lunedì 16 marzo 2015

Alfonso Giordano narratore

di Tommaso Romano

Da quasi un trentennio ho il privilegio del rapporto intellettuale intessuto di stima e ammirazione con Alfonso Giordano uomo, magistrato, memorialista, studioso e docente di diritto, poeta.
Uomo di qualità e di alto spessore morale, non scevro – fortunatamente – da senso dell’humor e da una certa sua filosofia della vita, che me lo hanno sempre fatto apparire come esponente di una solida tradizione umanistica, ereditata anche da un ethos familiare di primordine, eppure autonomo, originale. Le due prove poetiche di Alfonso Giordano, rappresentano ora, - ai miei occhi di lettore di tante pagine… - una sorte di eccellente preparazione a questo libro di narrazioni dal titolo forse ammiccante, data l’alta esperienza e professionalità dell’Autore.
Tuttavia, ben altra saporosa sorpresa mi ha donato la lettura partecipe del libro: mi sono reso, quasi subito, conto che la materia a cui mi accostavo, era di grande pregio, scintillante di un linguaggio forbito, elegante, a volte ricercato nei vocaboli desueti, eppure cosi ben incastonati nel testo scorrevole, sempre sorvegliato e al contempo tessuto laboriosamente, come un tappeto-preghiera d’Oriente. Certo, la conoscenza e la biografia dell’Autore mi hanno portato ai testi narrativi, di vario spessore, di giuristi e avvocati: da Ugo Betti a Giuseppe Guido Lo Schiavo, da Giuseppe Maggiore e Luigi Maniscalco Basile. Trascurando, forse, i tanti contemporanei che, forti di apparati mediatici ed editoriali, inseguono e forse interpretano taluni “segni dei tempi”, in realtà non proprio paradigmatici. Su tutti, però, oltre a Pirandello di cui si dirà, è balzata in me la figura e l’opera di Gesualdo Bufalino – con cui ho avuto la fortuna dell’incontro e di scambi epistolari – uno scrittore rivelatosi in età matura, con talune barocche assonanze con il nostro Giordano.
Rivelazione di uno scrittore autentico è stata questa di Giordano, capace già, con i presenti racconti, di stare a fianco di altri scrittori ben consacrati al tempo, più che alla cronaca della repubblica delle lettere. Un merito che voglio sottolineare anche per l’intrapresa editoriale che segna i buoni libri dell’editore Carlo Saladino.
Gli otto racconti, con un epilogo finale, mostrano subito la rara capacità di un possesso pieno del canone linguistico classico, senza per questo essere fuori dalla controversia lessicale odierna e tuttavia superandola con un stile che sa imporsi, con gradevole discrezione, fornendo al lettore il sigillo della chiara leggibilità, con ironia e leggerezza.
Pagine terse dove si incunea la grande cultura di Alfonso Giordano che non manca di citare Proust e Kierkegaard ed anche, il per me nodale, Jean Anouilh, l’autore non dimenticato de “I pesci rossi”. Accanto a questi vorrei inoltre idealmente ricordare e accomunare Jonesco e Camus e fra gli italiani Tozzi e Ardengo Soffici.
La lezione di Pirandello, prima ricordato, è appunto lezione per Alfonso Giordano, non tanto e non solo un ripercorrerne i passi, gli stilemi.
Già nel breve racconto d’esordio “La signora grande” in una sintesi espressiva che molte parentele ha con l’elzeviro, che il nostro Autore pratica come genere, con ottimi esiti peraltro (vedi il recente testo “Incontrai la Patria” che gli ho pubblicato su «Il Sigillo on line») Alfonso Giordano ci narra di una vegliarda sopravvissuta al marito seppellito già in vita tra i suoi libri, alla figlia vedova “morta in tempo per lasciarle il rammarico di esserle sopravvissuta”, capace di ricapitolare agiatezza e ricchezza. La signora grande sul letto di morte, non provoca che ingordigia ai figli che come estranei e belve affamate se ne spartiscono già i lasciti quando un segno, un rumore ne fa echeggiare ancora la presenza-assenza, il timore.
“L’onomastico” è il titolo del racconto che segue, ed è riconoscimento di una solitudine profonda del protagonista che si esalta nella impressionistica pennellata letteraria e sentimentale dice l’Autore stesso, della proprietaria della pensione che ospita colui a cui si nega perfino un augurio. Ecco l’immagine della “porporeggiante avvenenza, in tutta la sua succosa procacità”, come una fetta d’anguria siciliana. Ecco il paradosso tutto pirandelliano che ritroviamo anche ne “La vendetta di Teofilo Folengo”, dove fra goffaggini presunte, frequentando l’alta società viene fuori l’orgoglio leonino di chi sa - oltre Moravia e Marcuse – (già oggi dimenticati) del Baldus e dell’Orlandino, mettendo a tacere così lo snobismo, la noia colmi d’ignoranza.
La citazione in epigrafe di Pascal “L’ultimo passo della ragione è di riconoscere che ci sono un’infinità di cose che la sorpassano” ben apre «L’altro di quando nevica» uno dei racconti più riusciti per invenzione e per sottile indagine psicologica, del libro di Giordano. Anche in questo caso sogno e forze telluriche si evidenziano in un doppio che si manifesta come caso e, a volte, come destino. Scrive Giordano: “bastava che in un particolare momento decisivo della vostra vita, voi aveste scelto d’imboccare una via anziché un’altra perché voi diventaste un altro, totalmente diverso da quello che siete”. E ciò vale per il carattere, le opinioni, i tabù di tutto un modo di vivere in uno specifico ambiente che determina l’emergere dell’altro che è in noi, in potenza e a volte in atto.
Le illusioni che metaforicamente, ma non troppo, emergono anche ne “La carta” ove fantasmi e lusinghe si mischiano, fino al rintocco della coscienza.
“Storia di un pelo” è una narrazione simbolicamente assai riuscita, del pelo bianco e lungo che si manifesta in Matteo sull’avambraccio e che può cagionare, se estirpato, dolore e morte. Fra rimpianti e sorde gelosie si architetta così un folle crimine, in una spirale incalzante di inganni, capaci di tenere avvinto il lettore, in una sorta di fiaba-apologo che sfocia nell’atto gratuito, nello svelamento di sé, a quella che agli altri appare follia, nell’”obliterazione della memoria”, nell’oblio e nella noncuranza dell’atto veritativo.
“Il ritorno in Sicilia”, con sottotitolo vivere è viaggiare, riporta ai luoghi nostri a Palermo, al tema dell’assenza e a quello del ritorno, con mordaci bozzetti che richiamano vizi e virtù dell’isolamondo, fra descrizioni del dopoguerra difficile e i begli schizzi di musicale liricità, “per una Sicilia primaverile”: “Il cielo di puro cobalto era sgombro di nuvole ed il mare era tutto un incendio di atomi luminosi palpitanti come strane lucciole d’oro. La città che mi veniva incontro, primo lembo di Sicilia dopo tanti anni, di fronte, sembrava voluttuosamente affondare le braccia nel mare che le lambiva con l’amorosità di una carezza”. Oltre le vicende e le trame, basterebbe la frase prima ricordata per darci la sensazione, la certezza di essere veramente in presenza di uno scrittore autentico.
Nelle “ore rutilanti”, nel “torrente delle rimembranze” si ci trova soli nel ritorno alla terra, alla ricerca di un senso non sempre decifrabile nella metamorfosi e negli interrogativi di cui va e poi ritorna, imperiosamente. Rifacendo il periplo dell’esistenza, comunque essa sia, anche nella molteplicità degli stati in cui si connota l’umano. Ritornare all’origine può essere quindi un’opzione, anche riscoprendo il linguaggio della terra madre.
Giungiamo così al lungo racconto che dà il titolo al libro “Un giullare alla corte della mafia”. Spunti autobiografici pur presenti, non impediscono all’Autore di guardare senza stereotipi a persone che pur restando minori nello scenario tragico e assai violento della mafia, vanno indagate oltre i codici. È il caso di Salvatore Cupani di Corso dei Mille che entra di soppiatto nel mondo della cosiddetta onorata società e, dopo una serie di vicende, che lasciamo alla lettura, si pente e decide di collaborare, senza però trarre beneficio se non la beffa e la conseguenza di vivere come un barbone, fino alla resa, alla morte liberatrice.
Sullo sfondo, gli anni Ottanta, l’omicidio Dalla Chiesa, il Maxi-processo di cui, come noto, fu Presidente coraggioso e degno il dottor Alfonso Giordano, che è un uomo esemplare che la storia di Sicilia può già annoverare.
Il libro si conclude con un racconto che in realtà è una sorta di esame di coscienza, rispetto proprio ai personaggi che hanno abitato il libro e che ora s’incontrano davanti al cospetto dell’Autore quasi a chiedergli una ragione, un motivo di quella vita che gli è stata data.
In cerca d’Autore, si potrebbe dire, pirandellianamente o ricordando come egli fa, Flaubert.
E ancora, però, il guizzo di Alfonso Giordano plasma una visione del mondo, della vita, meno casuale di un ritratto e più in consonanza con ciò che in effetti lega, anche senza avvertirlo, le maschere di protagonisti e comprimari dell’esistenza in una sorta di gioco a nascondere.
La rivolta degli “inconsueti” personaggi, oltre l’angoscia che è in realtà un vero e proprio incubo, apre al finale thriller che lascia ulteriori porte aperte.
Al narratore, di questi racconti, che un sommo critico quale è Giorgio Barberi Squarotti definisce “curiosi e via, via fantasiosi e giocosi”, bisogna conclusivamente aggiungere il pensoso umanista che nel racconto “Il ritorno in Sicilia”, cosi scrive: “Quale segreta, insondabile molla fa sì che le nostre vite ruotino, splendono e si spengano poi, come la luce di certe stelle? E chi assegna i tempi, i modi della nostra permanenza su questa terra? A quale misterioso disegno esse sono destinate? Lo sapremo mai, avremo un giorno le logiche risposte a questi inquietanti interrogativi o tutto ciò resterà un’irrisione tragica, uno scherzo atroce?”.
Su questi interrogativi, che tutti ci riguardano, basiamo la speranza di poter leggere il romanzo che Alfonso Giordano, sicuramente presto ci donerà.

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