domenica 15 febbraio 2015

Una società senza padri

di Domenico Bonvegna
 
Da qualche settimana il Santo Padre Francesco sta dedicando le sue catechesi ai problemi familiari e in particolare al ruolo della figura paterna, attualmente in crisi nel modello familiare contemporaneo. Quello che allarma, oltre ad una inquietante “società senza padri”, è una società che ormai quasi ignora il padre, che non ne avverte nostalgia e disprezza anche la virilità.
 Il Papa ha evidenziato il danno notevole provocato dall’assenza del padre di famiglia per i figli, anche quando è fisicamente presente ma assente di fatto. Per Papa Francesco questa mancanza colpisce soprattutto il mondo occidentale: “la figura del padre sarebbe simbolicamente assente, svanita, rimossa”. Il Papa ricorda che c’è stato un periodo storico in cui questa assenza è stata vista come "liberazione", e qui il pensiero va alla sciagurata rivoluzione sessantottina. E’ noto che “dai tempi del ’68 e dintorni che il padre sembra non avere più diritto di cittadinanza. La lotta contro il principio di autorità, cardine della protesta sessantottina, unitamente alla premiata ditta Freud&Co e al femminismo, hanno investito in pieno il ruolo del padre, che dell’autorità è sempre stato uno dei simboli forti” (Luca Del Pozzo, L’esperienza personale di un Papa, 31.1.15, LaCrocequotidiano).
 Tuttavia, la crisi della figura paterna, “ha preceduto di parecchio quella economica ma che, a differenza di questa, stenta purtroppo ad essere riconosciuta nella propria portata e nelle proprie implicazioni”(Giuliano Gusso, Francesco ci fa riflettere: cosa resta del padre?, 31.1.15, LaCrocequotidiano)
 Peraltro le statistiche sono assi chiare, pare che oltre un milione di bambini inglesi cresce senza avere a fianco la figura paterna, mentre nella sola città di Berlino su 430 mila nuclei familiari, ben 134 mila sono composti da ragazze madri sole con il loro bambino. In Italia, la situazione è peggiore, l’80% dei nuclei monoparentali è costituito da donne, in pratica a più di due milioni di figli non è assicurato il riferimento paterno (Istat, 30.7.2014).
 Ma che cosa c’è dietro a una società sempre più orfana del padre? Gusso scorge tre livelli di rimozione culturale: religiosa, educativa e infine quella antropologica. Del resto l’eclissi della figura paterna, interessa in primo luogo il mondo occidentale dove per secoli il Cristianesimo è stato protagonista. Per quanto riguarda l’aspetto educativo, numerosi studi scientifici di specialisti effettuati in tutti i continenti hanno dimostrato che la “concreta presenza paterna si traduca, per i figli, in benefici per quanto riguarda lo sviluppo cognitivo, l’equilibrio psicologico e la riduzione di condotte devianti”. Pertanto non deve meravigliare il legame che esiste tra l’assenza della figura paterna e i suicidi giovanili, gli abbandoni scolastici, le gravidanze fra le giovanissime e l’abuso di sostanze stupefacenti. Ma per Gusso è più micidiale la rimozione antropologica.
 Ritornando agli aspetti educativi in questi giorni mi è capitato di leggere, anche se datato, l’ottimo volumetto dello psicanalista Claudio Risè, “Il mestiere di Padre”, Edizioni San Paolo(2004). Il testo è un serrato e concreto dialogo fra l’autore e i padri e i figli che gli hanno scritto per raccontargli le loro storie e per capire meglio i problemi. E’ un libro che dovrebbe essere letto anche oggi, infatti è stato ripubblicato l’anno scorso, indispensabile in una società che, invece di sostenere e aiutare i padri, tende ad emarginarli e a confonderli.
 Già nella prefazione Risè cerca di provocare il lettore: “un fantasma si aggira nei testi pedagogici, e psicologici, degli ultimi cinquant’anni: quello del padre”. Il libro è stato scritto e Risè lo scrive esplicitamente, proprio per indicare come si esercita il mestiere del padre. E’ una ricerca concreta, personale, da parte di tanti padri e figli, affrontando i problemi di tutti i giorni, interrogandosi sul loro significato. In pratica Risè con questo ma anche con il precedente volume, “Il padre, l’assente inaccettabile”, sempre pubblicato da San Paolo, vuole dare “un preciso e valido aiuto al grande popolo di persone responsabili, uomini e donne, oggi impegnato a trasformare quel fantasma ambiguo di padre, che ha preso forma nell’ultima parte del ‘900 in Occidente, in una realtà di carne e di sangue, di pensiero e d’azione”. Il testo di Risè è ricco di spunti, ne scelgo qualcuno quello dell’accoglienza dei figli che chiedono di essere educati, non solo quando sono piccoli con i loro perché. Perché la vita? Da dove vengo? Come vivere e perché? Per una lunga fase dell’infanzia e poi(se la curiosità non viene spenta o repressa troppo in fretta) per tutta l’adolescente, e ancora nella prima giovinezza, l’individuo è assillato da quesiti metafisici. Risè in questo caso si scaglia contro il “pensiero debole”, che sostanzialmente è “il pensiero  senza risposte, e interesse, ai grandi quesisti, sottraendosi alle domande dei piccoli, e non offrendo loro nessuna risposta con cui possano confrontarsi, è profondamente antieducativo. Perché li lascia soli, e inquieti, di fronte alle uniche domande in grado di strutturare poi l’intera personalità e di far crescere quel gusto di vivere, e passione per la vita, che costituiscono l’indispensabile carburante per la vita”.
 Il silenzio dei padri, dei maestri, deludono questi piccoli ma anche gli adolescenti. Hanno bisogno di sentire parlare del “bene” e del “male”. I giovani hanno bisogno di “indicazioni, di criteri, di orientamenti morali, a cui opporsi o da accettare. Mentre l’astensione da parte degli adulti nel pronunciarsi sul piano morale provoca nei giovani depressione e disorientamento”. Come quei giovani liceali di Catania del Liceo “Spedalieri” che nel febbraio 2007 dopo le violenze del fine partita che causarono la tragica morte del povero ispettore Filippo Raciti si interrogano sull'assenza di valori nella quale si sentono di vivere, sulla totale mancanza di punti di riferimento che li porta a sentirsi "soffocati dal nulla”. Gli studenti catanesi chiedevano aiuto ai loro professori: "Abbiamo bisogno che qualcuno ci aiuti a trovare il senso del vivere e del morire, qualcuno che non censuri la nostra domanda di felicità e di verità". Ancora più sorprendente e sconcertante è la risposta che i docenti danno agli studenti, in pratica, i professori e le professoresse sostengono che la scuola, loro stessi, non debbono dare risposte, anzi non ci devono neanche provare. La scuola, secondo loro, dovrebbe infatti limitarsi a "stimolare domande" e per quanto riguarda il "senso della vita" che gli studenti dichiaravano nella lettera di aver perso o di non aver mai trovato, i professori rispondono: che ciascuno cerchi da solo le "risposte adeguate al proprio percorso". Qualche giornalista ha definito questa risposta come nichilismo pedagogico. In pratica i professori del Liceo catanese in quell’occasione, invece di approfittare della richiesta di aiuto dei loro studenti, che si interrogavano e si ponevano domande sul vero senso della vita, non fanno altro che defilarsi e non proporre nulla che possa aiutarli seriamente. Anzi li invitano semplicemente a smetterla: "Proporvi, o imporvi, delle verità è integralismo, cioè barbarie, e pertanto questo atteggiamento non può avere luogo nella scuola pubblica, cioè democratica e laica" .
 Il documento dei docenti di Catania è il solito schema che è presente nella stragrande maggioranza degli insegnanti italiani, è l' ideologia del dialogo e dell'ascolto , del rispetto dell'altro e delle differenze . E' la scuola dei progetti multiculturali, del rispetto dell'altro e del rifiuto della prevaricazione. Tutte buone intenzioni. Ma come si fa a dialogare e incontrarsi con l'altro, se non si parte, con tutto lo spirito critico che si vuole, dai propri valori e dalla propria cultura.

Nessun commento:

Posta un commento