giovedì 18 febbraio 2016

Giovanni Dino, "I poeti e la crisi" (Ed. Thule)

di Elio Giunta

Vien di pensare a Salvatore Quasimodo che, in uno dei suoi testi più noti, cantava così lo smarrimento dei poeti difronte ai tragici fatti della resistenza: “Come potevamo noi cantare/ con il ferro straniero sopra il cuore…Alle fronde dei salici, per voto/…le nostre cetre erano appese …”. Cioè, per Quasimodo, uzQuasimodo,Qyasimoessendo sconvolti come testimoni del male, i poeti non si sentivano di scrivere poesie.  Oggi, non siamo proprio col ferro straniero sopra il cuore, benché quasi, ma in una società oppressa dalle ferree leggi dei mercati, sì.  Viviamo tempi di indifferenza o di misconoscenza difronte all’ingiustizia di chi ricco si fa più ricco e di chi povero non ha prospettive, a causa di una crisi che ha le sue ragioni storiche ma soprattutto ha le colpe umane, figlie di una globalizzazione dominata dal criminale affarismo finanziario, contro il quale si fa poco o nulla.
Ebbene, difronte a questo male, che in fondo sa di conseguenza di una guerra permanente tra poteri e potentati diversi, i poeti questa volta, invece di appendere le cetre ad oscillare al triste vento, le hanno innalzate, dimostrando con i loro canti una partecipazione consapevole alle vicende del tempo. E’ accaduto infatti che, ad un appello di un poeta di Villabate, Giovanni Dino, si sono prestati in gran numero da tutta Italia per dire la loro, a modo loro, recriminando o ironizzando, rendendo possibile la pubblicazione di una originale antologia di poesia d’impegno civile, che non dovrebbe mancare di essere presa in debita considerazione e di far discutere.
Intanto da registrare come notevole, oltre alla bella veste editoriale data dalla Fondazione Thule cultura di Palermo, il fatto che i firmatari provengano da tutte le parti della penisola e di essi più di qualche nome è alquanto noto per sicuro prestigio nel mondo letterario. Segno che le motivazioni dell’invito erano alquanto convincenti e la spinta problematica parte viva dell’umanità della poesia.
Il volume ha dunque una prima motivazione in quanto costituisce una denuncia di peso. E lo è intanto allorché il curatore e ispiratore stesso, nella postfazione, sciorina in una specie di litania l’analisi della realtà attuale contro la quale va presa coscienza. Ecco: la povertà diffusa, con i pensionati, le famiglie che non arrivano alla fine del mese e sono oppresse da tasse ingiuste; l’impoverimento del commercio, con botteghe che chiudono, aziende indebitate, piccoli imprenditori che falliscono; i bambini che tornano da scuola a casa e trovano lo squallore della disoccupazione; i precari e i part-time senza speranze; i laureati con i loro master inutili; il senso di malinconia e di sconfitta di quanti si sono rassegnati ad essere poveri.
Da tutti questi elementi si evidenzia in modo chiaro cosa comporta questa crisi, che è soprattutto crisi del ceto medio e che quindi prevede l’inesorabile scivolare della collettività tutta verso il declino: una crisi dunque di civiltà che, sia detto a chiare lettere, significa regresso.
Allora, se le voci dei poeti si sono lasciate raccogliere dietro tale tematica, il che vuol dire condivisione, ne consegue che i poeti aderiscono ad una clamorosa presa di coscienza, con l’intento di costituire forte voce di protesta. In altre parole, con questo libro, i poeti innalzano il grido degli intellettuali contro il cattivo andazzo delle cose: insomma loro, i poeti, che conoscono bene la funzione della parola, non disdegnano affatto di piegarla anche alla cronaca o all’immagine di un reale pratico per estrarne un coro, a più e svariate intonazioni, magari questa volta fuori dall’usuale liricità, perché risulti epopea di un’attuale ansia di giustizia.
Difficile, quasi impossibile, riferire delle troppe impressioni ed emozioni che questi ben 179 poeti disseminano in questo libro; difficile riportare una sintesi circa le immagini di verità umana che da esso emergono: anche da un semplice sfoglio delle pagine si colgono figure, luoghi e sentimenti quali a noi noti attraverso le cronache, per esempio, quelle del Festino tra i vicoli poveri, i capannoni chiusi per dismessa attività, l’espressione dei nonni che trepidano per la sorte dei nipoti, il disdegno del negro sudato con gli abiti lisi, il macabro spettacolo delle bare allineate a Lampedusa; ed ancora: il disoccupato che porta in giro la sua depressione, l’anatema contro il dio denaro, e i lavoratori che vanno alle adunate senza entusiasmo o quelli che non osano nemmeno entrare al supermercato per le scarpe rotte.
C’è dunque nelle voci dei poeti, di alcuni in particolare, un esprimersi con acuto senso della realtà e un toccarne le cause senza infingimenti. Vige in essi chiarezza e semplicità di parola, giacché, come scrive il Dino quasi a fornire una sintesi: “La povertà è voluta dalle mafie/ da multinazionali e religioni/protette da politici di turno/ da compiacenti camici colletti divise/ con esperti mangiauomini/ dagli occhi angelici e parlantina gentile/ che tengono operosi sazi docili/ legati ai fili della loro logica/ che generano oscure reti di complicità, servilismo e omertà.” C’è di tutto, come aspro rinfaccio.
Si dirà: ma, a che vale? Cosa contano, che possono fare i poeti?  Intanto svegliare le coscienze. Quindi, con la singolarità della loro parola rendere più visibile il tipo di disagio in cui si dibatte la nostra epoca; infine, e soprattutto, difendere l’uomo, infatti se è vero che la povertà umilia l’uomo, è persino doveroso che il poeta si erga a difesa dell’uomo.
Non deve poi sfuggire il significato di questa straordinaria operazione letteraria. Essa costituisce da un lato una specie di campionario dell’Italia che pensa fuori da interessi e compiacenze e, trattandosi di interventi di scrittori, campionario di un’Italia che vanta prestigio; dall’altro, ben rappresenta una sfida alla politica. Se infatti la politica suole trattare le condizioni umane dell’epoca secondo il suo sistema della paroleria furba ed effimera, ecco che ci sono coloro che di contro usano la parola che incide. I poeti appunto.
Si legga, ad esempio, “Lo chiamano progresso/ questo sciame di politici corrotti/ che ammorbano le nostre città…nel mondo capovolto/solo i poeti si aggirano/ come anime spettrali/ recando un lumino tra le mani.” Oppure: “ I poeti nel silenzio loro/fanno ben più rumore/ di una dorata cupola di stelle.”
E per concludere, questo libro potrebbe anche essere inteso come un ruggito storico inteso ad investire le sorti dell’epoca e quindi valere anche da invito a rivedere la storia della poesia dei nostri giorni. Sarebbe un tornare a ridiscutere il tema dell’impegno o del disimpegno della letteratura nel tempo. Certo, come si sa da sempre, se si tratta di affrontare gravi accadimenti e combattere qualche battaglia, i poeti, in quanto poeti, non imbracciano certo i fucili, ma è importante che, quando occorre, facciano sapere che comunque ci sono. La loro scrittura partecipativa è importante per definire la loro non distaccata presenza. E’ quanto può forse costituire il valore essenziale di quest’antologia.
Siamo stufi di parole artificiose, di una ripetitività fatua e stucchevole di termini come crescita e pil, congiuntura, concertazione e flessibilità; di una logorrea politica televisiva e autocelebrativa; siamo stufi del senso diffuso di approssimazione su tutto. Ben vengano dunque con qualsiasi forma e cadenza le parole dei poeti, che sono esattamente il contrario. Le parole dei poeti costruiscono e determinano, anche quando solo alludono o interpretano o denunciano. Ed oltretutto hanno l’effetto di risuonare a lungo come monito, di non essere facilmente cancellate. Resistono infatti sulla carta, a volte a commuovere, ma spesso anche ad infastidire beneficamente e sempre a illuminare la ricerca di verità.

1 commento:

  1. Faccio notare che nel riportare i versi di Quasimodo è stata commessa una "svista". Sopra il cuore non è il "ferro", ma il piede! Leggasi dunque: "E come potevamo noi cantare/ con il piede straniero sopra il cuore". Suggerisco, pertanto, di apportare la dovuta correzione.

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