di Sandra Guddo
Con la crisi del postmodernismo si
apre, in Italia e nel mondo, una nuova stagione
narrativa in cui si registra una rinnovata attenzione verso l’analisi
della società umana sia a livello locale che globale. L’intellettuale
riacquista la sua autorevolezza proponendo alla nostra attenzione temi che ci
riguardano da vicino e di fronte ai quali non possiamo più permetterci di
restare indifferenti ma risulta
necessario, se non urgente, prendere
consapevolezza dei problemi che mettono
a rischio i fondamentali della nostra stessa civiltà: terrorismo internazionale,
immigrazione clandestina, traffico di stupefacenti, inquinamento, smaltimento
dei rifiuti tossici e quella miriade di attività illegali che favoriscono la
corruzione di una classe dirigente sempre più lontana dai valori più pregnanti
delle ideologie che le sottendono.
In particolare nel nostro paese,
proprio in quella realtà che Giancarlo Licata descrive magistralmente, c’è in
atto un vero e proprio golpe strisciante che ha cambiato in peggio il volto del
paese, assicurando la vittoria del nichilismo sui valori fondamentali tra i
quali vanno, innanzitutto, recuperati la rettitudine morale ed il senso del
dovere.
Sulla scia di grandi scrittori e giornalisti
come Walter Siti e Roberto Saviano, a mio parere, si pone l’opera di Giancarlo
Licata “ Il volo dell’allodola “ , che, con toni meno sanguigni ma altrettanto
efficaci, pone il lettore di fronte al dramma di una società malata che ha
dimenticato i più elementari valori della convivenza civile.
In particolare, Egli si sofferma ad
esaminare le nostre periferie degradate e dimenticate, prive di centri di aggregazione
sociale e culturale; la mancanza di centri di recupero e di integrazione per sbandati, bulli e “ teppistelli
“ di borgata, favorisce la criminalità organizzata che arruola, ancora
giovanissimi, questi ragazzi, divenuti facile
preda e li invischia nelle loro attività
illecite, regalando loro il sogno di una vita facile, piena di soldi, di
potere e di quell’effimera evasione
dallo schifo in cui si trovano a vivere, attraverso l’uso sempre più devastante
degli stupefacenti.
Alla borgata, divenuta così vero e proprio
quartiere dormitorio, che si limita ad offrire ai residenti soltanto i servizi
essenziali, si contrappone la città “ indifferente “ ai disagi dei
borgatari, a cui mancano gli stessi servizi assicurati agli altri cittadini,
creando una disuguaglianza inaccettabile da parte dello Stato, in questo caso
assente.
A Borgo S. Fedele, nome quanto mai
stridente con la realtà che rappresenta, la situazione è particolarmente grave
perché non è neanche assicurata la regolare fornitura dell’acqua. Se poi a questo
si aggiunge la temuta soppressione della linea dell’autobus “ Centidiciannove “,
l’unica che collega il borgo al centro città, la situazione può diventare
esplosiva ed è quello che accadrà nella borgata determinando, di conseguenza,
un salto di qualità in negativo tramite l’intervento di una potente
organizzazione malavitosa, rappresentata, nel romanzo, da un misterioso uomo in
doppiopetto blu che, utilizzando la
microcriminalità presente nel territorio, tenterà di trasformare quella parte
della periferia in una zona franca dove sarà possibile curare affari oscuri ed
interessi illeciti, come il traffico della cocaina proveniente dal Sudamerica,
il traffico dei clandestini anziché di armi o della prostituzione ed anche lo
smaltimento di rifiuti tossici ospedalieri. Una fitta trama di affari oscuri dove
le forze malavitose del luogo, sempre più allargate, si coniugheranno con gli
affari internazionali e la globalizzazione. In tal modo, il bulletto di borgata
verrà utilizzato come fattorino alla
dipendenze dell’organizzazione che va, in giro,
trasformato in un crudele venditore di morte , con la sua “ Alfa
romeo coupé rossa ritoccata, ma non troppo in modo da non solleticare
l’attenzione della polizia “ ed il boss della borgata diventerà un
intoccabile.
Su questo scenario narrativo si
muove la storia di un povero ragazzo di borgata: Giovanni, un sedicenne con una
particolare disabilità cognitiva
compensata dalla geniale capacità di calcolo , che, nei momenti di difficoltà e
di incomprensione di una realtà di cui non riesce a leggere tutte le righe,
vola come l’allodola verso il cielo, in alto per ritrovare la serenità insieme
al suo compagno immaginario “ Valentino “ a cui si aggrappa per trovare la
giusta risposta ai suoi quesiti irrisolti o con cui si diletta nel difficile gioco
della fantasia.
Il gioco
diventerà sempre più arduo e complicato da gestire, quando Giovanni
entrerà in contatto con la città indifferente : le due realtà che, fino ad
allora si erano ignorate, daranno vita ad uno scontro aperto che culminerà in
tragedia. Lo sconfinamento di territorio nella borgata di S. Fedele di due
giovani amici e compagni di scuola di Giovanni, appartenenti al mondo dorato
della città, dovrà essere punito in modo esemplare dai teppisti locali. Una
tragedia annunciata che Giovanni aveva
intuito ma a cui non riuscirà a porre rimedio.
Sembra quasi uno scontro di civiltà
dove il controllo del territorio, divenuto “ giostra delle impunità “
appare prioritario rispetto al valore stesso della vita e progettare un omicidio,
per quei “ teppistelli “, elevati
ormai al rango di spietati delinquenti , diventa banale come dare ” la caccia ai gatti.”
Ecco allora che il nostro scrittore
si mostra un profondo conoscitore del disagio giovanile che racconta in modo
magistrale in una delle pagine più convincenti della sua opera.
Altrettanta maestria Giancarlo
Licata rivela nella descrizione di Antonella Valenti, madre di Giovanni e voce
narrante del libro: è una donna sciatta e delusa, costretta da un incomprensibile
senso del dovere, ad un matrimonio con un uomo molto più grande di lei e con
cui non ha progetti da condividere, condannata ad una squallida esistenza dove
la sua femminilità appare mortificata. Anche lei, come un’allodola cerca
altrove, in un mondo parallelo, una via di fuga che realizza attraverso l’amore
adulterino verso Giorgio detto “ Spina “,
boss della borgata. Il mondo segreto di Antonella, con le sue inquietudini e le
sue passioni, è raccontato da Giancarlo Licata con estrema efficacia e colpisce
la sua straordinaria conoscenza dell’animo femminile, diviso, in tal caso, tra
senso del dovere, trasgressione e amore incondizionato verso il figlio. Anche
la figura di Franco, il marito, rappresenta per lo scrittore un’occasione
imperdibile per tuffarsi nella realtà italiana ed analizzarne le patologie, in
quel delicatissimo passaggio tra la prima e la seconda repubblica dove tutte le ideologie, di destra
o di sinistra, sono in una forte crisi di identità e di credibilità a causa
della corruzione dilagante. Un uomo disincantato e disilluso, fortemente
consapevole dei limiti della politica e dei sindacati di cui pure, un tempo,
era stato un convinto sostenitore.
La narrazione veloce e puntuale
nella ricostruzione dei fatti cronologicamente attestati, non rinuncia a
soffermarsi su alcune tematiche care all’autore come la dissertazione sul
valore assoluto della memoria senza la quale un popolo sarebbe “ un
popolo senz’anima “ o il significato del pentimento etico degno di
perdono e del pentitismo. L’amore giovanile che, in un libro di denuncia civile
ed intellettuale come questo, sembrerebbe non potere trovare spazio, viene
invece trattato ampiamente e sapientemente attraverso il racconto delicato,
quasi elegiaco, dell’innamoramento tra Walter e Martina, tale da avvicinare la
sua prosa alla più alta poetica dei sonetti del dolce stilnovo.
La scrittura per il nostro autore è il modo
migliore per tuffarsi nelle patologie del nostro tempo ed analizzarle ma anche
per ridarci, attraverso le parole del professore Diacono, la speranza che la
cultura ci può salvare dalla dissoluzione totale, quando, rivolgendosi ai suoi
studenti, ripete che “ dovete sapere, sapere, sapere. Solo alla
fine del percorso sarete in grado di decidere con la vostra testa e fare le
vostre scelte. E non dimenticate ( … ) la voglia di sognare. Se sarete abili,
potrete conoscere, per poco tempo, o per molti anni, cosa sia la felicità. “
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