di Francesco
Abbate
L’opera di Giovanni Taibi si
presenta come un romanzo della memoria e della nostalgia, memoria dei luoghi,
delle persone, delle emozioni un tempo vissute, persino degli odori e dei
sapori del passato, avvolti nell’aura fatata della nostalgia.
Salvo è il protagonista unico del
romanzo, pur non essendone l’io narrante, e tutta la vicenda metatemporale che
lo riguarda si snoda essenzialmente sui suoi ricordi passati e sullo svolgersi
delle sue sensazioni presenti, in un gioco di luci e di ombre che ininterrottamente
emergono dal passato e lambiscono il presente. La focalizzazione assoluta sul
personaggio Salvo quasi indebolisce lo status
narrartivo degli altri personaggi, i quali appaiono e scompaiono unicamente in
riferimento egotico al protagonista.
Salvo è un medico quarantenne, un
siciliano affermato che vive a Milano dai tempi degli studi universitari e che
è diventato addirittura primario di neurologia al San Raffaele. Dall’inizio dei
suoi studi egli non è più ritornato al paese natale (mai nominato dall’autore),
come se quei luoghi – un tempo amati – potessero evocare in lui dolori mai
estinti o far rinascere passioni mai sopite.
In una sera qualunque, prossima al
Natale, Salvo riceve una telefonata dagli anziani genitori che gli annunciano
l’imminente matrimonio del fratello minore, Vincenzo. Salvo, a quel punto, non
può più evitare un imminente ritorno in Sicilia.
Salvo giunge in una sera d’inverno,
nel paese della sua infanzia e della sua adolescenza. In Taibi non c’è la
Sicilia letteraria che siamo avvezzi ad immaginare. Salvo non arriva d’estate (topos letterario fin troppo abusato) né
arriva in un paese di mare. Arriva in un piccolo paese collinare, quasi di
montagna – facilmente assimilabile a Baucina, che è il paese natale dello
scrittore – e arriva di sera, tra le curve delle strade disagevoli, il freddo e
le luci di Natale.
Il tutto appare come una
regressione inconsapevole all’infanzia, ad un vissuto fanciullesco che precede
il trauma dell’amore ferito. Salvo si riscopre bambino a ricordare i piccoli
riti familiari e collettivi che caratterizzavano il Natale paesano: le comitive
dei parenti, l’allegria, i giochi, l’emozione nello scartare i regali, il
sapore rassicurante dei dolci di Natale e persino il freddo (contrastato con
mezzi tradizionali) che induce al sonno e alla pace domestica.
Il giro mattutino mette in luce
analogie e differenze con il passato e le diversità si evidenziano in maniera
più vistosa sul versante umano, ancor più che su quello paesaggistico.
L’emigrazione di massa ha colpito il paese che appare abitato soltanto da
anziani o da pochi “superstiti” come l’edicolante o il barista. Se, da un lato,
Salvo è profondamente cambiato, non da meno è mutato il luogo che lo ha visto
nascere.
Tra gli amici “superstiti” ben acclimatati
appare in scena Mario: l’amico d’infanzia, il fedele custode dei valori della
famiglia e della collettività paesana. Mario è ciò che Salvo sarebbe stato se
avesse scelto di restare e Salvo rappresenta quel che Mario avrebbe potuto
essere qualora avesse scelto di partire. Ma ognuno sceglie il proprio destino!
Mario è diventato un insegnante di
materie letterarie, in servizio presso la locale scuola media, ha una moglie
bella ed innamorata ed è padre di due figli. Salvo, invece, si è versato
soltanto sul lavoro, non si è mai sposato – o quanto meno non ha mai
intrattenuto stabili relazioni con l’altro sesso – rinunciando persino all’amore
rassicurante dei propri genitori e alla vicinanza del proprio fratello.
Salvo e Mario rappresentano due
destini talmente antipodici da apparire quasi irrealistici, eppure appaiono
comunque come due facce della stessa medaglia. Mario vive nella pace domestica,
in perfetta (e quasi irreale) armonia simbiotica con la moglie, singolarmente
bella come una diva ma, al contempo, perfetta casalinga che cucina bene e
sforna dolci. Mario è totalmente appagato della propria condizione e non cerca
nulla al di là del proprio nido.
A partire da questo punto il
romanzo si avvolge verso l’interno anziché svolgersi verso l’esterno.
All’interno della propria vecchia stanza da adolescente il protagonista
rinviene una scatola sigillata, nella quale sono custodite le proprie memorie
dai 15 ai 19 anni: foto, lettere, un diario e tre racconti dattiloscritti.
Lo scienziato neo-positivista cede
a poco a poco il passo ad un giovane romantico, sognatore ed irrazionale,
risvesgliato dal passato come da un lungo sonno. Continui flash-back irrompono
nella narrazione e, tra i bagliori e le oscurità del passato, emerge
chiaramente il volto di una donna: Anna.
Anna è una figura muliebre
idealizzata e sfuggente, che incarna un amore platonico e non corrisposto. Ella
rappresenta un vissuto amaro che non si è concretizzato, evocando Gozzano
potremo dire che Anna è “la rosa non colta”, una realtà che poteva essere e non
è stata. Eppure quell’amore mancato, quell’occasione perduta, ha impedito al
protagonista un’adeguata maturazione psico-affettiva.
Anna appare in scena soltanto
attraverso i ricordi del protagonista, come un fantasma dell’immaginazione che
viene dal passato. Anna era nella realtà dei fatti la figlia di emigrati
paesani che rientrava in paese, assieme ai genitori, durante l’estate. Anna non
ha corrisposto allora l’amore di Salvo e, in un certo senso, ella appare nella
sua essenza di donna come assolutamente incapace di amare.
La
donna in Taibi, come il Dio di
Plotino, è oggetto di amore ma è
incapace di amare. Così come Anna, le protagoniste dei tre racconti,
incastonati nel romanzo, sono incapaci di generare amore, suscitando nella
controparte maschile soltanto amarezza e disperazione, che conducono alla morte
dell’uomo-amante (nel primo racconto, L’uomo
felice) o alla follia (nel secondo racconto, Delirio d’amore), o ad un’impossibile redenzione (nel terzo
racconto, Percorsi di una vita).
Lasciato il paese, subito dopo il
matrimonio di Vincenzo, il protagonista – come preso da un’ebbrezza
sentimentale, dovuta al tuffo nel passato – decide di cercare Anna. Egli sa che
ella si è sposata e che vive in un paese alle porte di Roma.
Salvo parte per questa strana
ricerca del proprio passato nel presente, ma alla fine non incontra Anna e
neppure si adopera molto per ricercare quell’incontro. Si limita a guardare i
luoghi della sua vita, gli esterni della sua casa, il marito. Dopo aver
respirato la sua aria, Salvo va via, distruggendo per strada la scatola dei
suoi ricordi. Anna non appare nella realtà neppure alla fine; Salvo l’avrebbe
vista sciupata dagli anni e dalle fatiche di ogni giorno: egli sembra preferire
che Anna resti unicamente l’immagine più bella del suo perduto sogno d’amore.
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