di Giuseppe La Russa
La
poesia di Barberi Squarotti va letta proprio in questa direzione, ela silloge Avventure dell’anima appare figlia di
questo continuo “accumulo” che spazio e tempo hanno contribuito a formare. Ciò
si denota nell’attento sguardo sull’esistenza, sui vari particolari, anche
minimi, della realtà, nell’esigenza forse pascoliana di nominare ogni cosa,
affinché la parola poetica possa essere significante pienamente aderente al suo
significato, pur sfumata nella sua indeterminatezza e vaghezza: oggetti,
paesaggi che balzano vividi sulla pagina, realizzati nella loro concretezza, ma
che al tempo stesso profumano di ricordi, di
evanescenti e diafani pensieri, che si sfumano nella loro immaterialità.
Da
queste poche osservazioni si può evincere la matrice stilistica che avvolge Avventure dell’anima, ultimo testo
poetico di Barberi Squarotti ed edito da Thule e in cui avvistiamo questi forti
sedimenti, questi piccoli detriti depositati dal fiume inarrestabile della
letteratura, classica e moderna,in cui scorgiamo brevi scintille capaci di
esplodere, di informare la pagina di un forte lirismo capace, però, di vivere –
si diceva - attraverso ogni oggetto più quotidiano, di ogni depositarsi del
reale; nasce così – bene esplicitato nella prefazione al libro di Vanessa
Ambrosecchio – quella «incontenibile urgenza di teatralizzare a ogni pagina il
dramma tra finzione e realtà, fra presente e possibile, fra reale e vero», si
plasma una poesia che è al contempo concretezza e distacco, realtà e sogno,
sfuggevole spiritualità e carnale concretezza: binomi opposti, ma che sulla
pagina trovano spazio e si traducono nell’onnipresente immagine della donna,
cerniera tra anima e corpo, cielo e terra, spesso rappresentata nuda, come nel
testo L’aquila che vede una ragazza svestita
affermare tra quattro filologi che discutono del Cielo: «Io sono la messaggiera
degli dei, o , meglio, devo dire di Dio in terra». Come appare ancora nella
prefazione di Vanessa Ambrosecchio, il risultato è di una realtà certamente
«riscontrabile ma allucinata: non a caso le visioni di Barberi Squarotti sono
sempre circoscritte con diaristica precisione dall’indicazione di data e luogo,
proprio come se si trattasse di annotare eventi reali».
Si
potrebbe dedurre, a questo punto, che è questa l’idea di poesia che Barberi
Squarotti promuove, ossia di una attività creatrice, di una forza primigenia
capace di leggere e plasmare la realtà, capace di rendere visibili e tangibili,
tramite «l’alta fantasia», situazioni oniriche, lande trasognate, lacerti di tempo
mai vissuti. Sarà proprio per questo che i testi che leggiamo siano densi di
riferimenti puntuali, che descrivano con precisione momenti e luoghi: la parola
diventa così chiave di accesso ad una realtà, è via conoscitiva, è poesia essa
stessa.
E
per manifestarsi nella sua gloria, la parola poetica deve farsi densa, vivida, nitida,
corposa: ecco, la corporalità appare come tratto peculiare di questa poesia.
Se
il sugello di un momento conoscitivo – cui la poesia conduce – è il nutrimento
dello spirito, quel nutrimento stesso non può che passare prima dal corpo,
dagli occhi, dallo sguardo, dall’esperienza tattile. Viene in mente un verso di
una celebre poesia dell’amato D’Annunzio, La
pioggia nel pineto, in cui il poeta fa letteralmente ”vedere” la pioggia
che cade e che si schianta sulle “mani ignude”: il contatto con il corpo,
espresso in una poesia dall’architettura fonico e semantica mirabile, è la conditio
sine qua non per arrivare al contatto estremo e panico con la natura, è
quello il primo passo per l’accesso la mistero.
Si
prenda un testo di Barberi Squarotti, Apparsa,
all’alba: è il racconto di un sogno, di una visione, ma di un sogno fatto
«nell’ora in cui i sogni sono veri» e racconta di una ragazza che entra in
stanza, dalla finestra e rappresenta, probabilmente, varie immagini di donna
che al poeta si sono offerte e che, si offriranno. Cerniera tra passato e
futuro, quell’immagine di donna, lungi dall’essere evocata per sfuggevoli
tratta, è figura oltremodo tangibile, si offre nuda nel suo colore bruno di
pelle, calda come dopo una corsa.
Ma
questa che è la cifra stilistica, si diceva, che sottende al libro, è allo
stesso tempo immagine esistenziale, celebrazione vitale: elencare, nominare,
toccare e far toccare con mano significa osannare il miracolo del quotidiano, è
la presa di coscienza de L’eternità del
mondo: «Oh tu che domandi quale senso/ abbia il tuo tempo del passato e
adesso/ la piazza di Monforte sotto il sole/ trionfante, i ciclisti che si
abbeverano/ al bar e acquistano focacce e ambrosia/ per il viaggio verso l’erta
cima/ di Mombarcaro, la ragazza parla/ fittamente col farmacista, trema,/ si fa
pallida, alza le mani al cielo/ […] Tutto/ questo e tanto ancora guarda:
bastano/ a fare che continui il mondo,/ in ogni/ istante altro si aggiunge, e,
stupefatto,/ il Creatore ne è, e con ansia e affanno/ si affretta a registrare
(o forse teme/ o è felicità?)//».
Eternità
del mondo, eternità di sguardi, volti e azioni dall’infinita prole, infinito
attraversamento: ecco celebrato il miracolo della vita, ecco celebrato il
miracolo della poesia.
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