di Guglielmo Peralta
Questa parola, questo segno
senza spessore, che la scrittura creativa carica di significati e che perciò si
fa corpo e anima; che si fa verso: che
si volge come girasole alla sua
sorgente nascosta sembra essere,
tuttavia, in contraddizione con la Poesia che resta un puro nome, un universale
che, per dirla con i nominalisti, è privo di realtà ontologica riducendosi a un
mero nome, a un fatto linguistico, a un linguaggio che non lo parla, non lo
esprime. Ne deriva che la parola stessa, con la sua "architettura
geometrica", in quanto non riesce a cogliere la rosa e la nomina soltanto, è solo un significante che rimanda
eternamente a un "oggetto" che non ha un'esistenza assiomatica; che resta inafferrabile, fuori
dal "piano geometrico" e dallo spazio fisico che contiene le cose
materiali, come accade con gli oggetti della vita reale che c'illudiamo di
possedere nominandoli. Se, dunque, la parola è solo un flatus vocis, la sua "geometria", invalidata dalla natura
ineffabile della rosa, è relativa, non vera, come non sono più considerati veri i principi della geometria dopo
Euclide. Eppure questa rosa ha
la magica virtù di rendere possibile la parola, il linguaggio poetico, che,
anche se
non le è proprio, tende a comporla disponendo le parole come petali e assumendone
in qualche modo il profumo. Se, come dice Miguel de Unamuno, citato in epigrafe
nell'ultimo testo della raccolta, «ciò che non è eterno / non è reale», la
Poesia che ha il crisma dell'eternità è assolutamente reale e totipotente nella sua unità
indifferenziata. Infatti, essa si evolve, dà origine alle "cellule"
delle parole, che, coltivate nel giardino del sogno, imitano i frutti celesti e
aspirano ad acquistare la forma della rosa,
ad essere esse stesse questo fiore, simbolicamente presente nel paradiso di Dante e che qui, in questa
silloge, è "forma geometrica" disegnata e cresciuta nel tessuto del
sogno; essenza odorosa, invisibile agli occhi e tuttavia percepita
come forma organica e reale. Perché "Il sogno", che fa parte della
"geometria della rosa" è intuito dalla Rando «come proiezione della
realtà. La realtà come proiezione del sogno». Se sogno e realtà sono
interscambiabili, se «non ci sono fratture incolmabili tra il reale e
l'immaginario, tra la vita e il sogno», allora deve esserci un'identità, o
quanto meno, una somiglianza o corrispondenza tra la parola e il suo fiore, tra
l'immagine della rosa sognata dalla
parola e
la rosa stessa. Se è così, « "Non" stat rosa pristina nomine,
nomina nuda "non" tenemus»[1]
(la rosa primigenia «non» esiste solo come nome, noi «non» possediamo nomi nudi).
Allora, la parola che nomina ha un senso e ha il potere di fare essere le
«cose», di dare loro un senso, a sua volta e di operare il cambiamento. E così
la vita, che si affida alla parola poetica, acquista senso e verità, può
conquistarsi il suo spazio sacro nella geometria delle forme e oltre il loro
spazio, e può aspirare ad essere essa stessa la rosa se non cessa di aspirarne il profumo, di berne l'essenza dal suo calice. «Come un pendolo
la vita oscilla tra la veglia e il sonno, tra il detto e il 'non detto', il
comprensibile e l'incomprensibile, l'orrido e il sublime». La "geometria"
è questa duplice polarità: positiva e negativa, che descrive le linee, i
percorsi, gli aspetti, i casi opposti della vita; ed è la matassa da dipanare,
il labirinto, dove c'è sempre qualcosa da sacrificare, un filo da seguire per
un cammino più sicuro, per navigare migliori acque sognando approdi felici qui
sulla terra, piuttosto che inseguire esistenze fantasma dietro gli «echi
segreti di cosmi lontani». Perché è stando con i piedi sulla terra che possiamo
«incielarci». E il mezzo per spiccare il volo è la parola, il «verbo» che si fa
custode del sogno e «accende abbatte / il muro dell'esilio / per inseguire
ancora... / forse... una promessa / una speranza».
La
vita oscilla, soprattutto, tra due forze distinte e contrapposte: il Logos e il Pathos. Esse regolano l'animo umano e corrispondono,
rispettivamente, alla parte razionale e irrazionale. Nella sezione intitolata
"I corpi dell'ombra", queste due forze non sono del tutto in antitesi
perché la ricerca dell'equilibrio tende ad eliminare il loro contrasto, a
"pacificarle" indirizzandole a produrre forme armoniose contro «limiti,
linee di separazione, caos». È la poesia a conciliare ragione e sentimento, luce
ed ombra, spirito e materia, vita e morte. E lo fa con la natura, che esplode
in un tripudio di luci, suoni, colori, profumi, forme, a compensare la
fragilità umana, l'«ombra di un cuore muto»; a portare la gioia, la «promessa
d'infinito / parola inestimabile» che rompe il silenzio con «lampi" di
parole, con «voce di accecante mistero», dove l'anima si accampa e attende
nuovi «orizzonti». Ma sempre disattesa è la promessa in questa silloge in cui
le sezioni, le parti che la compongono costituiscono un corpo unico, in un
crescendo d'immagini, di pensieri, di stati emotivi, di illusioni, di dubbi, di
contrasti, di chiaroscuri: di ombre rischiarate dalla luce, di luce determinata
dall'oscurità. Sono
le «umane cose» spesso ad animarsi, a respirare dentro le parole con le quali
ci vengono incontro, quasi a chiedere o a rivelare «il messaggio non colto»; è
la natura inanimata: la dura «roccia» a destare «i giorni pallidi e stanchi»
che, col concorso del vento, acquistano «ali dorate», e la «pietra» che espelle
il «silenzio (...) / dal grembo verginale» come se volesse farsi gravida e
leggera di parole. Risvegliate dalla parola poetica, le cose rivelano la loro natura
di ombre, per la quale acquistano uno spessore più vero. Perché "in
principio" è l'ombra. Essa è all'origine di tutte le cose ed è la loro
vera natura. Prima della luce accecante. Riconoscere la natura ontologica
dell'ombra è lasciarsi "ingannare" dal mito della caverna platonica,
cioè comprendere che non c'è inganno
nel mito; significa vedere «nel solco dell'ombra» l'essere delle cose e (non)
restare prigionieri della verità, dove prigione e libertà si equivalgono. Così
ritrovare l'infanzia in un ritratto è lasciare fluire e rifluire i sogni
dall'ombra in cui si sono ritirati e racchiusi. E l'ombra è la luce che abbiamo
vissuto e che il tempo ha dissipato. Il passato è la caverna che abbiamo
abitato ed è la casa dove fare ritorno. Perché è lì che siamo nati e cresciuti:
nella notte, nel buio, nell'inconsapevolezza del giorno. È lì che «gli anni
bianchi» ci sono stati «rapinati / dal sole, dall'aria / dall'acqua / dal fuoco»,
dagli elementi essenziali che compongono
e fanno festosa la nostra natura umbratile, mutata in miraggio, in «barlumi».
Nella luce accecante abbiamo smarrito la Parola, che si è fatta silenzio e ombra,
«oscurità raggrumata». Componiamo con la rosa
petali di luce. Ma la rosa non
sboccia nel canto della parola. Il silenzio è «notte bianca», senza sogni,
eppure «cinge qualcosa d'altro / intorno all'ombra di una gioia / che vuole
sopravvivere / al dolore del niente». Più grande è lo smarrimento quando il
dolore si fa quotidiano e reale e gronda «sangue d'innocenti», quando irrompe nella
vita dell'umanità tutta e la sprofonda in un abisso, dal quale le sarà
difficile risalire. Qui la "rosa" è recisa dalla sua
"geometria" che solo può descrivere il vuoto e il caos del mondo, dove la Parola è esiliata
e perduta, ogni sua orma cancellata. «Orfana d'infinito», smarrito l'umbratile
orizzonte, la sua mappa celeste, la
parola poetica declina nel silenzio che la sovrasta e copre la sua voce
implorante, la quale resta senza risposta: «arcane parole dislocano / (...)
stanchi giocolieri / in sillabe si sgretolano / e scolorando la terra / invano
cercano / mappe in cielo». E anche se «nell'anima umida» di pianto
attecchiscono e «gemmano» parole di conforto sussurrate dalla divina oscurità, la vita si trascina nel suo «tacito dolere», e più non
l'abita l'ombra o il sogno in fuga dall'insopportabile luce dell'alba. Perché
nella luce si accampa il nulla e «muore la parola». Solo «non muore il silenzio».
Resta, «senza eco», in ascolto «all'ombra delle rose»: delle parole che re-spirano «tra profumi e veleni». Fuori
dalla caverna, dalla «franta dimora», esiliato nel caos esistenziale e nel labirinto delle parole, nella cui assoluta
incomprensione e relatività collassa la "geometria della rosa", l'essere cerca una chiarità nella quale oltrepassarsi per ricreare intorno a sé un cosmo: un nuovo «ordine dell'esistere», «in
sogno e in veglia», nell'agognata condizione di oscurità rischiarata e di luce
determinata dall'oscurità, per dimorare, cioè, nella luce dell'ombra. Ma dura è
la lotta tra la vita e «la morte» che «cresce a dismisura» e non risparmia il
pianto agli uccelli e alle stelle, sì che la natura partecipa a tanto dolore in
questo nostro tempo disumano. In un mondo alla deriva, che ha dissipato tutti i
sogni, la rosa è il sogno da
coltivare per il godimento degli occhi e dell'anima; affinché con la rosa, simbolo del mistero della
fioritura, fioriscano la Bellezza, l'Amore, la Vita. Essa è la Parola ed è la
Poesia. È l'essere che si oppone al nulla che avanza. È luce ed ombra. È
l'ordine del cosmo e il mistero mistico. Soprattutto, è il dono che a noi si
offre nella sua spontaneità pur restando
ineffabile. Il suo sbocciare è un semplice "schiudersi da sé" senza
la consapevolezza di esistere e di essere vista. Così è la poesia, la parola
poetica. Essa accade semplicemente. Come «la rosa è senza perché, fiorisce
poiché fiorisce, di sé non gliene cale, non chiede d'esser vista». In questi
versi di Angelus Silesius, posti in epigrafe nella parte quarta, si coglie lo
spirito dell'intera silloge della Rando, dove il fiore è lo spazio della creazione e la sua scrittura: il "giardino"
dove, all'ombra dell'invisibile rosa,
fioriscono le parole, le belle rose spontanee e ignare di esistere. Tuttavia, desiderose del loro fondamento, «le rose
cessano di essere le rose e vogliono essere la Rosa» [2]. Perché la
Poesia è «l'essenziale invisibile agli occhi» [3], ma non al
cuore e, in quanto tale, degna di avere la sua residenza nel mondo e di abitare
il cuore dell'uomo.
[1]
La locuzione latina è stat rosa
pristina nomine, nomina nuda tenemus ("la rosa primigenia
esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi"). Essa è una
variazione di un verso del De contemptu mundi
di Bernardo Cluniacense, monaco
benedettino del XII secolo e deve la sua fortuna a Umberto Eco
che ne ha fatto l'ultima frase del suo romanzo Il nome della rosa.
[2] J. L. Borges
[3] Antoine
de Saint-Exupéry, Il piccolo principe
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