In
nome del padre
Trenodia
per i moderni o post-
di Carmelo Fucarino
Nel corso della vita c’è
sempre un momento in cui si sente la necessità e l’urgenza di fermarsi e
cercare di dare un significato al proprio percorso umano, quotidiano e
spirituale, riassumere i fili del nostro essere uomini dotati di intelletto. È
l’esigenza di fare un giro di orizzonte, di guardarsi intorno per rilevare lo
stato di essere, dopo tanti labirinti che si sono percorsi, strade intrecciate
con bivi erculei che abbiamo dovuto scegliere.
E questo è avvenuto nel
percorso culturale e umano di Tommaso Romano. Il giro di orizzonte in un hic et nunc che diviene la conclusione e
la sintesi di tante, numerose, misteriose esperienze, volute e cercate, piovute
casualmente attraverso imperscrutabili segni del destino, incontri letterari
inattesi e imprevisti, conoscenze umane presentatesi senza ordine e preavviso.
Da questo straordinario e
immaginifico passaggio di vita la riflessione e l’affabulazione si sono distese
ed espresse nella poiesis, un “fare”
che è diventato parola sublimata, sintesi allucinata e consolatoria, Verbo che
ha cercato di agglutinarsi nell’essenziale della poesia.
Eppure tanta era la piena
delle riflessioni, tale la ridondanza dei ricordi e delle certezze acquisite
che non è stato sufficiente l’ambito ben “concluso” di una poesia, i pochi
versi distillati di pathos e Idea. Un tempo, al suo nascere, dice la leggenda
per opera di Jacopo da Lentini, il sonetto fu la poesia per antonomasia, due
quartine e due terzine incatenate da rime. Si concesse breve spazio in più al
sonetto caudato. Tutto l’altro era soltanto parola cantata nei balli di corte,
dalla canzone allo strambotto, dalla pastorella alla laude. La musica e il
ballo erano i protagonisti, la parola una traccia rappresentativa di
narrazione. Il tutto canonizzato in strutture ben precise di danza e canto.
Poi per secoli si
mantennero tali strutture fino al lampo di un verso, quell’abbagliante “Mi illumino
di immenso”.
Ora Tommaso non ha
trovato nei ritmi canonici uno spazio sufficiente per la sintesi di un attimo
di vita. Come l’Ariosto dell’ottava che ebbe bisogno di più ottave per
concedersi e concludere le sue fantasie che si gonfiavano a dismisura.
Perciò è tornato ad una
forma alessandrina, a quell’epyllion,
il piccolo poema epico, si dice invenzione di Callimaco, ma nato con lo
pseudo-Esiodo e il suo Scudo,
transitato in Sicilia con Teocrito e Mosco e passato a Roma con Catullo 64 ed
Eurialo e Niso di Virgilio. Certo che erano altra cosa, ma l’input, la scelta “necessaria” era
dettata dal dire, dall’esporre tutto, senza nulla omettere, più che in un
semplice epigramma elegiaco.
E inoltre l’uso
dell’epico esametro, il verso primo in assoluto dal sanscrito ad Omero e
Virgilio. Con il suo ampio respiro, il suo ritmo variegatissimo che riempiva
polmoni e mente.
Così Tommaso Romano ha
organizzato lo sviluppo epico del suo canto, un dilungarsi nelle volute del
pensiero, un accogliere tutti i riverberi e le modulazioni della proteiforme realtà.
Perché in questo è consistita questa analisi del presente, la vivisezione di
una realtà drammatica e angosciante, nella delusione e nel tradimento della
Mente.
Nella diacronia dei
messaggi e dei pensieri forti si parte dal filosofo-poeta, il più grande
pensatore in assoluto, l’unico di tutti i tempi e luoghi, il mio adorato
Platone. Dopo di lui tutto è stato ripetuto, talvolta in un vaniloquio, un
affastellarsi di formule e schemi, complice e pianificatore l’Aristotele dell’ipse dixit. E si oscillò per secoli tra
Idea e Reale, tra Pensiero e Materia, tra Soggetto e Oggetto. Nell’arida
sequenza della prosa scientifica. In questa riflessione sull’esistenza esplode qualche
appello diretto, penso a Emanuele Severino e alla «tecnica non ha vinto… ha
vinto il denaro». Oppure alle «presunte classi / per la rivoluzione del popolo
avvenire», quel comunismo tradito e prostituito ad uso di dittatori folli, vero
oppio dei popoli. Oppure quello sprazzo, la fugace lieve toccata a Die fröhliche Wissenschaft
(La gaia scienza) di Friedrich Nietzsche, «l’uomo è stato redento / da progresso veloce /
da gaia scienza perfetta / che sentenzia», in quella ardua, dolorosa,
disperante e disperata negazione di Dio, che «non solo non c’è mai stato / ma
neppure ha dato e creato / men che meno nella Rivelazione / di sé». E qui mi
fermo in quanto a richiami di fonti.
Tutto
è nel titolo del poemetto, “Nel mio Regno dei Cieli”, un regno in cui risolvere
tutti gli inganni e i tradimenti, un’ancora soteriologica che aspira a salvare
se stessi e il Verbo di Cristo adulterato, mistificato, tradito da tutti,
fedeli e cultori ed utilizzatori di seconda mano. E poi quell’incipit, nell’appello al «tempio
profanato / dalla parola insensata», verso il limes estremo, il confine ultimo, un ipotetico hortus conclusus, il «flusso di pensiero veritativo / di spirito
liberante».
E
da qui mi sono ritrovato in un oceano turbinoso di être et néant, un nebbioso fantasma di realtà vituperata ed
esecrata, la quotidianità presente e la sua immediata fulminea negazione, senza
scampo alcuno. Dalla prima strofa il “lontano restare / e finalmente abiurare”,
con la dirompente e dissacrante “dichiarazione mendace”, quella del primo
fondante comandamento del “Buon Annunzio”: “amare il prossimo mio”. Dal Cristo
della rivoluzione di amore al tropos di vita del filosofo greco,
innominato, ma quale “filosofo e greco”, «per incensare le vostre miserie / le
pseudoscienze delle vostre frustrazioni», etc.
E le odi alla luna e il crollo fragoroso e lo smarrimento dell’umano, e
gli «oligarchi senza bandiera / peggio di tiranni»,
incapaci di fondare libertà anche dentro di se stessi. In questa desolante mistificazione
si impone il relativismo imperante, «tutto è il nulla annunziato / nel deserto
dei cuori», miseria ogni conquista per rapaci avvoltoi. E nel nulla del relativismo
precipita anche Dio, «parola senza significato», fra tanti Dii ove «tutto è
verità / anzi nessuna verità». E alla fine del terribile nulla, ove anche
Cristo è venuto per nulla, sfrattato e strumentalizzato, «non conti nulla»,
«non mischiarti», in questa delirante ossessione di laicoagnosticoateo
dell’ovvio perbenismo, tra l’indifferenza dei ministri di culto non credenti e
chierici stanchi. È l’abiura e l’assenza dello “Spirito smarrito”, “apolidi e
contaminati”. E ancora quel martellante “quanto mai” sull’esser civili,
sull’equità del diritto, sulla felicità, “tutto falso /favola”, quelle di una
volta, bambini «col giglio e marsina». L’appello a Platone sul “procreare”,
«solo consegnare numeri / ai mercanti dello sfruttamento» nel provvisorio
squallore del riuso impossibile. L’essere in quanto produttore e frodatore, il
mondo dei pochi veri potenti, nella sconfitta della maggioranza roussoiana (il
funesto equivoco della volontà dei più e volontà generale), volontà questa che
“mai ha contato”. Si erge solo Faust, in una nuova “distinzione” e “selezione”,
non di razze e colori, ma di presunta capacità / di sicura efficienza / di
straordinaria destrezza», nuovi potenti «che odiano il genere umano / i piccoli
e gl’indifesi». Il senso comune che è spento come una candela, neppure ridotta
a fioca luce. E in questo massacro delle ideologie e delle speranze il ritorno
all’eterno eraclitiano πάντα
ῥεῖ (panta rei), il
mondo che continua, il flusso che non si ferma, neppure un ingranaggio, le
lacrime da coccodrillo, la promessa mantenuta di spoglie cremate, l’inutile
pianto di foscoliana memoria, quello che ci farebbe vivere in eterno. Anche gli
eremi sono snaturati in una visita per turisti a gettone, ove non conta più
pregare o flagellarsi, testimoniare in numeri la fede, non conta il «testimone
isolato /cantore di Verità», perché «la verità non esiste… l’apocalisse è
soltanto un testo letterario». E come potremmo noi vivere senza colui che è la
Parola, la Verità, la Vita? Nell’estrema e completa negazione l’esigenza di
tesaurizzare, non sprecare il tempo a pensare, non favoleggiare sul futuro, si
sta lavorando per allungarlo. Per render ancor più drammatica questa speranza
di eternità l’ironia, corrosiva e irridente sui tecnici del corpo che
manipolano e promettono secoli di eternità. Perciò «lavora / produci di più»,
non esiste stanchezza in una età media in aumento nell’alveare assegnato. In
questa società di sovrani senza scettri e corone, “in tanta bassezza, dolore
profondo e sorriso di bimbi abbandono di vecchi “inservibili”, nulla scuote il
torpore del mondo. Non poteva esserci una trenodia più raccapricciante del
nostro vivere. Il nulla assoluto in cui nulla si salva di questo pazzo correre
verso il nulla.
E allora? Il terribile,
angoscioso, problematico “che fare?”. Non quello pragmatico di Lenin a
Stoccarda (Что делать?, Čto delat', 1901-1902), nella ripresa
allusiva del romanzo di Nikolaj Gavrilovič
Černyševskij, scritto nella prigionia della fortezza di Pietro e Paolo tra il
1862-63. Un “che fare” profondo, esistenziale, da crepuscolo degli dei e fine
del mondo. La tragicità delle conclusioni sta già in quel fermo riconoscimento
di essere «fra liberi viandanti / sfruttati e senza diritti». Con una sola via
di uscita, desolante e priva di ardire davanti ai venditori di fumo: “il
tacere” davanti agli spacciatori di false monete e di nichilistiche intese per
«darsi da sé un minuscolo senso / che consenta a sopravvivere / finché
possibile», il dantesco «non ragioniam di loro, ma guarda e passa». Ma è
possibile ridurre questo effimero passaggio sulla terra a una semplice
questione di “sopravvivenza”? Meglio non esistere o finirla ad età di ragione,
se non si può incidere su questo scorrere inconsulto con la Parola.
Perciò
il bergsoniano élan vital,
lo stimolo della vita (bios parente
di bia, “forza” e “violenza”) a
“resistere”, verbo possente che richiama inconsapevolmente una fase storica e
un essere stati italiani in quella lotta di liberazione dai nazisti. Oltre alla
residua consentita sopportazione e senza illusioni, «forti soltanto / di ciò
che siamo / e di ciò che noi sapremo essere / ben oltre, / i vicoli ciechi».
Non
poteva esserci epigrafe più forte e liberatoria in questo deserto di sentimenti
e di Idee, in cui una voce proclama la sua Verità, voce che grida nel deserto.
Sulla trenodia, sul necrologio dell’essere, si erge l’uomo che oppone il petto
contro le tormente dell’esistenza.
Questo
ho potuto e voluto riassumere nel breve e scattante spazio di un file.
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