di Giuseppe La Russa
Il romanzo H-Ombre–S, del palermitano Guglielmo Peralta, racconta una storia
certamente particolare, a tratti sfuggente, incorporea, diafana: personaggi
della letteratura mondiale (tra gli altri, Odisseo, Beatrice, la Sonja di
Dostoevskij, Pinocchio ecc..), imprigionati in un luogo che è di fatto un
non-luogo, quello della fantasia dei loro autori e che Peralta, con suo
neologismo, definisce Soaltà, tentano
il salto verso la vita vera, quella degli uomini reali, verso la realtà
concreta e tangibile, nonostante sia avvertita da tutti come «troppo carica di
nefandezze e colpe mondane». Il motivo per cui devono tentare questa fuga è
l’umanità di cui essi stessi sono partecipi, poiché i loro autori, coloro che
li hanno creati, li hanno rivestiti di ogni residuo e frammento che l’essere
umano trascina inevitabilmente con sé. Dunque, un romanzo che nell’opposizione
sogno-realtà (è questo lo scioglimento del termine Soaltà) vede la sua matrice, la sua colonna portante: da questa si
dipanano diverse opposizioni, pesantezza-leggerezza, materialità-spiritualità,
immanenza-trascendenza che, in ultima analisi, a quella Soaltà fanno capo. Dunque, già nell’accenno della trama e della sua
struttura dicotomica, si può notare come ogni pagina si muova su un equilibrio
precario, a volte inconsistente, a volte difficile da stabilire? Come, allora,
può reggersi in piedi una narrazione lunga 180 pagine? Ci viene in soccorso
Italo Calvino con una delle sue Lezioni Americane, quella sull’esattezza, di
cui si riportano brevissimi stralci di certo illuminanti: «Esattezza vuol dire
per me», scrive l’autore di Palomar,
«soprattutto tre cose: 1) un disegno dell’opera ben definito e ben calcolato;
2) l’evocazione di immagini visuali nitide, incisive, memorabili, icastiche; 3)
un linguaggio il più preciso possibile. Perché sento il bisogno di difendere
dei valori che a molti potranno sembrare ovvi? Credo che la mia prima spinta
venga da una mia ipersensibilità o allergia: mi sembra che il linguaggio venga
sempre usato in modo approssimativo, casuale, sbadato, e ne provo un fastidio
intollerabile».
Ora, in Peralta, un disegno dell’opera ben
definito e calcolato è di necessità vitale, visto quell’equilibrio precario di
cui si diceva: senza di esso il romanzo non potrebbe tenersi e in piedi, mentre
lo sguardo dall’alto dell’autore
consente alla pagina di scorrere in maniera lineare e senza fuoriuscite.
Inoltre, ci troviamo di fronte ad un cultore della parola, ad un autore che ha
fede nella sua capacità evocativa, nella sua possibilità eterna di generare, di
partorire segni e significati: ecco perché la scelta di ogni significante non
può essere lasciata al caso. Ogni termine ha con sé un significato innanzitutto
particolare che, vedremo, sarà, in virtù di ciò, capace di aprirsi
all’universale. Così ogni pagina: Peralta carica ogni foglio di un significato
che appare ultimo, definitivo, massimamente pregnante, ad ogni voltar di pagina
sembra svelare la fine, salvo poi tornare indietro; come ogni parola anche ogni
pagina è portatrice di una individualità di significato che diventerà un Tutto.
Dunque, si può bene vedere, nell’attenzione calviniana al linguaggio, possiamo
intravedere già la cifra stilistica che sottende al libro di Peralta: infatti
la forma che lo scrittore sceglie per il suo romanzo è perfetto specchio della
storia raccontata, di una storia che si muove tra il concreto delle parole e il
diafano, l’incorporeo delle immagini e situazioni.
Ma torniamo un attimo a Calvino e alla sua
apologia dell’esattezza. Come contraddittore ideale della sua tesi sceglie, in
un primo momento, Giacomo Leopardi, per cui, com’è noto, più la parola è vaga
ed imprecisa, più ci si avvicina alla poesia; ma, ci fa notare Calvino, dopo
l’elenco leopardiano (estrapolato dallo Zibaldone)
di situazioni propizie allo stato
d’animo “indefinito”, quello che il poeta recanatese richiede da noi per farci
gustare la bellezza dell’indeterminato è «una attenzione estremamente precisa e
meticolosa che egli esige nella composizione d’ogni immagine, nella definizione
dei dettagli. […] Dunque Leopardi, che avevo scelto come contraddittore ideale
della mia apologia dell’esattezza, si rivela un decisivo testimone a favore. Il
poeta del vago può essere solo il poeta della precisione, che sa cogliere la
sensazione più sottile con occhio, orecchio, mano pronti e sicuri». E ancora:
«La poesia dell’invisibile, la poesia delle infinite potenzialità
imprevedibili, così come la poesia del nulla nascono da un poeta che non ha
dubbi sulla fisicità del mondo».
In particolar modo quest’ultima frase ci
appare estremamente densa e capace di tracciare la via da seguire nell’analisi
del romanzo peraltiano: se l’autore di H
– ombre – s nutrisse un solo dubbio
sulla realtà che fa da retroterra e retroscena all’incorporea storia
raccontata, davvero, come si diceva prima, la narrazione non potrebbe reggersi
in piedi. Dunque una materialità che è premessa sostanziale e necessaria e che
viene testimoniata da questa attenzione meticolosa al linguaggio, una premessa
che può, in tal modo, raccontare una storia fatta di corpi-non corpi,
luoghi-non luoghi: uno stile, si vede, specchio perfetto delle vicende del
romanzo, perché come i personaggi si muovono in questo spazio che è tra sogno e
realtà, fra materiale e immateriale, immanente e trascendente, così accade
anche con il linguaggio adoperato.
Svariati sono i temi trattati, diversi gli
ambiti sfiorati dai personaggi che ravvivano il racconto, dal tema “infinito”
dell’Amore, dalle opposizioni pesantezza-leggerezza, anima-corpo,
materialità-spiritualità, immanenza-trascendenza, ma si tratta, possiamo
constatare, di opposizioni che sembrano partire da una stessa matrice, quella
che abbiamo già anticipato e che è traducibile nel termine Soaltà. Il punto
essenziale qual è, allora? Il punto d’approdo. Se le opposizioni che reggono il
testo sono queste, se la fuga dei personaggi risulta a più riprese difficile,
quale sarà lo scioglimento finale e che significato avrà?
Ѐ nella loro aspirazione alla fuga, però,
che troveremo la risposta e l’esito finali: la vita vera è sì guardata come il
luogo della pesantezza, del fardello continuo, a differenza della leggerezza e
spiritualità in cui “vivono” le ombre, ma a quella materialità i personaggi non
possono che aspirare, non possono che tendere, mantenendo così fede all’umanità
di cui i loro autori li hanno rivestiti nelle avventure libresche. In uno
stralcio, a p. 49, si legge: «La pesantezza, avvertita attraverso gli occhi
spalancati sulla “realtà” li fa
sentire umani, troppo umani: carichi delle nefandezze e delle colpe mondane;
attratti dalle passioni, dagli agi, dalle trasgressioni, dal potere costituito
in ogni sua forma, dai beni materiali, ma protesi anche verso le alte vette
dello spirito. […] Ma nella lotta tra la leggerezza e la pesantezza, tra lo
spirito e la materia, prevalse quel desiderio di fuga, la voglia di essere
umani!»
Ma appare chiaro che quella di Peralta sia
un’allegoria dell’Arte, in generale, della scrittura in particolare (ecco il
perché del riferimento iniziale a Calvino). Parlare di un testo meta-letterario
non mi sembra poi così sbagliato, poiché attraverso la letteratura si parla di
essa e lo si fa con la bocca dei personaggi che alla letteratura stessa hanno
dato vita. Assolutamente illuminante in tal senso è un altro passo del romanzo,
a p. 37. Parla Odisseo, rivolgendosi a Pinocchio, con queste parole: «Caro
Pinocchio, a quest’avventura ti confesso di sentirmi impreparato, perché non
vedo, fuori di qui, terra d’approdo! Noi non siamo nati Ombre per inseguire la
vita ma per rappresentarla agli uomini come in uno specchio, affinché essi
riconoscendosi, attraverso di noi, falsi bruti e bugiardi, si prodigassero “per
seguir virtute e canoscenza” e mettersi in cammino verso la verità, che non è
certamente quella che io “estorsi” alle Sirene e che, essendone dubbioso, andai
a cercare oltre le Colonne perdendo così la mia vita. […]In questa verità più
profonda dobbiamo prendere posto, non con la fuga, ma con la ricerca, la quale
non allontana mai da casa il viandante e gli assicura sempre di ritornarvi»!
Questo è un pezzo che troviamo ad inizio romanzo, ma che già velatamente
anticipa il finale: Peralta ci fa pregustare il quid delle azioni narrate, ogni
volta con un elemento in più, ma non scioglie mai del tutto le riserve. Fa
crescere così la suspense, fa accrescere in noi il desiderio, la smania di vedere.
Sottolineiamo e ricordiamo questa frase: «La
ricerca non allontana mai da casa il viandante e gli assicura sempre di
ritornarvi» (nostra la sottolineatura): è un concetto chiave del racconto,
una fondamentale parentesi che lasciamo volutamente aperta e che riprenderemo
fra poco.
Un elemento che, mi viene in mente nel
parlare del testo di Peralta, è il ‘Mistero’. In che senso?
A p. 174 del romanzo si legge: «Mistero è
la Bellezza che si concede all’ascolto
e nasconde il suo volto nello splendore delle forme infinite della natura e
dell’umana creazione. Cari personaggi, voi pure siete un mistero».
Noberto Bobbio, pensatore morto nel 2004 e
che sempre si definì lontano dalla religione, scriveva come ogni essere umano
si sente immerso nel mistero ed è questa la conditio sine qua non per la
spiritualità, che poi può configurarsi come religione, come filosofia o magari
entrambe le cose. Ora, un autore, teologo molto noto, Vito Mancuso, scrive come
il mistero sia una condizione esistenziale che riguarda la totalità della vita,
che ci avvolge dal di dentro. Inoltre, scrive una cosa molto bella che, a mio
modo di vedere, racchiude bene la condizione dei Personaggi peraltiani: «La
percezione del mistero della vita si dà come inquietudine che attraversa
l’esistenza e che ci fa sentire che non
siamo dove dovremmo essere, e al contempo come meraviglia che pure
attraversa l’esistenza e che ci fa sentire che siamo dove dovremmo essere». Le ombre che popolano il romanzo di
Peralta sono totalmente immerse nel mistero, sono il frutto e il risultato di
questa armonia e disarmonia, è su questa condizione dicotomica che si gioca
tutto l’iter che seguono.
Dunque, allegoria dell’arte certamente, ma
attraverso di essa Peralta filosofeggia sulla vita nostra, di noi che ombre non
siamo e che questa opposizione non solo l’avvertiamo, ma ne facciamo l’essenza
della nostra percezione del mistero che, secondo quanto scrive Mancuso, è il
diapason della nostra spiritualità. Dunque un testo che si apre davvero alla
riflessione, che sembra immateriale ed incorporeo e non fa altro che parlare di
noi, della nostra quotidianità.
E in questa meraviglia, scrive Mancuso,
che ci fa sentire che “siamo dove
dovremmo essere” sta lo scioglimento del nodo, l’exitus delle azioni raccontate in H-ombre-s. Il punto non sta nel dover cercare necessariamente un
luogo verso cui migrare, ma il trovare il Senso della propria vita con le
azioni che si compiono. Ѐ questo, ne sono certo, un insegnamento di vita. Uno
studioso e ricercatore palermitano, Tommaso Romano, direttore della casa
editrice Thule, scrive: «Il Senso del Senso è il Senso che ognuno riesce a dare
alla propria esistenza». Trovando il Senso della propria vita, puoi trovarti
ovunque e non sarai mai in esilio. Potrai invece essere proprio dove vuoi, ma
se non dai e non trovi il senso, sarai sempre esule da te stesso. Ѐ questa la
consapevolezza a cui arrivano i Personaggi del libro di Peralta e lo fanno
attraverso e grazie le parole di Sonja, personaggio di Dostoevskij: «Questo
piccolo liocorno non è qui per ricordarci la nostra fuga, ma per inverare e
mostrarci con la sua sacra figura le ragioni della nostra umbratile esistenza
[…] Come Prometeo, noi doniamo il fuoco agli uomini, portiamo la luce nel
mondo. E per questa luce noi restiamo incatenati e patiamo ogni genere di
sofferenze. Ma dal dolore che ci consuma nasce negli uomini la gioia che ci
rinnova e ci riproduce. Perché gli umani hanno bisogno di storie, di favole, di
poesia, e noi siamo quel pane che si moltiplica e che essi ricevono per la ricchezza
dello spirito»; ed è questo il senso della ricerca, di quella parentesi che
avevamo aperto con le parole di Odisseo: nella ricerca del Mistero, nel
“desiderio di penetrarlo”, scriverebbe Machado, sta IL quid.
Una consapevolezza che avviene nel nome della
Bellezza. Ma non è una bellezza, quella di Peralta, meramente estetica, ma
anche e soprattutto umana, spirituale. Bellezza è Amore, per Peralta, tanto che
una delle più forti teorizzazioni presenti nel testo è proprio quella
sull’Amore, in nome del quale la ricerca può avere senso. Si dice, ad esempio a p. 78 come «Non c’è vero ritorno senza
amore e non c’è salvezza per chi, in solitudine, si salva»! In nome di questa
bellezza, dunque, il dettaglio si scioglie nell’insieme, l’uno trova sede nel
tutto, il particolare nell’universale. A livello stilistico abbiamo detto che
ogni parola, in Peralta, è estremamente icastica, immaginifica, portatrice di
un significato generale: così ogni pagina, incredibilmente densa, anch’essa
portatrice di un messaggio universale. Dunque, così come nello stile e nella
forma, anche a livello contenutistico succede la stessa cosa: ogni personaggio
ha in sé un significato particolare, è portatore di un senso individuale che,
però, si scioglie nell’Universale concetto di Bellezza e di Amore, inteso
proprio come unione, come insieme..
La parola diventa universale, come si può leggere sul finire del romanzo, a p.
174: «Ma la parola, quella che si veste d’infinito e fa gli uomini immensi,
quella ribattezzata nella sacra luce del sogno e che si fa peregrina e passionaria sulla via della Bellezza e s’offre fino alla croce, questa parola
ineffabile e mai taciuta, se per avventura o per grazia liberasse il suo canto
dentro la voce non solo dei poeti ma dell’intero genere umano, allora il mondo
sarebbe un vero Poema, una Divina
Commedia che prosciugherebbe la nostra valle di lacrime»
È questo l’iter che Beatrice consiglia, la
risposta che si dà Sonja, personaggio chiave del racconto ed estrapolato da Delitto e castigo di Dostoevskij: ogni personaggio
troverà la propria risposta nella stesse sede in cui si trova, proprio perché
il singolo è diventato tutto, è diventato insieme.
La loro forza e la loro vittoria stanno nel donare l’immortalità a chi li ha
pensati, a chi li ha generati, come li avverte con accorate parole il ciclope
Polifemo, sul finire del racconto: «Voi siete spirito e figli dello spirito,
generati e non creati dalla Bellezza, da questa Virtù immacolata».
Ogni personaggio si illumina nella
consapevolezza di essere luce nel mondo, «perché gli esseri umani hanno bisogno
di storie, di favole, di poesia, e noi siamo quel pane che si moltiplica e che
essi ricevono per la ricchezza dello spirito». Con i libri e per mezzo di essi
l’uomo può ancora trovare spazio nella soaltà
dei personaggi che legge, lì restare, sciogliersi con essi, diventare parte di
un tutto, un tutto, il cui nome è Bellezza.
Per concludere ciclicamente con Calvino e
una sua frase celebre tratta da Le città
invisibili, «D’ una città non apprezzi le sette o settantasette
meraviglie, ma la risposta che dà ad una tua domanda».
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