ciò che vi sta dentro, nel profondo
dell’anima. Si veste pertanto da
archeologa per una missione di antropologia spirituale, con l’obiettivo di
tirar fuori dal corpo lo spirito, al pari dell’andare alla ricerca dell’anima
della città, scavando nei vicoli del centro storico. Alla nostra archeologa non
interessa la “piramide” della bella e sontuosa costruzione appariscente e
seducente, ma l’interno, la “ stanza del re ” dove riposa l’eterno. E’ in fondo una continua lotta per la
supremazia tra il fuori e il dentro, tra una tesi e un’antitesi, come nella più
classica dialettica e che trova nella sintesi della scelta di docente di
filosofia, quella serenità che chiama felicità.
Francesca K. Matina investendosi di una
sorta di “legazia apostolica”, delega all’uomo, ai giovani, il compito di non
rinunciare mai al proprio intimo sentire, ma andare oltre investigando e
tirando fuori ciò che veramente conta, specchio e orgoglio dell’affermazione
dell’Io. Il suo verbo risulta ammantato
di un “romanticismo laico”, giacchè riscopre e ama il suo passato, l’aura delle
sue radici, si nutre dei segni della natura, del calore del sole, dell’umore
mutevole del mare e soprattutto di quel senso di riposo e di pace che le concedeva
il suo “scoglio” e a cui ricorreva al tempo delle sue inquietudini. La casa
nel vento pertanto costituisce una casamatta posta a difesa degli ultimi
scampoli di una civiltà largamente insidiata dal vacuo e del superfluo e dove
finanche nell’Olimpiade della Cultura, qual’è
il Premio Nobel, si è trovato il modo di squalificarlo assegnandolo
inopinatamente nel campo della letteratura (!) a personaggi dello spettacolo
quali Dario Fo e recentemente Bob Dylan. E la definisce, com’Ella afferma
nell’ultimo capitolo, una casa di frontiera, una casa con pareti di parole
e mattoni di pensieri e, aggiungiamo
noi, simile ad un deposito di concetti, di enunciazioni, quasi un emporio, in
cui le domande si propongono in modo dirompente e costante , quasi una corsa a
recuperare il tempo perduto nella ricerca di se stessa e dove le risposte
arrivano nelle nebbie del tempo dove c’è sempre un dubbio in agguato che impone
sempre un’attesa, quell’attesa che in fondo è la vita stessa.
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