mercoledì 29 marzo 2017

Giuseppina Rando, "Geometria della rosa" (Ed. Aletti)

di Guglielmo Peralta    


 Il tema dominante di questa silloge annunciato fin dal titolo: Geometria della rosa, è "la parola" che, metaforicamente, assume il nome del fiore, e con questo quell’idea della perfezione e dell’infinito, che è uno dei significati della rosa nella simbologia medievale. Questa parola che s'inciela in virtù della metafora, somiglia tanto al Verbo quanto alla Poesia perché, a sua volta, è segno tangibile e vero della creazione, mediante il quale l'uomo tenta di dare un ordine al mondo. Questa parola è un concetto primitivo, comprensibile, come lo sono in geometria il punto, la retta, il piano; ed è un principio generale evidente, un assioma che, con le sue forme e figure diverse cerca di tracciare le linee di composizione e rappresentazione simbolica della realtà fisica, ma anche e soprattutto di quella realtà altra, ineffabile, che va oltre la misura o dimensione dello spazio letterario; oltre le forme del testo e del linguaggio poetico che Giuseppina Rando pone in parallelo con la geometria.
        Questa parola, questo segno senza spessore, che la scrittura creativa carica di significati e che perciò si fa corpo e anima; che si fa verso: che si volge come girasole alla sua sorgente nascosta  sembra essere, tuttavia, in contraddizione con la Poesia che resta un puro nome, un universale che, per dirla con i nominalisti, è privo di realtà ontologica riducendosi a un mero nome, a un fatto linguistico, a un linguaggio che non lo parla, non lo esprime. Ne deriva che la parola stessa, con la sua "architettura geometrica", in quanto non riesce a cogliere la rosa e la nomina soltanto, è solo un significante che rimanda eternamente a un "oggetto" che non ha un'esistenza assiomatica; che resta inafferrabile, fuori dal "piano geometrico" e dallo spazio fisico che contiene le cose materiali, come accade con gli oggetti della vita reale che c'illudiamo di possedere nominandoli. Se, dunque, la parola è solo un flatus vocis, la sua "geometria", invalidata dalla natura ineffabile della rosa, è relativa, non vera, come non sono più considerati veri i principi della geometria dopo Euclide. Eppure questa rosa ha la magica virtù di rendere possibile la parola, il linguaggio poetico, che, anche se non le è proprio, tende a comporla disponendo le parole come petali e assumendone in qualche modo il profumo. Se, come dice Miguel de Unamuno, citato in epigrafe nell'ultimo testo della raccolta, «ciò che non è eterno / non è reale», la Poesia che ha il crisma dell'eternità è assolutamente reale e totipotente nella sua unità indifferenziata. Infatti, essa si evolve, dà origine alle "cellule" delle parole, che, coltivate nel giardino del sogno, imitano i frutti celesti e aspirano ad acquistare la forma della rosa, ad essere esse stesse questo fiore, simbolicamente presente nel paradiso di Dante e che qui, in questa silloge, è "forma geometrica" disegnata e cresciuta nel tessuto del sogno; essenza odorosa, invisibile agli occhi e tuttavia percepita come forma organica e reale. Perché "Il sogno", che fa parte della "geometria della rosa" è intuito dalla Rando «come proiezione della realtà. La realtà come proiezione del sogno». Se sogno e realtà sono interscambiabili, se «non ci sono fratture incolmabili tra il reale e l'immaginario, tra la vita e il sogno», allora deve esserci un'identità, o quanto meno, una somiglianza o corrispondenza tra la parola e il suo fiore, tra l'immagine della rosa sognata dalla parola e la rosa stessa. Se è così, « "Non" stat rosa pristina nomine, nomina nuda "non" tenemus»[1] (la rosa primigenia «non» esiste solo come nome, noi «non» possediamo nomi nudi). Allora, la parola che nomina ha un senso e ha il potere di fare essere le «cose», di dare loro un senso, a sua volta e di operare il cambiamento. E così la vita, che si affida alla parola poetica, acquista senso e verità, può conquistarsi il suo spazio sacro nella geometria delle forme e oltre il loro spazio, e può aspirare ad essere essa stessa la rosa se non cessa di aspirarne il profumo, di berne l'essenza dal suo calice. «Come un pendolo la vita oscilla tra la veglia e il sonno, tra il detto e il 'non detto', il comprensibile e l'incomprensibile, l'orrido e il sublime». La "geometria" è questa duplice polarità: positiva e negativa, che descrive le linee, i percorsi, gli aspetti, i casi opposti della vita; ed è la matassa da dipanare, il labirinto, dove c'è sempre qualcosa da sacrificare, un filo da seguire per un cammino più sicuro, per navigare migliori acque sognando approdi felici qui sulla terra, piuttosto che inseguire esistenze fantasma dietro gli «echi segreti di cosmi lontani». Perché è stando con i piedi sulla terra che possiamo «incielarci». E il mezzo per spiccare il volo è la parola, il «verbo» che si fa custode del sogno e «accende abbatte / il muro dell'esilio / per inseguire ancora... / forse... una promessa / una speranza».
       La vita oscilla, soprattutto, tra due forze distinte e contrapposte: il Logos e il Pathos. Esse regolano l'animo umano e corrispondono, rispettivamente, alla parte razionale e irrazionale. Nella sezione intitolata "I corpi dell'ombra", queste due forze non sono del tutto in antitesi perché la ricerca dell'equilibrio tende ad eliminare il loro contrasto, a "pacificarle" indirizzandole a produrre forme armoniose contro «limiti, linee di separazione, caos». È la poesia a conciliare ragione e sentimento, luce ed ombra, spirito e materia, vita e morte. E lo fa con la natura, che esplode in un tripudio di luci, suoni, colori, profumi, forme, a compensare la fragilità umana, l'«ombra di un cuore muto»; a portare la gioia, la «promessa d'infinito / parola inestimabile» che rompe il silenzio con «lampi" di parole, con «voce di accecante mistero», dove l'anima si accampa e attende nuovi «orizzonti». Ma sempre disattesa è la promessa in questa silloge in cui le sezioni, le parti che la compongono costituiscono un corpo unico, in un crescendo d'immagini, di pensieri, di stati emotivi, di illusioni, di dubbi, di contrasti, di chiaroscuri: di ombre rischiarate dalla luce, di luce determinata dall'oscurità. Sono le «umane cose» spesso ad animarsi, a respirare dentro le parole con le quali ci vengono incontro, quasi a chiedere o a rivelare «il messaggio non colto»; è la natura inanimata: la dura «roccia» a destare «i giorni pallidi e stanchi» che, col concorso del vento, acquistano «ali dorate», e la «pietra» che espelle il «silenzio (...) / dal grembo verginale» come se volesse farsi gravida e leggera di parole. Risvegliate dalla parola poetica, le cose rivelano la loro natura di ombre, per la quale acquistano uno spessore più vero. Perché "in principio" è l'ombra. Essa è all'origine di tutte le cose ed è la loro vera natura. Prima della luce accecante. Riconoscere la natura ontologica dell'ombra è lasciarsi "ingannare" dal mito della caverna platonica, cioè comprendere che non c'è inganno nel mito; significa vedere «nel solco dell'ombra» l'essere delle cose e (non) restare prigionieri della verità, dove prigione e libertà si equivalgono. Così ritrovare l'infanzia in un ritratto è lasciare fluire e rifluire i sogni dall'ombra in cui si sono ritirati e racchiusi. E l'ombra è la luce che abbiamo vissuto e che il tempo ha dissipato. Il passato è la caverna che abbiamo abitato ed è la casa dove fare ritorno. Perché è lì che siamo nati e cresciuti: nella notte, nel buio, nell'inconsapevolezza del giorno. È lì che «gli anni bianchi» ci sono stati «rapinati / dal sole, dall'aria / dall'acqua / dal fuoco», dagli elementi essenziali che compongono e fanno festosa la nostra natura umbratile, mutata in miraggio, in «barlumi». Nella luce accecante abbiamo smarrito la Parola, che si è fatta silenzio e ombra, «oscurità raggrumata». Componiamo con la rosa petali di luce. Ma la rosa non sboccia nel canto della parola. Il silenzio è «notte bianca», senza sogni, eppure «cinge qualcosa d'altro / intorno all'ombra di una gioia / che vuole sopravvivere / al dolore del niente». Più grande è lo smarrimento quando il dolore si fa quotidiano e reale e gronda «sangue d'innocenti», quando irrompe nella vita dell'umanità tutta e la sprofonda in un abisso, dal quale le sarà difficile risalire. Qui la "rosa" è recisa dalla sua "geometria" che solo può descrivere il vuoto e il caos del mondo, dove la Parola è esiliata e perduta, ogni sua orma cancellata. «Orfana d'infinito», smarrito l'umbratile orizzonte, la sua mappa celeste, la parola poetica declina nel silenzio che la sovrasta e copre la sua voce implorante, la quale resta senza risposta: «arcane parole dislocano / (...) stanchi giocolieri / in sillabe si sgretolano / e scolorando la terra / invano cercano / mappe in cielo». E anche se «nell'anima umida» di pianto attecchiscono e «gemmano» parole di conforto sussurrate dalla divina oscurità, la vita si trascina nel suo «tacito dolere», e più non l'abita l'ombra o il sogno in fuga dall'insopportabile luce dell'alba. Perché nella luce si accampa il nulla e «muore la parola». Solo «non muore il silenzio». Resta, «senza eco», in ascolto «all'ombra delle rose»: delle parole che re-spirano «tra profumi e veleni». Fuori dalla caverna, dalla «franta dimora», esiliato nel caos esistenziale e nel labirinto delle parole, nella cui assoluta incomprensione e relatività collassa la "geometria della rosa", l'essere cerca una chiarità nella quale oltrepassarsi per ricreare intorno a sé un cosmo: un nuovo «ordine dell'esistere», «in sogno e in veglia», nell'agognata condizione di oscurità rischiarata e di luce determinata dall'oscurità, per dimorare, cioè, nella luce dell'ombra. Ma dura è la lotta tra la vita e «la morte» che «cresce a dismisura» e non risparmia il pianto agli uccelli e alle stelle, sì che la natura partecipa a tanto dolore in questo nostro tempo disumano. In un mondo alla deriva, che ha dissipato tutti i sogni, la rosa è il sogno da coltivare per il godimento degli occhi e dell'anima; affinché con la rosa, simbolo del mistero della fioritura, fioriscano la Bellezza, l'Amore, la Vita. Essa è la Parola ed è la Poesia. È l'essere che si oppone al nulla che avanza. È luce ed ombra. È l'ordine del cosmo e il mistero mistico. Soprattutto, è il dono che a noi si offre nella  sua spontaneità pur restando ineffabile. Il suo sbocciare è un semplice "schiudersi da sé" senza la consapevolezza di esistere e di essere vista. Così è la poesia, la parola poetica. Essa accade semplicemente. Come «la rosa è senza perché, fiorisce poiché fiorisce, di sé non gliene cale, non chiede d'esser vista». In questi versi di Angelus Silesius, posti in epigrafe nella parte quarta, si coglie lo spirito dell'intera silloge della Rando, dove il fiore è lo spazio della creazione e la sua scrittura: il "giardino" dove, all'ombra dell'invisibile rosa, fioriscono le parole, le belle rose spontanee e ignare di esistere. Tuttavia, desiderose del loro fondamento, «le rose cessano di essere le rose e vogliono essere la Rosa» [2]. Perché la Poesia è «l'essenziale invisibile agli occhi» [3], ma non al cuore e, in quanto tale, degna di avere la sua residenza nel mondo e di abitare il cuore dell'uomo.




[1] La locuzione latina è stat rosa pristina nomine, nomina nuda tenemus ("la rosa primigenia esiste solo nel nome, possediamo soltanto nudi nomi"). Essa è una variazione di un verso del De contemptu mundi di Bernardo Cluniacense, monaco benedettino del XII secolo e deve la sua fortuna a Umberto Eco che ne ha fatto l'ultima frase del suo romanzo Il nome della rosa.
[2] J. L. Borges
[3] Antoine de Saint-Exupéry, Il piccolo principe

Nessun commento:

Posta un commento