di Elio Giunta
Vien di pensare a Salvatore
Quasimodo che, in uno dei suoi testi più noti, cantava così lo smarrimento dei
poeti difronte ai tragici fatti della resistenza: “Come potevamo noi cantare/
con il ferro straniero sopra il cuore…Alle fronde dei salici, per voto/…le
nostre cetre erano appese …”. Cioè, per Quasimodo, essendo sconvolti come testimoni del
male, i poeti non si sentivano di scrivere poesie. Oggi, non siamo proprio col ferro straniero
sopra il cuore, benché quasi, ma in una società oppressa dalle ferree leggi dei
mercati, sì. Viviamo tempi di
indifferenza o di misconoscenza difronte all’ingiustizia di chi ricco si fa più
ricco e di chi povero non ha prospettive, a causa di una crisi che ha le sue
ragioni storiche ma soprattutto ha le colpe umane, figlie di una
globalizzazione dominata dal criminale affarismo finanziario, contro il quale
si fa poco o nulla.
Ebbene, difronte a questo male, che
in fondo sa di conseguenza di una guerra permanente tra poteri e potentati
diversi, i poeti questa volta, invece di appendere le cetre ad oscillare al
triste vento, le hanno innalzate, dimostrando con i loro canti una partecipazione
consapevole alle vicende del tempo. E’ accaduto infatti che, ad un appello di
un poeta di Villabate, Giovanni Dino,
si sono prestati in gran numero da tutta Italia per dire la loro, a modo loro,
recriminando o ironizzando, rendendo possibile la pubblicazione di una
originale antologia di poesia d’impegno civile, che non dovrebbe mancare di
essere presa in debita considerazione e di far discutere.
Intanto da registrare come
notevole, oltre alla bella veste editoriale data dalla Fondazione Thule cultura
di Palermo, il fatto che i firmatari provengano da tutte le parti della
penisola e di essi più di qualche nome è alquanto noto per sicuro prestigio nel
mondo letterario. Segno che le motivazioni dell’invito erano alquanto
convincenti e la spinta problematica parte viva dell’umanità della poesia.
Il volume ha dunque una prima
motivazione in quanto costituisce una denuncia di peso. E lo è intanto allorché
il curatore e ispiratore stesso, nella postfazione, sciorina in una specie di
litania l’analisi della realtà attuale contro la quale va presa coscienza.
Ecco: la povertà diffusa, con i pensionati, le famiglie che non arrivano alla
fine del mese e sono oppresse da tasse ingiuste; l’impoverimento del commercio,
con botteghe che chiudono, aziende indebitate, piccoli imprenditori che
falliscono; i bambini che tornano da scuola a casa e trovano lo squallore della
disoccupazione; i precari e i part-time senza speranze; i laureati con i loro
master inutili; il senso di malinconia e di sconfitta di quanti si sono
rassegnati ad essere poveri.
Da tutti questi elementi si
evidenzia in modo chiaro cosa comporta questa crisi, che è soprattutto crisi
del ceto medio e che quindi prevede l’inesorabile scivolare della collettività
tutta verso il declino: una crisi dunque di civiltà che, sia detto a chiare
lettere, significa regresso.
Allora, se le voci dei poeti si
sono lasciate raccogliere dietro tale tematica, il che vuol dire condivisione,
ne consegue che i poeti aderiscono ad una clamorosa presa di coscienza, con l’intento
di costituire forte voce di protesta. In altre parole, con questo libro, i
poeti innalzano il grido degli intellettuali contro il cattivo andazzo delle
cose: insomma loro, i poeti, che conoscono bene la funzione della parola, non
disdegnano affatto di piegarla anche alla cronaca o all’immagine di un reale
pratico per estrarne un coro, a più e svariate intonazioni, magari questa volta
fuori dall’usuale liricità, perché risulti epopea di un’attuale ansia di
giustizia.
Difficile, quasi impossibile, riferire
delle troppe impressioni ed emozioni che questi ben 179 poeti disseminano in
questo libro; difficile riportare una sintesi circa le immagini di verità umana
che da esso emergono: anche da un semplice sfoglio delle pagine si colgono
figure, luoghi e sentimenti quali a noi noti attraverso le cronache, per
esempio, quelle del Festino tra i vicoli poveri, i capannoni chiusi per
dismessa attività, l’espressione dei nonni che trepidano per la sorte dei
nipoti, il disdegno del negro sudato con gli abiti lisi, il macabro spettacolo
delle bare allineate a Lampedusa; ed ancora: il disoccupato che porta in giro
la sua depressione, l’anatema contro il dio denaro, e i lavoratori che vanno
alle adunate senza entusiasmo o quelli che non osano nemmeno entrare al supermercato
per le scarpe rotte.
C’è dunque nelle voci dei poeti, di
alcuni in particolare, un esprimersi con acuto senso della realtà e un toccarne
le cause senza infingimenti. Vige in essi chiarezza e semplicità di parola,
giacché, come scrive il Dino quasi a fornire una sintesi: “La povertà è voluta
dalle mafie/ da multinazionali e religioni/protette da politici di turno/ da
compiacenti camici colletti divise/ con esperti mangiauomini/ dagli occhi
angelici e parlantina gentile/ che tengono operosi sazi docili/ legati ai fili
della loro logica/ che generano oscure reti di complicità, servilismo e
omertà.” C’è di tutto, come aspro rinfaccio.
Si dirà: ma, a che vale? Cosa
contano, che possono fare i poeti?
Intanto svegliare le coscienze. Quindi, con la singolarità della loro
parola rendere più visibile il tipo di disagio in cui si dibatte la nostra
epoca; infine, e soprattutto, difendere l’uomo, infatti se è vero che la
povertà umilia l’uomo, è persino doveroso che il poeta si erga a difesa
dell’uomo.
Non deve poi sfuggire il
significato di questa straordinaria operazione letteraria. Essa costituisce da
un lato una specie di campionario dell’Italia che pensa fuori da interessi e
compiacenze e, trattandosi di interventi di scrittori, campionario di un’Italia
che vanta prestigio; dall’altro, ben rappresenta una sfida alla politica. Se
infatti la politica suole trattare le condizioni umane dell’epoca secondo il
suo sistema della paroleria furba ed effimera, ecco che ci sono coloro che di
contro usano la parola che incide. I poeti appunto.
Si legga, ad esempio, “Lo chiamano
progresso/ questo sciame di politici corrotti/ che ammorbano le nostre
città…nel mondo capovolto/solo i poeti si aggirano/ come anime spettrali/
recando un lumino tra le mani.” Oppure: “ I poeti nel silenzio loro/fanno ben
più rumore/ di una dorata cupola di stelle.”
E per concludere, questo libro
potrebbe anche essere inteso come un ruggito storico inteso ad investire le
sorti dell’epoca e quindi valere anche da invito a rivedere la storia della
poesia dei nostri giorni. Sarebbe un tornare a ridiscutere il tema dell’impegno
o del disimpegno della letteratura nel tempo. Certo, come si sa da sempre, se
si tratta di affrontare gravi accadimenti e combattere qualche battaglia, i
poeti, in quanto poeti, non imbracciano certo i fucili, ma è importante che,
quando occorre, facciano sapere che comunque ci sono. La loro scrittura
partecipativa è importante per definire la loro non distaccata presenza. E’
quanto può forse costituire il valore essenziale di quest’antologia.
Siamo stufi di parole artificiose,
di una ripetitività fatua e stucchevole di termini come crescita e pil,
congiuntura, concertazione e flessibilità; di una logorrea politica televisiva
e autocelebrativa; siamo stufi del senso diffuso di approssimazione su tutto.
Ben vengano dunque con qualsiasi forma e cadenza le parole dei poeti, che sono
esattamente il contrario. Le parole dei poeti costruiscono e determinano, anche
quando solo alludono o interpretano o denunciano. Ed oltretutto hanno l’effetto
di risuonare a lungo come monito, di non essere facilmente cancellate.
Resistono infatti sulla carta, a volte a commuovere, ma spesso anche ad
infastidire beneficamente e sempre a illuminare la ricerca di verità.
Faccio notare che nel riportare i versi di Quasimodo è stata commessa una "svista". Sopra il cuore non è il "ferro", ma il piede! Leggasi dunque: "E come potevamo noi cantare/ con il piede straniero sopra il cuore". Suggerisco, pertanto, di apportare la dovuta correzione.
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