Si inaugura sabato 6 giugno 2015, alle ore
18.00, presso la Civica Raccolta “Carmelo Cappello” di Palazzo Zacco a Ragusa,
la mostra Elogio del disegno, a cura di Andrea Guastella. L’esposizione,
organizzata dall’Associazione Aurea Phoenix col Patrocinio dell'Assessorato
alla Cultura del Comune di Ragusa, raccoglie una selezione di disegni di autori
italiani contemporanei.
Martedì 23 giugno alle 18.00, sempre presso i locali di Palazzo Zacco, alla chiusura della mostra verrà presentato il volume di Andrea Guastella Il ramo verde, Aurea Phoenix Edizioni, una raccolta di scritti sull’arte comprensiva del saggio che dà il titolo alla mostra e che le è esplicitamente dedicato.
Martedì 23 giugno alle 18.00, sempre presso i locali di Palazzo Zacco, alla chiusura della mostra verrà presentato il volume di Andrea Guastella Il ramo verde, Aurea Phoenix Edizioni, una raccolta di scritti sull’arte comprensiva del saggio che dà il titolo alla mostra e che le è esplicitamente dedicato.
Dal testo
di Andrea Guastella: «In un capitolo dal titolo emblematico, Elogio del
pastello, della sua indimenticata Critica della modernità, Jean Clair
registrava la risurrezione del disegno che, a suo dire, ritorna “ad occupare
[…] quel posto primordiale che fu, in altri tempi, il suo”. Trent’anni e
passa dopo risulta difficile credere al primato di un’arte universalmente
caduta in oblio, abbandonata dalle scuole e soppiantata, nella sua funzione
mimetica, da strumenti ottici che consentono di riprodurre il reale con una
facilità di gran lunga maggiore. Poco a poco tali strumenti, a cominciare dai
più semplici come la fotocamera del telefonino, sono diventati delle vere e
proprie protesi corporee, dei prolungamenti delle facoltà percettive col non trascurabile
vantaggio di fissare una visione stabile, non soggetta ai capricci della
memoria e modificabile a piacimento.
Oggi,
perciò, non sembra strano che una star del calibro di Maurizio Cattelan
dichiari candidamente di non saper disegnare: “Le mie cose”, afferma, “non le
tocco proprio. È il vuoto che mi concentra e mi dà delle idee”. Si
potrebbe – ammettiamolo – ironizzare facilmente su quel vuoto, ma sarebbe come
prendersela con uno scienziato perché non sa cucinare: l’arte concettuale
risponde infatti a logiche mentali che hanno poco da spartire con la
“primordialità” del disegno, col suo essere identico a sé stesso da quando i
primitivi tracciarono schizzi sulla pareti di una grotta.
Davvero il
disegnare fonde l’uomo e il mondo: come lo sciamano si immedesimava nella preda
da cacciare, nessun disegnatore che si rispetti è in grado di affrontare una
montagna senza diventare in qualche misura una montagna, o di ritrarre una
donna limitandosi a contemplarne la sagoma, la forma. Occorre percorrere i luoghi,
frequentare le persone, conoscere la luce e l’atmosfera dei primi e i movimenti
delle seconde, dal modo in cui, con un gesto della mano, ravvivano i capelli,
al piegarsi di una ruga se un pensiero le attraversa. Disegnare non è
infatti copiare passivamente il dato oggettivo: è cogliere un’armonia fra
rapporti complessi e trasporli in un ordine proprio, sviluppandoli secondo
dinamiche autonome. E non si tratta di impresa da poco. Per quanto si tratti di
un atto primigenio, per disegnare – come per scrivere – occorre superare una
barriera.
Lo aveva
capito Van Gogh, che in una lettera al fratello definisce il disegno «l’arte di
aprirsi un passaggio attraverso un muro» eretto tra i sensi e l’intelletto, tra
ciò che si vede e ciò che si intende esprimere. Ostacolo da superare ma non
perciò meno necessario, essendo proprio la sua presenza ad accendere
l’immaginazione trasformando la percezione meccanica in interpretazione. Ogni
artista, per dirla tutta, ha il proprio muro, che a volte coincide col suo
limite, altre con la sua qualità maggiore. Prendiamo il caso di Vincenzo Nucci,
amico carissimo da poco scomparso cui ho il piacere di dedicare questa mostra:
forse il disegno era per lui un limite, una sfida, ma senza impegnarsi in
questo confronto sviluppando le sue attitudini di colorista non sarebbe
probabilmente diventato il grande pittore che tutti ammiriamo. Non a caso il
suo Paesaggio della memoria, un disegno che mi donò per una mia pubblicazione,
è quasi un unicum nel suo corpus, e non manca di ricorrere al bianco del
pastello.
Al
contrario, per Franco Sarnari il disegno è la prima rimozione – parafrasando un
suo famoso ciclo potremmo quasi definirlo una Cancellazione – della sua lunga
storia: disegnatore abilissimo, egli farà sempre più a meno della spontaneità
dimostrata agli esordi (lo Scooter in mostra risale agli anni ’50) in nome di
un tratto più freddo, pensato. C’è quasi da credere che egli abbia temuto di
rimanere impantanato nelle secche della facilità esecutiva – la qualità
maggiore come ostacolo da superare – rimanendo soltanto un disegnatore.È questo
un timore probabilmente condiviso da Giovanni Blanco, altrettanto dotato ma
alla continua ricerca di prestazioni superiori per il suo strumento e, sebbene
in misura minore, da Salvo Barone, dove l’intellettualismo di alcune scelte
tematiche è un freno a mano inserito che rallenta un fluire di linee altrimenti
impetuoso.
Solo
Giovanni La Cognata, disegnatore naturale se mai ve ne fu uno, è all’apparenza
esente da simili preoccupazioni: all’apparenza, poiché il suo ductus, incisivo
come plastica è la sua pittura, si nutre di natura almeno quanto è carico di
memoria culturale. La spontaneità, è proprio il caso di ripeterlo, è figlia
dello studio.Qualcosa del genere accade anche a Piero Guccione, il cui disegno
è costruito, meditato, rarefatto proprio come la sua splendida pittura. E alla
pittura, a una tessitura fine, quasi – se fosse possibile – per velature
sovrapposte, si richiamano il disegno di Giovanni Iudice, dalla trama così
sottile da rendere arduo cogliere il solco della matita sulla carta, nonché
quello poetico, evocativo, carico di suggestioni letterarie di Giuseppe
Colombo, Francesco Balsamo e Giovanni Robustelli.
Un
discorso a parte va fatto per il gesto ipnotico e sognante di Sandro
Bracchitta, una sorta di inconscio del suo lavoro di incisore, per quello
incerto e sfumato, come se il tempo ne avesse diluito la nettezza, di Giovanni
Lissandrello e per quello espressionistico di Momò Calascibetta, forse il
maggiore erede di una tradizione che ha in Grostz e in Dix i suoi padri
fondatori e una delle massime testimonianze nel segno sospeso tra l’impegnato e
il surreale di Bruno Caruso.In realtà ciascuno di questi autori meriterebbe un
discorso approfondito, addirittura monografico, che renda giustizia al suo
percorso individuale. A me basta, in questa sede, riconoscere che Jean Clair
non si sbagliava».
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