di Francesco Virga
Stefano Vilardo è noto,
soprattutto, per Tutti dicono Germania
Germania. Poesie dell’emigrazione (Garzanti 1975, Sellerio 2007). Un
capolavoro che, malgrado la fortuna che ha avuto, non ha finito di dire tutto
quello che, ancora, ha da dire.
In tutti i libri che Vilardo ha
scritto, anche in quelli più lirici e, apparentemente, lontani dalle sue più concrete
esperienze, il maestro di Delia ha sempre finito per parlare della sua vita,
delle persone che ha incontrato lungo il suo cammino, del suo amore per i
libri, la cultura e la cucina popolare siciliana, della sua intatta capacità di
meravigliarsi ed indignarsi.
Ne Le nevi di una volta . Racconti, Thule, Palermo 2016, sono stati raccolti, con l’attenta cura di
Giuseppe Saja, dieci brevi racconti del maestro di Delia (CL). La maggior parte
di essi, per la verità, erano già stati pubblicati in luoghi diversi. L’idea di
raccoglierli in un unico volume, con qualche piccola variante, ci è sembrata
felice perché questi racconti si tengono per mano tra loro e ognuno non è altro
che una tessera dello straordinario mosaico della sua vita e della sua opera.
Particolarmente bello ci è apparso
il primo, forse l’unico vero inedito, - intitolato Oh, sì, che mi ricordo!- che descrive con giovanile vivacità il
viaggio in automobile, compiuto nel 1963, da Caltanissetta a Bagheria, insieme
all’inseparabile Leonardo Sciascia (Nanà
e Stestè si sono chiamati
reciprocamente, fin dall’adolescenza e poi per sempre, i due inseparabili
amici), per andare a vedere una delle prime mostre fotografiche del giovane
Ferdinando Scianna che, allo scrittore di Racalmuto, offrì più di uno spunto
per scrivere, due anni dopo, uno dei suoi testi più dirompenti sulla visione
materialistica della vita del popolo siciliano (Le feste religiose in Sicilia,1965).
Il racconto di Vilardo si snoda tra
ricordi che oscillano continuamente tra passato e presente, con punte di
autentico lirismo quando descrive il paesaggio naturale di quegli anni: « Eravamo in piena primavera […]. Il cielo
era un celeste prato macchiato appena da qualche cirro. Le Madonie rilucevano
di ramati bagliori che si sprigionavano dai martoriati calanchi che la furia di
vecchie e nuove intemperie avevano scavato.» (pag. 17)
Particolarmente efficace e puntuale
la descrizione dell’incontro con il poeta Ignazio Buttitta: « come una tromba
d’aria, come un ciclone, ci investì il Poeta, u pueta ,come affettuosamente era chiamato dai suoi compaesani, che
ci trascinò, gesticolante e vociante, nella sua putia di esperto salumiere: pile traballanti di stuzzicanti
canestrati, rosari di salsicce stagionate, salumi, pancette, tocchi di
profumatissimo lardo, e cacciatorini, cacicavalli, prosciutti, mortadelle,
pendevano come stalattiti dalla concava volta della salumeria. Poeta e
salumiere? Sì, e che c’è di strano! Voltaire, letterato, filosofo, storico…era anche
un fortunato e avveduto capitalista.[…] E Rimbaud poeta in gioventù – e che
poeta! – poi divenne commerciante di armi e, si dice, di schiavi. » (pp. 18-19)
. Il ritratto che in queste righe Vilardo fa del poeta di Bagheria è davvero
uno dei più corrispondenti alla realtà che siano mai stati fatti.
Indimenticabile la descrizione dei tradizionali scambi di saluti con la gente
del paese che incrociavano: «Ossa
binidica, Pueta» […] E u pueta,
con la sua solita allegria, maliziosamente rispondeva: Santu figliu e fatti arrassu. Oppure con un pizzico di maligno
piacere: Lu Signuri ti sbiddica!- (pag.
19).
Da questi splendidi racconti
autobiografici emergono i mille volti di Vilardo, il suo faticoso processo di
formazione, dai tempi in cui si sentiva solo un saccu di vastuni, al decisivo suo primo incontro con Leonardo
Sciascia ( favorito da una provvidenziale bocciatura che lo fece diventare
compagno di banco di Nanà alle
Magistrali di Caltanissetta, prima, e amico fino al suo ultimo giorno di vita
descritto in modo toccante in uno di questi racconti Settembre), la sua giovanile gioia di vivere accompagnata sempre da
un pessimismo quasi leopardiano.
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