di Domenico Bonvegna
E’ passato un
secolo e mezzo da quando è stata “fondata” l’Italia, ma ancora si discute, si
scrive sul perchè non è stata raggiunta quell'unità fortemente voluta dalla
Casa Savoia e da una minoranza illuminata di letterati e poeti che da tempo
cercava di realizzare quel loro sogno proibito.“Appena l’Italia venne messa
insieme con i pezzi raccolti, il Sud si ribellò e ingaggiò una sanguinosa
guerra di secessione. Al Nord i favorevoli all’unità erano poche migliaia, al
Sud anche meno. Trent’anni dopo l’unità, l’Italia era già scossa da tentazioni
separatiste, sia al Nord che al Sud,[…]”. Paradossalmente gli argomenti di
discussione di allora sono gli stessi di oggi: la corruzione civile, la
criminalità organizzata, le clientele politiche, i differenti costumi,
l’assistenzialismo. Sono i temi che affronta Romano Bracalini,
giornalista e storico, in un interessantissimo e ben documentato pamphlet,
pubblicato da Rubbettino nel 2010, “Brandelli d’Italia. 150
anni di conflitti Nord-Sud”.
Il testo tenta di spiegare, senza
nascondere nulla e senza interpretazioni arbitrarie le ragioni del Nord e del
Sud. Bracalini fa una descrizione impietosa, a volte spietata e irritante delle
differenze sostanziali esistenti tra l’Italia settentrionale e quella
meridionale. Il libro ruota intorno alla questione della mancata unità politica
del Paese. Anche se per la verità, nonostante le divisioni, in Italia, una
certa unità esisteva ed era intorno alla fede cristiana. Però Bracalini che a
tratti manifesta segni di anticlericalismo, ignora questo aspetto e anche la
“guerra” nei confronti della Chiesa ad opera dei risorgimentisti.
Comunque sia
per il giornalista, l’Italia era troppo diversa per essere unita in quel modo.
A cominciare dalla lingua,“anziché un ausilio comune, era una barriera. Solo
una minoranza esigua sapeva parlare l’italiano. L’analfabetismo, specie nel
Mezzogiorno, aveva percentuali africane”. Bracalini nel libro si avvale del
parere di innumerevoli storici e studiosi, tra i tanti, Giustino Fortunato,
Gaetano Salvemini, Rosario Villari, Francesco Saverio Nitti, che hanno
affrontato in particolare la questione meridionale, diventata cruciale, e
talvolta, magari affrontata,
appassionatamente e troppo di parte.
Giovanni
Sartori, qualche anno fa scriveva:“L’Italia è sempre stata divisa tra un
Nord ricco e più pulito e un Sud clientelare e povero”. Mentre per
l'economista Luca Ricolfi, “è la frattura tra Nord e Sud a minare il
sentimento nazionale”. Peraltro il 40% degli italiani ritiene che,“l’Italia
non sarà mai una nazione unita perché ci sono troppe diversità economiche e
culturali”. Sembra che al Centro-Nord sia più forte il senso di
appartenenza territoriale. Praticamente dal libro di Bracalini emergono“due
Italie contrapposte e uno stato, specie al Sud, quasi inesistente in cui
predominano le camorre e le clientele sostituite alla sovranità della legge. Un
paese per metà europeo e per metà levantino, dove non funziona nulla (treni,
poste, burocrazia)”. Tempo fa il settimanale britannico,“The Economist”,
ridisegnando la cartina dell’Europa, mette l’Italia settentrionale in una
fantomatica Confederazione del Nord, insieme ad altri Paesi come la Francia,
Germania, Austria. Mentre l’Italia meridionale, farebbe parte della Grecia con
una moneta più debole. Una divisione che assomiglia al modello Belgio. Secondo
Bracalini prima o poi potrebbe accadere, anche perché l’Europa potrebbe essere
divisa diversamente, non più sui vecchi modelli degli Stati-nazione, ma secondo
aree economiche omogenee.
Il testo di
Bracalini parte dal 1861 quando i briganti in nome di Dio e del Re iniziano a
ribellarsi ai nuovi invasori venuti dal Nord. E qui si infrange subito il mito
dell’unità,“i cultori del mito unitario, non potevano ammettere, se non come
reazionaria, l’idea che il Sud ricusasse l’occupazione militare solo perché
essa non rientrava nei desideri dei nuovi sudditi, i quali, trattati da popolo
conquistato, avrebbero dovuto accettarne passivamente tutte le clausole”.
Pertanto i risorgimentisti, infamarono “la ribellione, togliendole ogni
carattere di legittimità; nessun principio di decoro venne riconosciuto ai
‘briganti’, termine col quale vennero designati malfattori e gente
rispettabile; nelle rappresaglie non si fece distinzione tra plebe e signori,
borghesi e preti”.
Il brigantaggio
per i novelli liberatori,“appariva come l’ultimo sussulto del passato che
andava stroncato senza pietà, un movimento funesto e feroce nemico dell’unità,
della libertà e della vita civile”. Il nuovo Regno è stato costretto a
mettere in campo un esercito poderoso come se dovesse combattere una guerra tra
Stati. Le efferatezze e le brutalità di un esercito di conquista non ebbero più
fine. Alla fine fu“una guerra di sterminio così orribile di ferocia che si
dovette e si deve ancora nasconderla alla storia”.
Massimo
D'Azeglio ha avuto il coraggio di dire la verità: per tenere il Regno ci
vogliono 60 battaglioni. In pratica la popolazione meridonale rifiuta
l'”Italia”. Così contro l'ipocrisia degli unitari, che preferivano parlare di
generica “guerra al brigantaggio”, D'Azeglio, con la consuetudine franchezza,
parlava di “insurrezione antiunitaria”. Tuttavia per Bracalini era
chiaro che “il popolo meridionale aveva tutto il diritto di scegliere la
forma politica che più desiderava, e non per questo essere tacciato di
reazionario, solo perchè non desiderava sottostare a un governo che veniva con
la pretesa di 'liberarlo' senza che nessuno glielo avesse chiesto”.
Praticamente
anche qui al sud si è palesato, quello che è successo per altre guerre: “gli
eserciti di invasione pretendono sempre che i popoli conquistati riconoscono la
superiorità delle loro ragioni”. Così la cosiddetta “guerra al
brigantaggio”, fu anche “una sporca guerra coloniale”, che
per adornarla di buone intenzioni, venne camuffata dietro“la maschera
ingannevole e falsa della missione 'civilizzatrice', prima nel Sud e poi in
Africa”. Per Bracalini addirittura si può parlare di prima guerra di
“secessione” italiana, tra l'altro svoltasi proprio nello stesso periodo
della Guerra civile americana. Con la differenza che in America si combatterono
due eserciti alla pari, qui al Sud Italia, fu combattuta tra due forze impari.
Tra uno Stato baldanzoso militarista e un popolo povero e debole.
Nel 2° capitolo
Bracalini sviluppa la tesi delle due Italie, una sempre avanti e l'altra
indietro. Anche per quanto riguarda la storia del passato remoto,“non c'era
in Europa un altro Paese in cui, in uno spazio tanto esiguo, il Noed e il Sud
esprimessoro sistemi di governo così radiclamente opposti”. Bracalini tra
storia e attualità vede troppi elementi comuni, del resto il libro ha il pregio
di collegare il nostro passato al presente. Giustino Fortunato diceva che
non solo i Borboni erano responsabili del degrado del reame. Una parte non
trascurabile di colpa era anche dei napoletani, 'ai quali non si possono negare
– riconosceva lo stesso Francesco Saverio Nitti – qualità antisociali
notevoli: poco spirito di unione e di solidarietà”, ma anche “mancanza
di educazione industriale e di spirito di lavoro[...]”.Qualcuno dava la
colpa al governo degli spagnoli, ma anche Milano era stata dominata dagli
spagnoli per quasi due secoli. Anche se poi passarono gli austriaci, gli
asburgo. Bracalini mi sembra troppo severo nel giudicare il passato borbonico.
Non è per niente indulgente nel giudizio sui sovrani napoletani. Sicuramente è
lontano da certe leggende auree, create dal nostalgismo borbonico. Secondo lui
c'erano antiche miserie, che dopo furono accentuate dai vari politici e
ministri meridionali, come Francesco Crispi e Di Rudinì, che peraltro furono i
peggiori nemici del Mezzogiorno. Secondo Luca Meldolesi, “la questione
meridionale”, è frutto di tre flagelli: “criminalità, clientelismo,
corporativismo”.
Ma nello stesso
tempo descrive in maniera rigorosa anche la sciagurata politica piemontese,
dello Stato militarista sabaudo, che aveva un debito pubblico enorme a causa
delle numerose guerre intraprese. Il nuovo governo “riuscì solo ad
assicurare più tasse per tutti”. Subito dopo l'unità, il Piemonte era lo
Stato più indebitato e avrebbe dovuto pagare di più rispetto agli altri, “invece
per una stranezza contabile, veniva a pagare, in proporzione, meno del regno
delle due Sicilie, che era indebitato solo per la metà”. Sostanzialmente,
furono dunque i cittadini delle province meridionali ad accollarsi il peso
maggiore del debito piemontese. Oltre al danno anche la beffa per il
Mezzogiorno.“Dopo aver subito l'occupazione 'piemontese' e le distruzioni
che ne erano derivate, parve di dover pagare la propria parte per l'onore di
essere stati presi a fucilate”. Non solo ma secondo Lorenzo Del Boca,
cinquant'anni dopo, sono proprio i “terroni”, cioè i meridionali a dover
pagar, il maggior tributo di morti per l'inutile strage della prima guerra
mondiale.
Comunque sia
per Bracalini, nell'impatto dell'unità, ci ha rimesso il Mezzogiorno, perchè
era più debole. E se vogliamo per certi aspetti neanche per il Nord è stato
conveniente l'annessione del Sud, questo aspetto viene considerato sempre da
Del Boca, nel suo “Polentoni” (2011). “Fra gli sconfitti del
Risorgimento ci sta a buon diritto il Nord. Il Nord vero, quello dei campi e
delle fabbriche, che non soltanto si mantenne ostile a ciò che si andava
profilando[...]”. Del resto, lo stesso Sidney Sonnino, ministro del tesoro,
delle finanze e degli esteri, sull'unità, ha detto: “se questa è l'Italia
era meglio non averla fatta”.
Il libro dà
conto della rivolta separatista di Palermo (1866). Sette giorni intensi
di grandi battaglie per le vie della città. I motivi dello scontento erano
tanti. C'era chi voleva la repubblica indipendente, chi la restaurazione
borbonica, chi chiedeva semplicemente pane e chi protestava per le limitazioni
imposte alle feste di santa Rosalia, o per la soppressione delle corporazioni
religiose. Il sindaco della città, Antonio Di Rudinì, tentò di difendere la
città, ma dovette asseraglirsi nel palazzo reale. Mazziniani, autonomisti,
borbonici, clericali, mafia, si trovarono a combattere sullo stesso fronte.
Per sedare la
rivolta, le truppe del generale Raffaele Cadorna e soprattutto con il
bombardamento per tre giorni di Palermo, da parte di otto navi da guerra
italiane, si riuscì a conquistare la città. “Non tutti erano criminali e la
loro protesta andava compresa”. La repressione fu dura e feroce. Molti
furono i morti da entrambi gli schieramenti. Non si approfondirono le cause
della sommossa. Bracalini, descrive con una certa meticolosità i caretteri
della società siciliana, in particolare delle due città, Palermo e Catania, animate
da evidenti contrasti atavici. L'autore evidenzia nel carattere siciliano una
“insopprimibile sentimento di ribellione”, una alterigia ereditata dagli
spagnoli e una suscettibilità ombrosa ereditata dagli arabi.
Bracalini
ricorda che nell'intento di prevenire altre insurrezioni nel mezzogiorno e in
Sicilia, in particolare, il governo regio, si fece promotore di un progetto di
misure eccezionali di domicilio coatto e deportazione dei “briganti” nelle
Americhe o in qualche remoto Paese asiatico. Addirittura si cercò di costruire
un “carcere per meridionali” nell'isola di Socotra, nel Mar Rosso.
“Brandelli
d'Italia” affronta anche la questione della capitale del nuovo Regno d'Italia.
Dalla documentazione proposta da Bracalini si deduce che Roma è “la non capitale”,
era la peggiore capitale che si potesse scegliere. In questo capitolo, forse
emerge l'anticlericalismo del giornalista. Anche qui Bracalini fa una
descrizione spietata, a tratti irriverente, della società romana e soprattutto
dei suoi governanti. “Roma si accosta troppo al Sud”. “Roma non aveva nulla
delle capitali modello europee, Parigi e Londra, metropoli imperiali di grandi
Nazioni moderne”. Per Bracalini, “Roma doveva restare quale l'avevano
trasformata i secoli: un grandioso parco di rovine in cui pascolavano le
pecore”.
Una città di
sudditi, paurosi e cinici, dove era presente un popolino violento e sboccato,
avvezzo alla contumelia (“ma li mortaci tua” o “fijo de na mignotta”,
erano gli improperi più in voga). Era la peggiore capitale che si potesse
scegliere.
Se l'unità fu
un errore, Roma ne costituiva la riprova.
Il capitolo va
a concludersi con una serie di citazioni di esimi personaggi che certamente non
danno descrizioni positive della città eterna.
Intanto noi ci
fermiamo qui. Alla prossima.
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